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Martedì, 23 Aprile 2024
Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

La mia città al tempo del Coronavirus

Strana città la nostra. Timida ed orgogliosa nello stesso tempo. Poco disposta ad allargare i propri confini in fatto di cultura e lavoro a livello pubblico, ma viceversa aperta ad ogni forma collaborativa con le altre città, specie con Milano, a livello privato. Chi è piacentino lo sa e ne conosce il carattere

Strana città la nostra. Timida ed orgogliosa nello stesso tempo. Poco disposta ad allargare i propri confini in fatto di cultura e lavoro a livello pubblico, ma viceversa aperta ad ogni forma collaborativa con le altre città, specie con Milano, a livello privato. Chi è piacentino lo sa e ne conosce il carattere. Il detto latino nemo profeta in patria, fotografa bene la nostra mentalità. In casa, chiusi e neghittosamente provinciali, fuori casa, pronti a dimostrare i nostri talenti ed assumere posti di prestigio in diversi campi del sapere o del lavoro. Questo silenzio assordante cittadino, si scopre in tutto il suo significato non solo simbolico, ma uditivo in questi giorni. Come se il contagio che ci ha pesantemente coinvolti avesse scoperto il nostro lato debole. Quello di non apparire, associato ad un certo distacco nei confronti della città. Ora di distacco se ne aggiunge un altro, quello sociale. La città infatti è deserta.  Nessun rumore di passi o di attività commerciale. Guardo dalla finestra, essendo anch’io confinato in casa, e per vedere qualcuno transitare per strada, devo attendere diversi minuti. Se avessi vissuto l’ultima guerra, al coprifuoco di allora, mi avrebbe rimandato l’immagine dei nostri giorni. Silenzio dunque, come dicevo, assordante, perché troppo vero e talmente troppo reale da sembrare inverosimile.  Ed i pochi che tentano la sorte per uscire di casa, non possono parlare: hanno maschere sul viso che nascondono naso e bocca.  Ma non si chiamano maschere, si preferisce usare il loro diminutivo. Le prime potrebbero rimandare al carnevale per nascondere il viso, onde essere veramente se stessi e così dare spazio a tutte le pulsioni inconsce, normalmente trattenute, senza tema di rivelare la propria identità. Le seconde invece dette, mascherine, non nascondono, ma accentuano la fisonomia attraverso l’espressione degli occhi, fissi dalla tensione e presi dalla voglia di fare in fretta. Occhi quindi che non si guardano intorno perché rivelano un unico pensiero: quello di camminare veloce per soddisfare il motivo per il quale si è scesi in strada.  Normalmente qualcosa di urgente che non si poteva rinviare. Tutto allora tace. Solo la sirena di qualche ambulanza è in grado di violare il silenzio. E così si verificano due rumori. Quello infastidente ripetuto ossessivamente nelle sue laceranti cadenze, con tutti i suoi decibel spiegati per farsi sentire e quell’altro che non sa cosa siano i decibel, ma che ugualmente pervade l’aria ed entra nella  testa della gente attraverso una via diversa da quella uditiva. Ed è talmente intenso che risveglia la paura.  Considerazione questa che dimostra come ogni sentimento è dentro di noi. Il virus toglie il respiro, ma questo silenzio ugualmente mi soffoca. Mi annoio. Ho bisogno di un espediente per uscire. Una bolletta assicurativa da pagare, mi viene in aiuto. Esco di casa con ormai l’obbligatoria mascherina. Incontro poca gente che si affretta guardando in basso. Via Verdi è il mio primo punto del percorso. Un’occhiata al teatro si fa anche se distrattamente. L’immagine neo classica mi ricorda la Scala di Milano anche se in piccolo. Sensazioni di antico, sfumate, mi arrivano alla mente.  