Impressioni di una visita guidata al castello di Castelnuovo Fogliani
Domenica 25 Settembre ore 10, il cielo è terso e il sole splende a temperare il primo rigore del mattino. A quest’ora inizia il primo dei quattro turni di visita guidata al Castello di Castelnuovo Fogliani ed organizzata dalla Banca di Piacenza, con la solita risaputa precisione. L’intento è quello di coinvolgere la cittadinanza in un’altra iniziativa culturale dal sapore questa volta di una piacevole e curiosa novità . Essendo mattiniero per abitudine, ho deciso di far parte di questo primo turno. Il gruppo è piuttosto numeroso e soprattutto puntuale. All’ingresso del castello ci si conosce un po’ tutti. Convenevoli , saluti e strette di mano rappresentano la norma come da abitudine. Non riporto i nomi dei presenti sia per paura di dimenticarne qualcuno, sia per non allungare con questa lista il già poderoso e magari anche noioso articolo carico di riferimenti storici Ci si guarda intorno affascinati dal luogo conosciuto ai cultori di storia e d’arte, ma sconosciuto alla maggioranza dei presenti. Il primo obiettivo della visita, la chiesa, costruita in laterizio che con le sue lesene nella metà inferiore rivela il periodo di costruzione, il settecento, costruita dicevo sulle vestigia di un precedente ed antico tempio.
Si entra in ordine sparso e l’interno sufficientemente ampio è percorso da due bracci uguali a formare una perfetta croce greca. Tutti stanno in ascolto presi dalla suggestione del luogo e dalla voglia di apprendere notizie. Introduce il pellegrinaggio culturale, il Sig. Sindaco di Alseno, prof. Davide Zucchi, già da me conosciuto in altre circostanze e già anche affettuosamente salutato nei preliminari della visita. Parla a braccio dimostrando entusiasmo per questa iniziativa in grado di aprire le porte al pubblico per far conoscere questo tesoro d’arte e di storia. Poi dopo aver ringraziato autorità e pubblico presente, passa la parola all’avvocato Sforza Fogliani , il vero padrone di casa del vasto possedimento, anche se non più dal lato patrimoniale. Ma che c’entra, una volta varcato il cancello d’entrata, tutto parla del casato Fogliani . Passato presente e futuro convengono su un solo nome, il suo. Parla in modo come sempre cadenzato, preciso e autorevole sia per chiarezza di esposizione che per la ricchezza di notizie di interesse storico e aneddotico. Non essendo io sistemato fra i primi posti, la sua voce mi arriva debole e quasi lontana. Ma l’inflessione , mi è ormai famigliare come le pause che si alternano a un discorrere sempre razionale dove ogni parola e frase sono soppesate e calibrate secondo un procedere teso alla veridicità del dire, senza divagazioni arbitrarie. Mai insomma nelle sue esposizioni compare anche involontariamente un mi sembra, ma sempre dati certi e storicamente documentati. Comincia con una breve storia del castello intrecciata con la genealogia dei vari rami del prestigioso casato degli Sforza Fogliani.
Castello dicevo che dal 2015 fa parte del circuito dei vecchi manieri del Ducato di Parma e Piacenza. Costruito attorno all’anno 1100 come Montebello o Belmonte, i primi feudatari furono i Della Porta, famiglia della nobiltà piacentina, che, come succedeva a quei tempi, ebbero modo di affrontare numerose questioni, ancorché lotte, con i vicini feudi di Parma e Cremona. A questo casato succedettero i Visconti altra nobile casata piacentina cui appartenne il grande papa Gregorio X, Tedaldo Visconti. Si susseguono poi altri feudatari. Così dal duca Galeazzo Maria Sforza figlio di Francesco, il feudo detto Terra Castrinovi passa poi al fratello Tristano. Alla morte di quest’ultimo compare come proprietario Lodovico Fogliani da Reggio finché 7anni dopo assume il feudo il figlio Corrado , capostipite dell’illustre casato piacentino dei marchesi ( allora non erano ancora duchi) Sforza Fogliani d’Aragona. Dell’antico castello oggi rimane la torre, alta ,massiccia e quadrata che resistendo al tempo rivela nella sua robustezza costruttiva il vero senso del castrum, inteso come baluardo di forza, di potere e di prestigio. La trasformazione dell’antico castello in principesca dimora si deve nella prima parte del settecento al marchese Giovanni Sforza Fogliani che nel 1760 rassegnava tutti i beni al nipote Federico Meli Lupi di Soragna con l’obbligo di assumere il casato dei Fogliani. Con Federico si arriva poi all’ultimo discendente maschio di questo innesto, fino a che questi spegnendosi, veniva nominata come erede universale la figlia duchessa Clelia Sforza d’Aragona, sposata al marchese Pallavicino di Parma. La quale una volta rimasta vedova elargì tutte le sue sostanze in opere di carità. Si giunge così al secolo passato , quando nel 1925 poco prima della morte della duchessa, la prestigiosa residenza passa alla Santa Sede. Trasformata per volere di Papa Pio XI in sede universitaria per quelle religiose che volevano continuare gli studi, i suoi corsi didattici continuarono fino al 1973, finché alle monache non venne dato il permesso di frequentare altre università. In tal modo si arriva all’attuale proprietario, l’Istituto di Studi Superiore Toniolo di Milano che tiene simposi e convegni di natura culturale specificatamente di carattere religioso.
