Ieri, oggi, domani
Il titolo non rimanda al celebre film di De Sica, ma ad un fatto, tutt’altro che celebre, anzi molto comune, che mi è capitato. Lo racconto. Stavo dal mio amico dentista, un bravo professionista che dopo aver praticato la professione in quel di Milano, si è ritirato per così dire nel suo paese d’origine, situato a una ventina di chilometri dalla nostra città. Il nostro incontro riguardava, fin troppo ovvio, la cura di un dente. Fin qui nulla di particolare. Si procede come si fa di prammatica in cose del genere. Puntura anestetica e aspiratore in bocca. L’anestetico addormenta guancia, lingua e labbro inferiore diventato altro da sé. Non l’ organo che governa, a richiesta, l’ apertura e chiusura della bocca, ma un pezzo di carne accessoria che non si sa più bene a cosa serva, se non a darti la sensazione di un impedimento perfino nell’articolazione sillabica. Tipo rispondere sì oppure, no alle domande di chi vuole capire se può iniziare ad usare quello strano aggetto dal rumore acuto, sibilante e penetrante che non per niente si chiama trapano e che ti entra dentro in modo talmente fastidioso tanto da farti dire, a fine seduta, che più che il dolor potè il rumore. In posizione sdraiata ed incapace di spiaccicare parola, mi affido all’amico che, oltre ad agire in modo sicuro ed efficiente, parla anche con cordialità, coinvolgendomi in un dialogo ad una sola voce. L’argomento? Il futuro non tanto nostro, ma dei figli o peggio ancora dei figli dei figli. Noto che ha desiderio di trattare un tema che gli sta a cuore, anche per mettere a confronto alcune sue idee con quelle dei giovani. Sia di casa che conosciuti nell’attività professionale . Nulla di particolarmente drammatico, forse solo un desiderio di affrontare l’argomento, comune a tutti coloro, generalmente non più giovanissimi, che si ostinano a chiedersi il perché delle cose. In un mondo come quello di oggi, che al posto della solidarietà ,preferisce evidenziare i contrasti e le contraddizioni generazionali. Inizia allora col parlare di sé, quando bambino per recarsi a scuola faceva ogni giorno sette chilometri a piedi. La sveglia era allora alle cinque del mattino, sia d’inverno, quando un freddo pungente intirizziva il suo corpicino in formazione, appena riscaldato da una tazza di latte, munto nella stalla accanto , sia quando la stagione muoveva al tepore primaverile e il vestito di lana spessa, si poteva lungo il percorso slacciare per la temperatura più mite, al fine di rendere più sciolta la marcia. Stesso cammino e stessa fatica al ritorno anche quando la pioggia o la neve inzuppavano l’abito con sotto il grembiulino da scolaro, indumento che una volta a casa, bagnato più che inumidito, doveva essere strizzato per poi metterlo ad asciugare presso il camino per l’indomani. Fatiche di allora che oggi sembrano inverosimili. Ma c’era una differenza fondamentale- egli precisa nel suo racconto. Allora chi aveva voglia di studiare aveva anche una prateria davanti a sé da colonizzare. Le idee erano chiare e le mire altrettanto. Poche divagazioni e molti ideali. Uscire dalla miseria di casa il primo obiettivo. Il secondo, il desiderio di giungere a realizzare la professione vagheggiata prima nella fantasia e poi sempre più desiderata strada facendo. Egli poi continua. Ho sempre avuto l’idea di fare il prete o il dentista. Il perché non lo so, ma sentivo questa esigenza. A quel punto anch’io avrei voluto intervenire per scoprire cause e motivi di certi risvolti psicologici legati alla sua infanzia ,alla famiglia, alle precoci fatiche infantili in casa e a scuola. Ma le condizioni oggettive me lo impedivano. Il colloquio aveva come interlocutore un muto che al massimo poteva annuire con un cenno della testa. Intanto il racconto diventato confessione prosegue. Il bambino cresce. Subentrano gli studi in seminario, medie inferiori e poi liceo. Studio serrato e preparazione solida nel campo delle lettere classiche, ma poi abbandono della vocazione con un certo rincrescimento, causa forse incomprensioni o disguidi di carattere disciplinare. Rimaneva la seconda vocazione: il dentista. Quindi Università. Facoltà di Medicina, frequentata e superata con facilità, grazie alla solida preparazione scolastica( quando gli studi erano seri) e alla mai abbondonata consuetudine allo studio. Segue nel giro di sei anni la Laurea e poi la specializzazione in Odontoiatria. Periodo di formazione professionale in un grande centro a Milano. Imparata l’arte al posto di metterla da parte, il mio facondo amico , dopo alcuni anni, abbandona la grande città e si rintana nel paese di origine, quello dell’infanzia che lo avevano visto consumare, per le lunghe camminate, diverse paia di scarpe. Passione e professione diventano per