Le stagioni di Prosa e lirica, soprattutto lirica, mi ricordano altri tempi, quando come comparsa calcavo ingenuamente il palcoscenico. Cantanti celebri, anche piacentini, che non ci sono più. Avanzo. Il Corso quello che noi così chiamiamo , senza precisarne il personaggio cui  è dedicato, normalmente pieno di gente che procede in ordine  sparso, seguendo ognuno il proprio destino, stavolta è deserto. Solo qualche anima sparsa e quasi sperduta lo percorre. La tensione che si apprezza è amplificata dalla solitudine e appesantisce l’aria, come se una cappa di piombo avvolgesse muri e persone. L’impressione è che i pochi presenti non siano più persone. Solo figure che si muovono come automi, con passi affrettati e senza voler osservare.  Perché gli sguardi sono fissi ed esprimono un solo pensiero: fare in fretta e non curarsi degli altri.  Guardo ed osservo. Intanto giungo a destinazione. Faccio il dovuto con un saluto di educazione, ricambiato con un altro di convenienza. Formalità. Esco e mi ritrovo in strada. La percorro e alla fine mi appare la piazza. Quella dei cavalli che avrebbe potuto chiamarsi Farnese, causa i due personaggi in arcione. Lo sguardo è rapido. Ma il sentimento della bellezza e della magnificenza mi prende e nello stesso tempo mi consola. Il Mochi rivela, come scultore, tutta la sua arte sopraffina nelle immagini di cavalli e fanti e parlo di Ranuccio e del padre Alessandro, che ancora una volta mi sorprendono e non finiranno mai di sorprendermi. Il motivo? Il fascino di un’arte senza tempo che ormai si è inserita nel mio dna, diventando simbolo della mia appartenenza. Come di una radice che sostiene la pianta. A questo proposito, lo stesso sentimento mi capita osservando, anche se di sfuggita, il superbo e inimitabile palazzo Gotico, anch’esso ormai da me  idealizzato nella sua vetusta e venusta unicità.  Attraverso una visione d’insieme senza più bisogno di osservarne i particolari. Procedo e dopo una occhiata sfuggente alla statua del Romagnosi, sempre pensoso e quasi indispettito per le scarse attenzioni a lui rivolte dai piacentini, mi ritrovo in via Venti Settembre.  Altra immagine questa del virus che la coinvolge e sconvolge. Sempre il solito ritratto. Gente poca e distanziata ed occhi di vetrine spenti o semiaperti quasi controvoglia. Il sentimento già triste rasenta l’angoscia. Finalmente in Piazza del Duomo. La fotografia mentale scatta qualche immagine e senza un ordine preciso. Mi appare allora la facciata  rivestita dei marmi di Verona, i portali, i protiri, ed il grande rosone al centro nella parte alta, che si accende durante le celebrazioni religiose per trasmettere la luce interna. Ma che oggi è desolatamente spento. E poi ancora, il possente campanile in cotto e alla sua sommità l’Angelo che appare immobile e più pensoso del solito.  Eppure sempre consolante anche per merito dei versi a lui dedicati dal nostro poeta Faustini. Ma poca roba questa da registrare. Non so come, ma mi vengono alla mente come ricordi liceali, il titolo filosofico  Parerga e Paralipomeni. Nulla di importante.  Solo pensieri e ricordi, questi in libera uscita. Non c’ è tempo per altre riflessioni. Il ritorno a casa, già affrettato, deve concludersi al più presto. Giungo a destinazione e mi accorgo di essermi portato dietro, anzi dentro, l’immagine dell’angelo da noi piacentini chiamato “Angil dal Dom”. Che rappresenti un tentativo di associare la medicina, come cura del virus, ad un altro tipo di medicamento, quello che ha trasferito gli specialisti dalla terra negli spazi celesti, chiamandoli angeli? Può darsi. Medito e scrivo queste note in semplicità. E mi accorgo che virus o non virus, amo la mia città. E pur vero che professionalmente l’ho tradita con Milano, altra città che amo causa il suo temperamento votato al fare e con qualche sfaccettatura calvinista, ma una volta rientrato fra i miei ricordi, mi accorgo che la passione della radice  è sempre quella. Come è sempre quella, l’anima della mia città silenziosa ed anche un po’ triste. Troppo spesso dimentica del suo passato e poco aperta al futuro.  Ciononostante questa strana ed unica città, ha tutto il diritto di chiamarsi Piacenza.

La mia città al tempo del Coronavirus

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