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Appello agli insegnanti: «Il 7 gennaio dedicate la prima ora di lezione a parlare di sicurezza stradale»

La proposta del piacentino Davide Scotti, fondatore del movimento “Italia Loves Sicurezza”

Nella convinzione che la scuola sia il luogo deputato per creare conoscenza e cultura e consapevoli che la battaglia contro gli incidenti si combatte attraverso un cambiamento culturale, il movimento “Italia Loves Sicurezza” chiede agli insegnanti italiani di contribuire alla creazione di una cultura incentrata sulla prevenzione e sulla consapevolezza che amare la vita significhi vivere in sicurezza.
«Da anni - spiega Davide Scotti, piacentino, fondatore del movimento - il movimento Italia Loves Sicurezza agisce per sensibilizzare giovani e adulti a riflettere in maniera profonda su questi temi e ad agire per cambiare profondamente la cultura della sicurezza In Italia. A questo fine invitiamo gli insegnanti delle scuole secondarie a dedicare la prima ora di lezione di martedì 7 gennaio, giorno di ripresa delle attività scolastiche, ad affrontare in classe il tema dei comportamenti sulla strada (in quanto pedoni, automobilisti, ciclisti), magari proprio a partire dal recente caso dell’incidente di Roma che è costato la vita alle due studentesse sedicenni».

«Quello che conta - sottolinea Scotti - è far parlare prima di tutto i ragazzi aiutandoli a riflettere sui comportamenti collettivi e, perché no, all’autocritica, per renderli più consapevoli e partecipi di un problema che li riguarda, purtroppo, molto da vicino».

Di seguito il testo che il movimento propone di far leggere agli studenti, e da cui far partire una discussione. Il testo può essere modificato, tagliato, ampliato, salvaguardando la finalità di far riflettere sul necessario cambiamento culturale quale leva per ispirare comportamenti sicuri in ogni contesto.

Proposta di un testo da leggere e commentare (Il testo può essere modificato, tagliato, ampliato, salvaguardandone la finalità).

