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Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Nostalgia e tramonto del Carnevale

Il povero per una volta poteva giocare al ricco, mettendo la maschera di quest’ultimo e a sua volta il ricco coperto di stracci, poteva per una volta (semel in anno licet insanire) mettere in ridicolo la sua paura, onde scongiurare il rischio di dover cambiare, in un domani sempre possibile anche se mai auspicabile, la sua natura privilegiata

Nostalgia e tramonto vanno di pari passo. Si ha nostalgia infatti del non ritorno, di quello che passa per sempre, ad esempio per il tramonto della vita, che evoca appunto la perdita della stagione migliore, l’infanzia. Ecco appunto, l’infanzia. Ricordo in quel periodo i vecchi carnevali che capitavano in una società non ancora in preda al consumismo e al benessere. Tutto infatti era ordinato per la conservazione. Si cominciava con gli abiti, specie il cappotto che passavano se non di padre in figlio, da figlio più grande a quello più piccolo. E poiché le famiglie di un tempo erano numerose, all’ultimo dei figli, toccava il capo più logoro dove gli eventuali strappi venivano rammendati con cura meticolosa per non lasciare intravvedere i segni della vergogna. Tali erano considerati i rammendi e tale il sentimento provato di fronte al cedimento dell’ordito, ormai sfinito, meglio sfilacciato, dai troppi servizi resi per proteggere dal freddo, allora pungente, i numerosi e avvicendati possessori di quel capo di vestiario, utilizzabile sia da una parte e dall’altra. 

Infatti con un termine allora di moda, double face, il tessuto, veniva impiegato due volte. Si rivoltava dal lato troppo logoro e si metteva in luce il suo contrario, vale a dire la parte interna, che vedeva finalmente il suo riscatto dopo essere stata nascosta per tutto quel tempo. Causa la sua tinta oggettivamente poco accattivante e alcune spesse cuciture che evidenziavano come quella parte fosse da sempre destinata ad essere nascosta. Se questo riguardava il paletot, per le scarpe invece non c’era niente da fare, in relazione al rivoltaggio oppure alla loro trasmissione dal primogenito al secondogenito e così via. 

I giochi ed i calci tirati a qualsiasi cosa assomigliasse ad un pallone, non lasciavano  scampo all’usura. Il non giocare a pallone era la raccomandazione di ogni mamma, cui faceva seguito, dopo l’iniziale promessa, la trasgressione da parte di ogni figlio, tutte le volte che trovava per strada un rotolo di carta, stracci o cuoio. Ogni luogo per tirare calci andava bene. Il meglio era la sede parrocchiale, dove uno spazio ristretto, polveroso d’estate e infradiciato d’inverno, con pozzanghere e cumuli di neve, a sua volta delimitato da quattro alti muri, offriva a quei tempi la migliore opportunità per la pedata. 

Si trattava di un pallone di cuoio rigido, grezzo, spelacchiato e bozzoluto per cedimento delle antiche cuciture che facevano emergere in più punti sfrontata la camera d’aria, col quale si esercitavano le prime prestazioni pedatorie. Che a volte si compendiavano più con lo scalciare che col calciare, tanto era la voglia di prendere a calci qualcuno. Tipo il povero sacrista che per ordine ricevuto (dal prete), pur con una certa comprensione, doveva forzatamente interrompere ogni partitella per farci rispettare i vari obblighi. Che in ordine sparso erano: la frequentazione della dottrina, delle preghiere, della messa alla domenica con corollario dei vespri,  officiati nella penultima delle ore canoniche, dunque verso il tramonto. E poi, l’assidua presenza nel mese di Maggio alla benedizione serale ed infine la partecipazione con corredo di preci e canti alle varie processioni che si snocciolavano lungo i vari percorsi cittadini.   

Poiché però l’argomento da trattare è il carnevale, meglio ora rientrare in tema. Questa premessa serve solo a dimostrare come il mondo di qualche decennio fa, non consentiva molti svaghi. Ogni cosa infatti seguiva un ordine stabilito da usi, costumi e leggi. Il codice stradale ad esempio non consentiva deroghe, non solo alle biciclette (guai portare un amico sulla canna), ma anche ai pedoni (mai attraversare col rosso), pena la multa irrogata anche per minime infrazioni. Tipo, per ritornare al calcio, utilizzare per i classici due calci, quando la sede era chiusa, un spazio pubblico (o privato?) quale il sagrato della chiesa. 

Ebbene essere certi di vedere spuntare le moto Guzzi della polizia urbana, da dietro un angolo di strada, era la norma. Al punto che l’inconfondibile rumore cadenzato della mitica 500 dal colore rosso sangue di bue, era ormai entrato dentro le nostre teste, per farci subito fuggire prima del loro arrivo. Diversamente, seguiva la confisca del pallone e la convocazione in corpo di guardia dei genitori con la conseguente inevitabile ramanzina. 