A questo punto convengo che ce n’è abbastanza di storia condensata, tuttavia per noi piacentini ancora due note vanno dette su quel personaggio prestigioso rappresentato da Giovanni Sforza Fogliani d’Aragona che abbiamo prima citato e che è nato a Piacenza il 3 ottobre del 1697 e morto sempre a Piacenza il 10 marzo del 1780. Politico e diplomatico per tradizione familiare legato ai Farnese ricoprì il ruolo di gentiluomo di camera di questo prestigioso casato. Passò poi al servizio del regno di Napoli e di Sicilia finché nel 1755 fu nominato di quest’isola viceré e lì vi rimase fino al 1793. Nel 1788 ritornò alla sua ultima dimora il paese natale. A questa esposizione interessante che fa piena luce sul prestigio forse del più eminente casato piacentino, hanno fatto seguito le relazioni delle due guide, il prof Alessandro Malinverni conservatore e docente all’Istituto Gazzola e il prof. Carlo Mambriani docente di storia dell’architettura all’Università di Parma. Alternandosi, descrivono con competenza il tempio in cui pose mano il grande architetto e pittore di origini olandese e poi passato ai Borboni di Napoli, Luigi Vanvitelli. Non vi parlerò di quanto da loro esposto in modo esauriente, per non appesantire questo scritto con riferimenti troppo specifici di architettura e di storia dell’arte, ma solo di alcune cose da me ritenute particolarmente stimolanti. Tre in particolare.
La prima: la cupola che in forma arrotondata alta e solenne si erge verso il cielo sormontata da una lanterna con la duplice funzione di lasciare entrare la luce, ma nello stesso tempo trasmettere verso l’alto, in un’ascesa di cuori ,la luce della fede da parte dei fedeli. La seconda: una serie di balconi posti lungo tutta la estensione del tempio a metà altezza ,oscurati da grate in legno che impediscono la vista verso l’interno. Sono i matronei che servivano ai nobili per assistere alle funzioni, accedendo da una via privilegiata e successivamente alle monache per non essere viste durante le funzioni dal pubblico che frequentava la chiesa. Fino a pochi decenni fa unica parrocchia del paese. La terza: le pale d’altare sistemate agli estremi dei transetti. Di buona fattura raffigurano quello di sinistra San Biagio cui è dedicata la chiesa, quello di sinistra San. Rocco. Altri tempi quelli dove i curatori dei mali, nella fattispecie gola e piaghe, trovavano più che sulla terra i propri specialisti in cielo. Bene, si esce sul sagrato e si osserva stavolta con occhio più consapevole la facciata delle chiesa. E appaiono alcuni particolari che prima non avevo colto. Tipo l’ andamento lievemente curvilineo sul piano frontale del tempio, come a simboleggiare con un simbolico abbraccio, lo spirito di accoglienza. E poi la parte alta che a livello del sottotetto presenta qualche incompletezza. La linea dei mattoni infatti presenta dei vuoti a dimostrazione che la sacra fabbrica non è stata finita secondo il volere del suo committente.
Nulla di nuovo per la verità. Succedeva allora e succede ancora oggi che le nuove generazioni non tengono fede ai propositi dei padri o degli avi. I tempi cambiano come pure i desideri, le motivazioni e perfino le disponibilità economiche. E poi subentra la forza dell’abitudine a vedere finito quello che non è. Dal tempio si passa ad osservare la residenza padronale, asimmetrica nel suo procedere, in quanto a sinistra, per chi osserva, il corpo di fabbrica presenta uno sviluppo in altezza che non ha il corrispettivo nella parte destra. Tuttavia eleganza e decoro non mancano anche grazie alle numerose finestre che aggettano all’esterno con piccoli e graziosi balconcini in pietra decorati da balaustre fini e minute in ferro battuto. Che con la forza del ricamo rimandano alle caratteristiche del secolo settecentesco, carico di eleganza e di leggerezza. Il portale invece baroccheggiante di pietra grezza sembrerebbe quasi un appesantimento in quel contesto di grazia, se non ci fossero intenti volutamente scenografici. Un mascherone posto in alto sul giusto mezzo dell’arco massiccio, la dice lunga. Con la bocca aperta e gli occhi spalancati osserva muto quello che gli si muove attorno. Ma il viso parla ugualmente. E’ il linguaggio delle cose umane dove tragedia e commedia si intrecciano in modo imprevedibile designando i destini di ognuno nelle varie e innumerevoli variazioni. Siamo infatti, secondo il Vanvitelli, nel mondo della rappresentazione, dell’irrealtà a volte più reale del vero, dove tutto è teatro e nulla lo è. Dove tutto è mutevole secondo i gusti e i pensieri che cambiano di significati e di ruoli. Persino il pesante portone di legno partecipa alla scena. Costituito da liste di quercia antica e solida, segue infatti una disposizione a raggera con l’intento di dare un voluto senso prospettico. Che da una parte alleggerisce il senso della gravità della costruzione e dall’altro con le sue fughe toglie staticità e pesantezza con l’introduzione di un fatto nuovo: il senso dell’illusione. Se non è teatro questo, poco ci manca.