L’inizio delle ultime vacanze di Natale, per milioni di studenti italiani, è stato aperto da una notizia tragica, un evento nefasto per due studentesse romane, un dolore immenso e incommensurabile per le loro famiglie. Siamo a Roma, la sera del 21 dicembre. Due ragazze di 16 anni, Gaia e Camilla, attraversano una strada ad alto scorrimento e vengono investite e uccise da un SUV guidato da Pietro, il figlio ventenne di un famoso regista. Una vicenda che ha fatto notizia e che ha sicuramente scosso molti di noi, con il pensiero che corre naturalmente alle tante giovani vite distrutte in un solo istante.
Possiamo rientrare nelle aule della nostra scuola, affrontare la ripresa dell’anno scolastico, indifferenti a questa tragedia e a ciò che l’ha provocata? La risposta è no.
Spesso episodi come questo ci sconvolgono, ma poi ce ne dimentichiamo in fretta. Leggiamo le cronache sui giornali con tristezza e rabbia per qualche giorno, poi ci acquietiamo, soprattutto una volta trovato il colpevole, ritorniamo a fare le nostre vite, sperando che non accada a noi, ai nostri figli, ai nostri parenti e amici.
Ma così, purtroppo, non cambia nulla. Perché in Italia ci sono nove vittime della strada ogni giorno, di cui due sono pedoni investiti. Domani ci sarà un altro incidente, e dopodomani ancora, anche se non ne sentiremo per forza parlare sui giornali, perché magari farà meno “notizia”. Ma non per questo si eviteranno altre morti, altre famiglie spezzate; si darà la colpa di volta in volta all’abuso di alcol, alle distrazioni del telefonino, all’alta velocità, all’incuria per la manutenzione delle strade - tutte, si badi bene, colpe gravissime. Ma l’assassino che agisce subdolamente nel profondo, quello resta impunito. Perché il colpevole di queste morti sulla strada è uno solo: la nostra CULTURA (o non-cultura), il nostro modo “NORMALE” di fare le cose.
Al di là delle responsabilità che verranno accertate dalle indagini e dai processi per il fatto specifico, dobbiamo diventare tutti più consapevoli che ad uccidere Gaia e Camilla, e tutte quelle nove persone che ogni giorno perdono la vita sulle strade, è stato un insieme di comportamenti e abitudini, di convinzioni e sensibilità: un certo tipo di “cultura” diffusa, che ci porta spesso a sottovalutare il rischio e a sovrastimare la nostra possibilità di affrontare i pericoli.
Non è forse vero che per chi nasce e cresce in Italia è NORMALE attraversare a piedi col semaforo rosso, non fermarsi con l’auto alle strisce pedonali, infrangere il codice della strada, superare i limiti di velocità (magari appena passato l’autovelox), non indossare le cinture di sicurezza sui sedili posteriori o farsi distrarre dal telefono durante la guida? Quante volte noi per primi abbiamo messo in atto questi comportamenti, senza renderci conto che così mettiamo in pericolo non solo noi stessi e chi ci sta attorno, ma anche chi ci guarda, ci ascolta e impara da noi? I ragazzi crescono imbrigliati in questo modo di agire, lo imitano, lo replicano, lo portano alle estreme conseguenze. Se vogliamo cambiare le cose, dobbiamo riconoscere che l’assassino è, prima di tutto, la nostra cultura, cioè il modo in cui facciamo le cose, o tolleriamo che vengano fatte. Chiediamoci se siamo complici nell’alimentare questa cultura.
Così come è NORMALE poi pretendere “giustizia” e chiudere il caso non appena si è trovato il capro espiatorio, senza invece chiedersi innanzitutto PERCHÉ scegliamo ad esempio di attraversare la strada dove capita, metterci al volante in condizioni proibitive, superare i limiti di velocità, essere distratti dal cellulare o non allacciare la cintura sui sedili posteriori o sui bus. E potremmo andare avanti con tanti altri esempi.
Ma attenzione, la colpa non è solo di chi muore. C’è un killer, un killer che usa astuzia e spietatezza. Che beneficia della complicità di tanti, ad esempio di tutti quelli che in precedenza hanno attraversato quella strada in quello stesso modo, di tutti quelli che si sono messi alla guida in quel modo, di tutti quelli che non hanno allacciato quella cintura, etc...
Per questo ogni volta dovremmo chiederci: “chi hanno imitato? quanti prima di loro lo hanno fatto? quando è stato fatto la prima volta? chi era lì accanto che cosa ha pensato? che cosa poteva fare?” A volte si vuole mostrare al gruppo o a se stessi di “essere capaci di farlo”, puntando sulla fortuna, sulla probabilità: “si sa, 99 volte su 100 non succede niente”. Ma talvolta si sommano gli effetti di comportamenti che sfidano il pericolo e quello che non doveva accade, quello che non era nelle nostre intenzioni avviene e ci uccide...
Il nome del killer allora è sempre lo stesso: quella cultura definita come “modo di fare le cose". Ed è per questo che non possiamo considerare quello di Roma un CASO CHIUSO, perché il vero assassino, se non ne parlassimo più, colpirebbe ancora, sempre indisturbato, dal momento che noi continuiamo ad accettare che qualcuno possa considerare normale avere comportamenti che sono la negazione della vita.
E allora qui, TUTTI noi insegnanti e studenti, abbiamo la responsabilità e l’opportunità di contribuire insieme ad iniziare un cambiamento culturale, affinché non possa mai più essere considerato da nessuno NORMALE che nove persone siano ogni giorno il prezzo da pagare per questo nostro modo di vivere. Scegliamo di esercitare una influenza positiva, di essere un esempio positivo, difendendo il bene più prezioso che abbiamo, LA VITA. Creiamo tutti insieme una nuova cultura, un nuovo modo di fare le cose che ci aiuti a proteggere il nostro futuro e quello degli altri.

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