Ecco allora perché il carnevale era atteso e mai disatteso nelle sue liturgie mascherate. Una valvola dei sfogo, da contrapporre ai vari obblighi di chiesa, casa e scuola, come un momento di spensierata evasione. La maschera serviva a questo scopo. Ognuno diventava un se stesso diverso per fare qualcosa che altrimenti non avrebbe fatto. Intendiamoci nulla di che. Ma era più che sufficiente pensare di cambiare per un attimo la propria natura e sapere che con poco questo si poteva fare. Mettere un cinturone al fianco, o un cappello alla Zorro, consentiva tramite il processo di imitazione, di liberare paure, inibizioni e complessi per rendere più libero il comportamento, non più vincolato dalle consuetudini, dai divieti e veti. Per una volta l’anno, la maschera rendeva reale quello che fino a quel momento reale non era. La fantasia si appropriava di una identità e la metteva in luce abbinandola ad una maschera. Cosicché figura e controfigura si scambiavano di ruolo, per arricchire di un  nuovo tassello (anche se fittizio) una personalità infantile, in fase evolutiva. Uniformando nello stesso tempo creditori e debitori nei confronti del lato fantastico che da sempre accompagna la vita dell’infanzia. 

Che questo fosse fin dalle origini il significato del Carnevale non ci sono dubbi. Il povero per una volta poteva giocare al ricco, mettendo la maschera di quest’ultimo e a sua volta il ricco coperto di stracci, poteva per una volta (semel in anno licet insanire) mettere in ridicolo la sua paura, onde scongiurare il rischio di dover cambiare, in un domani sempre possibile anche se mai auspicabile, la sua natura privilegiata. In sostanza dover rinunciare ai vantaggi di pasti sicuri, comodità e potere. Ad ognuno il suo ed il suo contrario diventava, come detto, la valvola di sfogo indispensabile per togliere le tensioni che fatalmente si accumulavano in ogni società, quando il rispetto rigido dei ruoli poteva innescare pericolose tensioni. Inoltre lo scambio di personaggio poteva, da semplice gioco, diventare propedeutico per innescare anche qualche dubbio nelle coscienze dei più sensibili, a proposito del giusto e dell’errato. 

Chi però non la pensava in questo modo (le eccezioni ci sono sempre), per citare un esempio, era un certo A. Ghislanzoni, che i filolirici ricordano perché autore del libretto di Aida. Prete mancato, il Ghislanzoni mancò anche la strada della Medicina e del canto lirico (corda di baritono) prima di intraprendere la carriera letteraria. Comunque a proposito del Carnevale, ebbe a scrivere:

E mentre ai balli sciupano
Le fibre e il lusso infame,
Geme dai folti strascichi
Del popolo la fame

Nonostante queste rime pessimistiche, questo poeta non toglie nulla a quanto già detto sul Carnevale e sulla sua nostalgia. Tuttavia se questo riguarda il passato neanche troppo remoto, oggi tutto è cambiato. Sembra che non ci sia più bisogno di maschere, per creare nuove trasgressioni. Ci basta e avanza quelle che ci sono già. L’irrisione dell’ordine costituito si è già verificato. Le regole sono diventate elastiche, a discrezione di chi spinge o tira maggiormente dalla propria parte, e anche il significato etimologico del Carnevale, forse derivato dal latino volgare carnem levare, non sembra avere alcuna presa sul nostro modo di fare e… di mangiare. 

Perché, a proposito di costumi, un carnevale perenne si è ormai consolidato nei nostri atti quotidiani. Basti pensare alla sostituzione di madre e padre, con la generica dizione di genitori di tipo A o B, inimmaginabile fino a ieri e che oggi sembra aver perso ogni connotato trasgressivo. Per non parlare della moda. Citavo prima la vergogna di far vedere lo strappo ad un vestito consunto e logoro. Oggi si fa a gara per comperare vestiti nuovi, già laceri, purché griffati, oppure di mettere toppe allo strappo con il dichiarato scopo che la riparazione sia ben visibile.  

Nulla di nuovo sotto il sole, perché a questo riguardo mi viene alla mente un fatto di cronaca datata V secolo a.c. Un discepolo di Socrate, un certo Antistene, un giorno si presentò al suo cospetto con la clamide strappata. Questa la risposta del maestro: attraverso questi fori, o Antistene, vedo tutta la tua ambizione. Chi vuole, impari.  Se allora il Carnevale sembra abbandonarci con il suo carico nostalgico, causa una moda che ha identificato la trasgressione con la normalità, in questi ultimi tempi ha preso il sopravvento un’altra festa, inesistente fino a qualche decennio addietro. Sto parlando di Halloween la cui origine non è autoctona, quindi non di cultura latina, ma celtica. Cosa evoca? Il mondo fantastico del mascheramento per rimettere in gioco i vari ruoli nella società? 

L’impressione è che l’intento sia un po’ diverso. Non tanto il gioco della maschera che cambia le identità, mantenendosi però sullo stesso piano del simbolismo terreno e antropologico, ma lo scopo sembra quello di voler andare oltre, per superare limiti e confini. E così scoprire un nuovo ordine che sfugge al destino, quello della morte e dell’occulto. Con il fine di esorcizzarli senza prenderli troppo sul serio o al contrario considerarli a tal punto da rendere lecito un patto non più con il mondo di cuccagna (il carnevale) ma con quello delle forze occulte. 

I colori nero, viola e arancione che è quello delle zucche, tagliate in modo da simulare il teschio che irradia dalle sue fessure la luce, una volta inserita all’interno una lampada e il giorno della ricorrenza, la notte del 31 ottobre, che anticipa quello dei morti, ci autorizza a pensare in tal senso. In conclusione, io,  con il mio carico nostalgico, sto dalla parte del Carnevale, quello che nella poesia di G. Stiavelli, poeta ottocentesco, tripudia nella via, nei caffè, nel teatro e nel salon. Anche se per lui, causa il suo pessimismo, non tripudiava nella sua canzon.

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