lui un binomio vincente. Gentile di modi è abile e concreto nel proporre le più diverse soluzioni tecniche, onde soddisfare ogni esigenza per i suoi clienti. All’ abilità professionale, associa anche l’onestà che rappresenta un’altra delle caratteristiche di un uomo semplice ed umile oltre che, come detto, di un valido professionista . Fin qui il suo discorso su ieri e sull’oggi. Ma mentre abilmente mi riserva le ultime attenzioni con le frese che non mi provocano dolore, ma solo una spiacevole sensazione sorda e profonda legata al coinvolgimento osseo, ecco l’affondo sul tema del domani. Quale l’aggettivo migliore per definire il futuro? Per lui non ci sono dubbi. Il futuro è incerto. E l’incertezza diventa allora causa ed effetto di ogni suo ulteriore procedere nel discorso. A cominciare dalle occupazioni dei giovani, che devono misurarsi , con i problemi della disoccupazione causa la crisi economica in fase di stagnazione e senza che si intraveda una chiara svolta per il prossimo futuro. Per cui il tenore di vita, dopo aver dato l’illusione di un benessere stabile, si ritrova a doversi misurare con la ricomparsa di vecchi disagi, apparentemente sconfitti, col dramma di trovare impreparate le nuove generazioni. Continua elencando gli aspetti di una società in rapida trasformazione legata anche ad un’ immigrazione che sconvolge antichi equilibri con un fenomeno di mescolamenti etnici dalle conseguenza difficilmente valutabili. Chiude poi il discorso con un accenno agli aspetti più sentimentali che coinvolgono i giovani alle prese con gli aspetti di una sessualità ibrida, dove la scelta della compagna o compagno di vita si confonde spesso in un equivoco distinguo sulle identità di genere. Difficile da comprendere per chi, come lui, le scelte, in questo campo, le ha maturate al tempo in cui valori e modelli seguivano percorsi rigorosamente tradizionali. Pausa riflessiva. Poi un ultimo scatto. Ovvero il desiderio di una toccata e fuga sul problema religioso in una società sempre più avviata ad un laicismo senza Dio, che per lui memore dei suoi trascorsi in seminario, rischia di comprometterne l’esistenza. Questa su per giù la conversazione, che riporto con molto beneficio d’inventario. E con qualche libertà giornalistica, che si è permessa addirittura l’arbitrio( chiedo venia) di integrare l’ episodio in questione con altri spezzoni confidenziali, detti in tempi diversi, sicuro però di interpretare la personalità e la caratura morale dell’amico. Intanto il trapano ormai costretto ad un insolito silenzio, lascia spazio alla pasta dentaria che serve ad occupare lo spazio provocato della punta vibratrice e perforatrice. Rimosso dalla bocca il fastidioso aspiratore, avrei potuto a quel punto interagire commentando. Ma che dire? Dare ragione all’amico mi sembrava fin troppo ovvio e scontato. E poi quegli assensi col capo non avevano già tradito il mio modo di intendere le cose? Inoltre entrare nel merito di ogni singolo particolare del discorso, non me lo potevo permettere, causa l’ impedimento dell’anestetico ancora incidente su lingua e labbro. L’una impedita nei movimenti e l’altro ancora farmacologicamente paralizzato e insensibile. L’aspetto consolante è stato quello di evitare risposte con parole, magari troppo sentenziose . Mi sono limitato ad assentire, preferendo bofonchiare qualcosa, sperando di farmi capire. In sostanza volevo limitarmi ad elogiare la sua abilità professionale e la volontà ferrea che gli aveva permesso di realizzare l’antico sogno d’infanzia. In fondo il suo sogno era simile al mio. Anch’io avevo sognato e poi realizzato quell’ ideale che sentii fin da piccolo e che mi aveva seguito nella sua oscura determinazione col farmi superare ogni impedimento. Ma come dirlo, in quella condizione. Il rischio era quello di cadere nella retorica della reciproca consolante autocelebrazione. Meglio stringere calorosamente una mano e far parlare il linguaggio corporeo . Quello che non tradisce mai. Essendo il più veritiero dei linguaggi, in quanto non ha bisogno della verbalizzazione, a volte deviata da mille interessi. In quel momento mi limitai a trasmettere in silenzio all’amico, un misto di solidarietà e riconoscenza, due sentimenti che non giungono all’orecchio ma al cuore. Mutacico non mi rimaneva che andarmene, soddisfatto e grato. Ma a distanza di qualche giorno, quello che allora non ho detto, si è risvegliato, mio malgrado, nel ricordo di quell’incontro e mi ha tradito con questo scritto. Per chi? Non lo so e per la verità non me lo sono neppure chiesto. Certe vaghezze si provano e basta. E poi a mo’ di consolazione, c’è sempre qualcuno che le raccoglie. E a quel qualcuno va, assieme al riconoscimento del suo spirito di sopportazione, il mio ringraziamento.