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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Cartolina da Piacenza

Da un po’ di temo a questa parte qualche turista la domenica si vede in città , di solito fra Piazza d’Uomo e quella dei Cavalli. Sono piccoli gruppetti preceduti dalla guida. Un giovane o una giovane, che tiene in mano un’asta, a volte lo stesso ombrello, che ha in cima una bandierina per farsi riconoscere. La giornata della visita normalmente è domenica, giorno libero da impegni lavorativi e che pertanto si presta per la gite turistiche. Perché Piacenza? Non si sa , eppure si dovrebbe sapere se fossimo noi piacentini consapevoli delle bellezze di cui la nostra città è dotata. Ma poiché queste vengono spesso e volentieri tenute nascoste, causa la nostra abitudine ad affrontare il tema della nostra identità non a livello pubblico, ma attraverso l’aspetto privato che spesso significa individuale, queste frange turistiche ci suscitano l’incredulità di una domanda: chi sono e da dove vengono questi ostinati volontari del turismo che sono approdati non si sa come a Piacenza? Con in aggiunta il sospetto che non sempre la nostra città sia inclusa nei vari tour operator dei vari luoghi d’arte? Impressioni. Per esorcizzare la domanda, voglio allora identificarmi con uno di questi stacanovisti viaggiatori, che sono approdati in casa nostra, alla ricerca di scoprire quel che noi del posto non sappiamo né vogliamo valorizzare. Preferisco essere da solo e raggiungere Piacenza, provenendo da Parma, utilizzando la ferrovia. Una strada ferrata che come i piacentini dovrebbero sapere, fiancheggia la via Emilia, chiamata così dal nome di chi la fece costruire, il console M. Emilio Lepido. Strada facendo incontro diverse stazioni, fra cui quella di Fidenza un tempo chiamata Borgo San Donnino e poi a seguire Fiorenzuola e Pontenure, così nomata dal torrente Nure che rappresenta dopo la Trebbia il secondo corso d’acqua del territorio piacentino. Arrivo. Guardo la stazione simile a tante altre, perché costruite tutte nella stessa epoca, fatta di un unico edificio rettangolare, al cui piano terra occhieggiano sportelli per i biglietti, tabelloni con scritte un tempo fisse ed oggi mobili, che segnalano gli orari dei treni e poi l’ edicola dei giornali ( oggi chiusa). In contiguità l’immancabile bar-caffè. Nell’atrio, la solita e numerosa gente in attesa. Mi avvicino ad un signore che dall’aspetto mi sembra conciliante e chiedo. È’ antica Piacenza? A volte la fortuna ti dà una mano. Trattasi infatti di un uomo di discreta cultura, lì, in attesa di recarsi a Bologna per andare a trovare un figlio che nella città di San Petronio ha una attività di libraio. E’ una città , lui dice, che si perde nella notte dei tempi. Poi continua a dire quel ( poco)che sa . Circa 200 anni prima dell’era volgare, diventò colonia romana e venne chiamata Placentia ,perché situata in un territorio piacevole per i luoghi e importante per le stesse ragioni. In quanto governando il passaggio sul Po, offriva a Roma un baluardo strategico per contenere le eventuali invasioni dei bellicosi popoli della Gallia. Poi nel medioevo, fa seguito un ritaglio di memoria alquanto confusa da parte dello stesso interlocutore, ed allora vengono menzionati episodi legati alla città fortificata, alla Lega Lombarda, alle lotte fra famiglie potenti quali i Visconti , gli Scotti, gli Anguissola ed i Pallavicino. E ancora, i fatti del saccheggio di Francesco Sforza e per ultimo la supremazia della dinastia Farnese che la riunirono nel ducato di Parma. Ringrazio della spiegazione, un bigino di storia, il suo, alquanto improvvisato ed abborracciato ed esco dalla stazione per vedere la città. Dove compare lo spazio antistante, occupato da macchine cui segue una strada trafficata da superare attraverso un sottopassaggio, poco o per nulla utilizzato. Me ne accorgo osservando le persone che attraversano la strada singolarmente o a piccoli gruppi senza avvalersi del già detto sottopassaggio. La spiegazione è palese: tutte e quatto le scale mobili non funzionano. Non mi rimane che attraversare anch’io la strada. Davanti a me mi si presenta un monumento imponente che introduce uno spazio alberato, delimitato da una cancellata in ferro ad aste allineate e non troppo alta. Chi è mi chiedo quella statua monumentale, non potendola osservare