Si entra e ci attende il cortile nobile o di rappresentanza. Un chiostro incompleto nella sua parte sinistra, lo circonda da tre lati. Colonne raccordate con archi ribassati ne costituiscono il pregio decorativo stilisticamente ammirevole, oltre che di indubitabile fascino. Nel lato di fronte all’entrata, verso sinistra, un andamento più arcuato degli archi e delle colonne ne aumentano sia il valore prospettico che l’eleganza dell’ insieme. E lì infatti dove si intravede lo scalone per l’accesso verso gli appartamenti. In particolare verso il salone delle feste, fasto del casato, della potenza nobiliare, del gusto raffinato , dell’arte e della capacità di stupire il visitatore. Come per il Marino la stessa frase vale per il Vanvitelli con un solo cambio di nome: al posto del poeta è dell’architetto il fin la meraviglia. L’ambiente è vasto e misura 15 mt per 11 mt. Pareti e soffitti sono interamente affrescati con figure storiche e mitologiche in cui il prestigio del casato trova le sue identificazioni attraverso l’arte dello stupire. Due piani di affreschi sovrapposti dove visioni bucoliche e arcadiche si alternano commiste ad altre immagini di una Roma storica, con l’aggiunta di una Piazza S. Pietro di straordinaria modernità, servono a dare il senso della continuazione di un mondo che c’era e che si perdura nel tempo grazie al prestigio di un casato che sfida il confronto con il passato. Il salone illuminato da un lampadario cui, per l’ampiezza, non si riescono a misurare i bracci con le rispettive luci, presenta un’altezza che gareggia con le altre dimensioni. Anche perché una fuga di colonne dipinte allungano verso l’alto la prospettiva creando l’effetto scenico del teatro. Dove ogni cosa è protesa verso un empireo trasognato eppure reale e tangibile. Una serie di bacheche contenenti scritti e documenti importanti, disposte secondo linee geometriche rettangolari , offrono viceversa ai visitatori la concretezza di un potere reale di una casata che ha vissuto non solo di visioni simboliche ma di un potere economico che trova prova e giustificazione nel lavoro della terra, col suo nettare: il vino che ne rappresenta il dono più intrigante e prezioso. Compito della dottoressa Daniela Morsia, nostra conosciuta e stimata bibliotecaria ed autrice di numerosi libri, il compito di illustrare carte e documenti, con l’indicazione delle motivazioni , delle cause, degli autori e dei destinatari di questi scritti. Mi soffermo su uno di questi. Trattasi di un quaderno ricoperto da pergamena aperto su due pagine che datano 1550.
