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Venerdì, 29 Marzo 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Il mondo che verrà dopo il Coronavirus

Difficile dire quel che succederà dopo la pandemia. L’età dei profeti infatti è tramontata e quindi bisogna ricorrere alle nostre poche forze intellettuali per cercare di capire quello che sta succedendo. Poi addirittura osare prevedere quel che succederà. Cosa non facile, lo ripeto, ma nello stesso tempo stimolante per due ragioni. La contraddizione in cui si dibatte la nostra società. Cui segue il secondo problema legato ad un nuovo modo di concepire la stessa società. In realtà i due problemi si integrano e l’uno rappresenta la possibile evoluzione dell’altro. Cominciamo comunque didatticamente ad affrontare il primo problema legato alla contraddizione, essenzialmente basata su questi due aspetti: la globalizzazione e la riscoperta delle realtà nazionali definite, in termini negativi, come populismo o sovranismo. La globalizzazione ha rappresentato e ancora per molti rappresenta, l’evoluzione della società moderna. Informazione in tempo reale e comunicazione senza barriere, le sue principali caratteristiche. Cui si aggiunge come terzo elemento il continuo progresso della evoluzione scientifica per dare all’uomo l’idea che non esiste alternativa. In altre parole chi non si adegua è perduto.  E chi non regge al nuovo progresso è un patetico sopravvissuto, destinato prima o poi a scomparire anche fisicamente. Gli osanna a questa teoria si sprecano. Ciononostante qualcosa non torna, anzi ritorna. E questo significa introdurre nella modernità un antico modo di intendere le cose. Quello di contrapporre al globalismo le identità dei popoli. Vale a dire la scoperta o riscoperta del senso della nazione, chiamato con un certo disprezzo dai globalisti, come prima si diceva, sovranismo o peggio ancora populismo. Sembrerebbe così dicendo che non esista gara fra queste due concezioni del vivere. La vittoria sembra assicurata ai globalisti in base a quello che dice e propone la scienza. Non più legata al territorio, ma ad un unico terreno che è diventato il mondo ed il cui destino è quello di diventare sempre più piccolo. Se queste sono le premesse, non ci sarebbe nulla da aggiungere. Ma la storia si diverte a cambiare a volte, se non spesso, le carte intavola. E di questi tempi ci ha pensato il coronavirus a mettere in crisi il decantato aspetto della globalizzazione. Condizione questa paradossale in quanto la stessa parola pandemia rimanda etimologicamente ad un fatto globale ed ultranazionale. Invece cosa capita? Che ogni nazione, per non dire regione, deve trovare i propri mezzi per reggere il terribile flagello. Le nazioni si barricano in casa propria e le frontiere, non solo metaforicamente, si chiudono. Ognuno cerca la soluzione con quel che ha e scopre che il pericolo del virus rimanda ad altri pericoli pandemici che la storia ci ha tramandato. Fra questi la peste, di mai dimenticate memorie letterarie, il colera e quella che abbiamo definito la pandemia spagnola perché nata in quella nazione. Trasferito il problema dalla sanità all’aspetto politico ed economico, ci si accorge di un ritorno dello stato nazionale, cui demandare responsabilità e rimedi. Fra questi ultimi, l’abolizione della libertà di movimento, almeno ci si augura temporaneamente, da parte di tutti per contenere il contagio. Nonostante un non sempre facile accordo con le regioni, è allo stato al quale ci si affida, la speranza di risolvere oltre a quelli sanitari, gli emergenti problemi economici. Lo stato quindi e non l’Europa, unione di nazioni spesso solo sulla carta, che quando serve non esiste. Dunque cosa succede? Un fenomeno nuovo che possiamo chiamare antiglobalista. Anzi di più. Lo stato entra in gioco con provvedimenti economici tali da soverchiare ogni liberismo individuale o di impresa. Il liberismo in economia allora batte in ritirata nei confronti dello stato, che già secondo Hobbes, doveva rappresentare la soluzione per reggere i conflitti fra gli uomini. Spinti dallo spirito di sopravvivenza e nello stesso tempo animati dal desiderio di sopraffazione. Il famoso Leviatano si è dunque risvegliato. Il liberismo ed anche il liberalismo causa la abolizione della libertà di movimento battono in ritirata. Se ne deduce che attualmente, tradotto in politica, il sovranismo abbia il vento in poppa. Oggi. Ma domani cosa avverrà? Difficile, come dicevo all’inizio, saperlo. Sembra comunque sia lecito ipotizzare come il concetto di stato che salva, non debba andare in crisi. Mentre la crisi sarà delle iniziative private che hanno due possibilità.  O dipendere e pendere dallo stato per salvarsi, con l’esisto di rinunciare ad un ritorno alla loro indipendenza economica. Oppure voler rimanere indipendenti, ma rischiare in questo modo il fallimento e quindi chiudere. Strana situazione allora quella del nostro futuro. Dove il ritorno dello stato leviatano ridurrà il liberismo economico e forse metterà anche limiti al liberalismo. Due concezioni queste del vivere libero che erano legate a quello stato liberale che ora le tradisce. Mentre dall’altro canto il globalismo entrato in crisi si riscopre paradossalmente sotto le vesti di una nuova concezione del mondo globale, dove ci si pone il seguente interrogativo. Di non essere più sicuri che i cosiddetti diritti civili di stampo liberale, quali la libertà di pensiero e di iniziativa economica, possano essere mantenuti. Il risultato è che da una sola contraddizione siamo passati a due. Ed a questo punto è giusto chiederci quale sia meglio.  Per dare una risposta, ricorro allora a Croce. Per il quale il liberalismo non deve legarsi al senso dello stato leviatano che aiuta ma poi pretende, ma solo al concetto della storia. In cui tradizioni e  tutto quanto deriva dal passato in fatto di usi e costumi inerenti un popolo, definiscono il concetto di patria. Altra parola questa entrata in crisi e che contraddizione per contraddizione potrebbe riemergere dal nulla.        

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