interamente dalla prospettiva in cui mi trovo? Il motivo? La vegetazione incolta, un fogliame che da destra impedisce la visione, proveniente da un abete esuberante nella sua ostinazione a crescere. Devo allora spostarmi verso sinistra, e finalmente mi accorgo che trattasi di Garibaldi con uno sguardo intenso proiettato verso il lontano avvenire. Ai suoi piedi, sempre fra un siepi e arbusti , un garibaldino che nonostante l’atteggiamento di voler incitare al combattimento, in realtà sembra un sopravvissuto di cui si è persa memoria. O forse trattasi di un extracomunitario messo lì per celebrare il diritto all’accoglienza da parte di chiunque voglia giungere nella città. La quale dalle prime osservazioni, anche se chiamasi Piacenza, in realtà comincia a piacere un po’ meno. Dietro al monumento, staziona un furgone adibito a vendita di bibite e panini. Ed ancora più dietro, una ex fontana di cui sono rimaste solo la rotonda e delimitante cornice in cemento, nel cui interno si notano sassi e pietre gettate a caso, sporcizia di ogni genere e pozzanghere verosimilmente di liquidi organici che per essere sempre presenti , hanno l’abitudine di rinnovarsi periodicamente. Un gruppetto di giovani dalla pelle scura concionano rumorosi nelle loro lingue sconosciute, ma piene di aspirati, mentre bevono birre in lattina.. Mi inoltro nei sentieri dello spazio alberato ( un giardino pubblico?) ed incontro piccoli monumenti e statue in ordine non cronologico, ai lati del vialetti ricoperti da pietrisco e corredati da panchine di metallo di foggia lavorata, dunque dal sapore ottocentesco, ma con gli schienali e sedili in liste di legno consunte, vischiose e in parte rotte per l’infarcimento dell’umidità o addirittura mancanti. Tutt’attorno zone d’ erba non curata con ciuffi alti che sembrano arbusti. Sporcizia diffusa. Carte, lattine abbandonate e qualche siringa lasciata per ricordo, danno l’impressione di un degrado ormai cronico. Stabilizzato, accettato e subito. Intanto esco dal cancello che funziona da uscita situato nelle direzione opposta al citato Garibaldi e mi trovo nella via che si intitola a Giulio Alberoni di cui vedo la scritta sulla sua casa di nascita posta sulla destra della stessa strada. Chi è? Leggo la lapide infissa sulla parete. Essa parla del famoso cardinale piacentino,( ma in realtà nato a Fiorenzuola d’Arda nel 1664) che ha svolto il ruolo di primo ministro alla corte borbonica di Spagna ed a cui è stato intitolato l’antico e nobile seminario di San Lazzaro da lui realizzato e per questo chiamato Alberoni. Intanto sulla sinistra si affaccia la chiesa di San Savino, secondo vescovo di Piacenza dopo san Vittore, come mi precisa un prelato che casualmente incontro sulla scalinata che dà accesso al tempio. Trattasi di una antica basilica che ha un frontale però di aspetto seicentesco, preceduto da un pronao a colonne binate molto gradevole. Davanti al tempio un lungo e stretto Giardino per le dimensioni e la conformazione assomiglia ad un merluzzo ed è così chiamato, come mi conferma un venditore di giornale la cui edicola è posta verso la parte stretta, metaforicamente verso la coda del ricordato pesce. Intanto questa è la visione. Panchine qua e là dai legni marciti e mancanti. Bottigliette e lattine sparse in abbondanza. Carte e rifiuti in libera concorrenza fra loro. Avanzo e svolto poco più avanti a sinistra per raggiungere piazza Duomo. Porticati tutt’attorno e colonna al centro inneggiante la Madonna. Finalmente posso ammirare il Duomo in tutta la sua maestà. Immagine di grande suggestione. Facciata a capanna, in arenaria e marmo rosa tripartita da due pilastri verticali, con al centro un rosone ampio e solenne. Mentre in basso, offrono leggerezza e grazia, tre portali sormontati da protiri con capitelli architravi, formelle e cariatidi. Imponente alla vista il campanile in laterizio, la cui cella campanaria si apre verso l’esterno con quattro quadrifore. Al culmine la statua dell’angelo, protettore della città, in rame dorato, come mi dicono alcune persone ferme stazionante ad un bar, suggerendomi senza però grande convinzione che debba muoversi col variare del vento. Visione, ripeto quella del Duomo ,superba le cui origini datano attorno al dodicesimo secolo. Entro. Spazio ampio, smisurato, occupato in parte da panche e sedie. Al centro della croce latina osservo la cupola