Mi soffermo sulla pagina di sinistra. L’italiano è leggibile anche se infarcito di latinismi. Nella parte alta il disegno di una botte rivela il suo contenuto: Il vino la cui unità di misura è il bochale( con la h) e per il quale si fanno considerazioni sulla sua produzione e destinazione. Infatti sulla pagina sinistra sono riportati contenuto ,destinatari e costi della produzione. La cosa mi rimanda allo stemma dei da Fogliano dove delle foglie di vite raccolte in tralci ne costituiscono il logo e nel contempo il motivo d’onore. Come se il nome dei Fogliani derivasse dalla foglia di vite. Mah. Passo ad altro e come gli altri visitatori mi trasferisco seguendo la corrente, nella galleria degli antenati. Sono questi una serie di quadri posti sulla destra e sinistra del lungo corridoio dove si susseguono immagini di antiche figure nobiliari. Ognuna in costume da parata o da cerimonia e tutte in posa con lo sguardo teso a fissare un traguardo lontano come per rivaleggiare col tempo che per loro non può e non deve passare invano. O forse non passare mai. Noto immagini di Bianca Visconti, di Francesco Sforza ,di Corrado Sforza Fogliani e di tanti altri illustri personaggi, chiusi nei loro cliché di orgogliosa militanza e mi sorprendo nel vedere rappresentata tutta l’antica e più blasonata nobiltà della nostra penisola. Ciononostante un senso di tristezza mi prende nel vedere come la vanità di quegli esseri che dovevano sfidare il tempo sono ora consegnati nella prigione di quella galleria. Dimenticati ai posteri se non ci fossimo ora noi e domani altri visitatori disposti ad interessarsi per un attimo di quei fantasmi. Di quelle figure dipinte ed annerite su tela, un tempo famose ed ora dimentiche e dimenticate. Passiamo oltre verso altri ambienti dove si susseguono le camere da letto delle monache o altre stanze dalle pareti tappezzate e dai mobili che rivelano un passato ottocentesco. Fra questi mi sorprendono diversi divani accostati ai muri di uno stile che ricorda il biedermeier. Ci attende ora l’ultima stanza di forma ovale fino a qualche decennio fa adibita a chiesetta interna per la comunità religiosa. L’ambiente è luminoso grazie alle alte e multipli finestre da cui entra senza nessun riparo la luce. Mi sorprende sul lato della parete di sinistra per chi entra, un quadro fra i migliori, se non il migliore di tutta la ritrattistica vista.
Trattasi di Clelia Sforza Fogliani. Già avanti con l’età, rivela lineamenti regolari di una raffinata eleganza non ancora sciupata dagli anni. Di nero vestita e in posizione seduta , seduce per lo sguardo che non vuole tanto ferire il tempo ma che invece dal tempo risulta ferito. L’atteggiamento è quello del distacco dal mondo ,di una nostalgia del passato di cui rimane il ricordo. Non è più tempo dell’azione( le mani infatti sono ferme, immobili appoggiate sulle ginocchia) ma della considerazione che tutto passa e che la vanità sconfitta non deve più essere causa del male di guardare solo il mondo terreno. Altre cose ci aspettano pare che dica e che non riguardano, ambizione e potere, ma il cielo. La gran dama del mondo sembra infatti presa da altri interessi. Altre mete, non quelle che prima o poi lasciano solo la frivolezza di un ricordo. Guadagnarsi un pezzo di cielo attraverso la carità sembra ammonire quel viso ancora elegante, ma ormai spento dalle cose e alle cose del mondo. Sensazioni ed emozioni. Si va oltre. La stanza si apre su un balcone che guarda il giardino sottostante e che attraverso due rampe di scale una a destra e l’altra a sinistra consente di scendere verso il dedalo delle basse siepi che a prima vista hanno un andamento geometrico, ma confuso, quasi labirintico. Scelgo, per scendere, la scala di destra che ad ogni gradino, come quella controlaterale, è ornata di un vaso contenente gerani ancorati alle colonne del parapetto. Mi trovo all’aperto lungo un viale di ghiaia che divide in due il funambolico giardino. Mi volgo indietro vero le due scale che presentano un andamento a spirale che muovono armoniosamente la facciata in quel tratto un po’ rientrante rispetto ai due corpi di fabbrica laterali. La visione ancora una volta è piacevole e grazie al sole che si accinge a raggiungere il suo mezzogiorno , sul viso si stende un piacevole calore al pari di quello trasmesso da quell’ambiente ospitale. Siamo all’ultima scena della nostra visita. La terra intanto dopo aver rilasciato l’umidità del mattino, manda effluvi odorosi intensi di siepi. Che suscitano qualche sospetto, per la reminiscenza di analoghi odori cimiteriali che chi va per le tombe del nostro campo santo in certi momenti della giornata avverte. Ancora una volta il senso della vanità delle cose mi raggiunge. Il tutto che passa trova allora il suo riscontro odorifero. Ormai il tempo della visita è trascorso.
Mi dirigo verso l’uscita. A metà strada incontro il Sig. Sindaco che mi saluta contraccambiato e mi invita ad un incontro fra amici per un frugale aperitivo. Rincresciuto mi giustifico di non poter accettare . Un altro impegno mi attende. Il mio primo nipote compie oggi 12 anni e aspetta di essere festeggiato. In lui non esistono ancora i fantasmi del passato perché tutto è futuro, Mi avvio verso l’uscita. Sul cancello incontro un capannello nutrito di persone( il secondo gruppo) che si appresta alla visita. Saluto e stringo molte mani. Mi aspetta sotto un sole, ora ardente, la macchina surriscaldata causa la lunga esposizione ai raggi. Metto in moto e parto ma c’è ancora spazio e tempo per un’ultima occhiata che dirigo verso la torre. Il mastio possente che ancora incombe su quel colle, segnala l’antico e potente feudo di un tempo. Che ora non è più, anche se la vita continua….