affrescata. Il Guercino e il Carracci si contendono le immagini di un fascino antico e moderno, quindi fuori dal tempo. Esco con animo consolato e proseguo per la via che mi condurrà in Piazza Cavalli, chiamata a ricordo di Porta Pia, Venti settembre. Lunga e stretta è fiancheggiata da negozi senza discontinuità, in parte chiusi per il giorno festivo. Gente che va e viene, numerosa e vociante. Finalmente in piazza dei cavalli. Cosi chiamata per la presenza di due statue equestri fatte dal Mochi, uno scolaro del Gian Bologna, a me non nuove per averle viste in una pubblicazione. Chi e cosa rappresentano? Chiedo lumi ad un personaggio che staziona sotto i portici di una costruzione moderna, costruita nel ventennio prospicente la piazza. Rappresentano i Farnese, la risposta. Alessandro, condottiero di eserciti e Il figlio Ranuccio principe da alcuni definito prepotente e crudele. Non infierisco con altre domande, perché temo non avrebbero soddisfatto la mia curiosità. Mi avvicino e osservo le statue. La loro imponenza e bellezza mi prendono. Intanto riosservo la piazza dove metto i piedi. La pavimentazione si presenta a chiazze come fosse un gioco di dama, causa le pietre di colore non uguale, perché mal sostituite rispetto al quelle originali rovinate. La vista però ende verso il Palazzo detto Gotico, un tempo Palazzo del Comune. Merlato come un castello, è disposto in due parti. Quella inferiori in marmo bianco a cinque arcate gotiche e l’altra superiore in laterizio ornato da finestroni ampi e sorretti da trifore e quadrifore delimitate da colonnine in marmo bianco, esili ed eleganti. A loro volta sormontati da archi a tutto sesto, non aggettanti e ripetuti in linea crescente su ogni apertura. Che questo palazzo sia una delle opere più superbe del XIII secolo in Italia? Questa la mia convinzione. Intanto sulla sinistra rispetto al palazzo osservo uno spiazzo, con sullo sfondo una imponente chiesa romanica di grande fascino, uno slargo, dicevo, dove è innalzata una statua dallo sguardo pensoso. Chiedo a un giovane che aveva probabilmente altro da pensare, chi fosse quel ritratto. Mi risponde svagatamente e per sentito dire, mi dice che dovrebbe trattarsi di Romagnosi. Romagnosi chi? Nessuna precisazione. Mi rivolgo ad altri che stazionano nel bar lì vicino ed anche loro confermano il nome del titolare del monumento, ma senza aggiungere altro. Non per poca gentilezza, ma per poca cultura cittadina. Penso allora che il cellulare mi potrebbe dare una mano. Clicco e mi compare la scritta. Trattasi di Gian Domenico Romagnosi, anche lui con un nome oltre al cognome che quei piacentini ignorano. Continuo a spulciare notizie biografiche. Scopro che è stato un giureconsulto, il quale dette lezioni di diritto alle Università di Parma e Milano. Nato a Salsomaggiore nel 1761, dimorò per lungo tempo a Piacenza e vi morì nel 1835. Prendo atto delle notizie via internet e riguardo la statua. L’atteggiamento pensoso dell’inizio, mi sembra diventato sempre più torvo, causa la assenza di cura verso il monumento da parte delle istituzioni pubbliche. Una crepola nerastra di sporco consolidato, ricopre infatti buona parte del vestito e dall’insieme traspare una dimenticanza colpevole che giustifica il ruolo di Carneade affidatogli dalla cittadinanza. Rimane come consolazione la vista della chiesa di San Francesco. Facciata in laterizio imponente e sobria dove lo stile romanico appare in tutto la sua perfezione di stile e forme Tre porte costituiscono l’accesso al tempio. Ma nessuna si apre, tutte sbarrate. Come mi chiedo? La domenica , una chiesa così importante al pubblico? Ebbene sì, forse la carenza di preti, forse lo scarso orgoglio cittadino, le possibili spiegazioni. Intanto l’orologio, specie quello mentale, segna l’ora del ritorno. Piacenza che piace sembra neghittosamente in contrasto con le origini ed il significato del suo nome dove il de coro dei monumenti e l’incuria della loro gestione vanno di pari passo. I due opposti che si toccano, diventano la caratteristica di questa strana città. Da una parte l’esaltazione legata ad insigne opere d’arte, dall’altra la noncuranza di un ambiente, che dimostra e mostra disinteresse per le proprie ricchezze. La cartolina è ormai completa . Manca solo una parola da scrivere: peccato.       

Cartolina da Piacenza

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