Piacenza sonnolenta e smemorata
Nel mio prossimo libro che tratterà il tema della Scapigliatura milanese secondo la testimonianza del mio avo Francesco Giarelli, autore come sappiamo della Storia della nostra città, (mi scuso della citazione), consultando alcune carte del giornalista e storico, inerenti il suo periodo di militanza giornalistica milanese, mi ha incuriosito un giudizio su Piacenza nostra, che viene così definita: sonnacchiosa e smemorata. Sonnacchiosa secondo il suo parere perché si accontenta del proprio stato di città provinciale, chiusa nella propria angustia di città piccola sia in fatto di estensione geografica e abitativa, sia soprattutto nei confronti dei grandi progetti, causa la sua vocazione a tenere più alla propria tranquillità stracittadina, che non ai grandi slanci ideali onde ancorarsi alle innovazioni che provengono dal di fuori. Per giunta anche smemorata, in riferimento ai suoi cittadini illustri, dimenticati perché fanno parte di un passato che non interessa più al modo di vivere attuale. Tutto proteso fino a ieri alla conquista del benessere, mentre oggi, in un clima di crisi economica, teso al crudo problema della sopravvivenza. Ebbene se questi sono i giudizi di Francesco, va precisato che sono stati detti per amore della sua città che avrebbe voluto diversa. Quindi Primogenita non solo in fatto di eventi storici, ma anche nelle questioni che riguardano arte, cultura e imprenditoria. Stando così le cose, ad oltre cento anni da quel giudizio, mi è sorto il desiderio di valutare se il suo autore abbia avuto ragione o torto. Cominciamo allora con il sonno. E’ davvero Piacenza una città che si concede pause di addormentamento? Che preferisce una certa tranquillità col mantenersi distaccata dai grandi temi che invece interessano le grandi città, che per noi vista la vicinanza geografica, non può essere che Milano? Il cui confronto ci spingerebbe a modificare i nostri comportamenti adeguandoli alle nuove esigenze di una società sempre in continua trasformazione? Insomma, seguendo questa traccia interpretativa, sembrerebbe accertato che preferiamo la dimensione stracittadina, piccola e provinciale, per avere in compenso un immobilismo pacifico e tranquillizzante, al posto di dover cambiare le nostre usanze, i nostri modi di essere e di apparire. In sintesi si vuol sostenere che la nostra vocazione è quella di stare dentro le mura cittadine, pur avendone distrutte alcune parti, con il rincrescimento, tutto formale, di aver sbagliato i conti con il nostro passato storico , ma senza tuttavia soffrirne più di tanto? Capisco che questo tema possa suscitare la suscettibilità di tanti piacentini che si adoperano con impegno e capacità per reggere il confronto con mentalità meno provinciali, ed indurli a qualche giusta rimostranza. Sarebbe allora questa la loro possibile risposta: come si può permettere, quel tale, a definirci sonnacchiosi e poi anche smemorati? Se stessero così le cose ne prenderei atto, ma… ma senza scomodare l’acrimonia, non ne sono completamente convinto. Comincio allora con alcune domande. E’ vero o non è vero che molti piacentini raggiungono fama e potere soprattutto se emigrano dalla nostra città? La realtà dice che piacentini famosi in casa nostra ce ne sono, ma bisogna ammettere che sono più numerosi coloro che si sono fatti strada, emigrando in altri ambienti che non siano quelli della casa o contrada in cui sono nati e cresciuti. Fintanto che un giorno hanno deciso di recidere il cordone ombelicale con il proprio ambiente natio. I nomi li conosciamo tutti e non è il caso qui di citarli perché si rischia sempre di dimenticarne qualcuno. Se questo è vero, il perché forse allora è dovuto se non ad un vero addormentamento, ad una nostra inveterata abitudine. Quella di accontentarci di ciò che passa il convento. E sappiamo che di chiese e conventi la nostra città è sempre stata ricchissima. Passiamo allora al secondo tema, quello che al” nemo propheta in patria”, citato prima, si deve aggiungere la smemoratezza. O almeno una certa distrazione dalle storie cittadine. Chi infatti ricorda con competenza il nostro passato? I nomi dei nostri filosofi, scrittori, educatori, storici? Le nostre vicissitudini che si sono svolte in oltre due millenni di storia, quando a mala pena i nomi degli stessi cavalieri che il Mochi ha messo in arcione sui suoi stupendi cavalli, sono ricordati con qualche incertezza dalla maggior parte dei cittadini? Senza parlare di come questa stessa incertezza sia destinata ad impennarsi, quando si devono individuare i personaggi. Se Alessandro è quello che appare verso il lato del Romagnosi ( altro dimenticato) oppure se invece trattasi di Ranuccio I, entrambi di cognome Farnese. Questo sì, nome ricordato per via del palazzo che tutti ricordano senza magari aver percorso i suoi interni, visitato la pinacoteca e ammirato il museo delle carrozze. E poi ancora i nomi delle vie. Chi sono i loro destinatari che vengono citati solo per frequentazione di abitudini quotidiane, tipo raggiungere un negozio, una pizzeria o un ufficio? E ancora i monumenti ai Giardini Pubblici. Quali carneadi sono questi sopravvissuti che faticano a mantenere le loro sembianze, causa gli insulti del tempo e gli altri insulti che sono gli oltraggi maneschi da parte di vagabondi perdigiorno che si divertono a imbrattare o a deturparne le parti, fra il disinteresse generale. E ribadisco, chi sono costoro? Monumenti che diventano ombre, immagini che si perdono nella memoria, simboli di un passato finito, chiuso nel suo scrigno un tempo dorato, ma che ora ha perduto ogni orpello attrattivo con il presente, per non parlare di un futuro sempre più immerso nelle vaghezze di un ricordo oscuro e nebuloso. Ed i palazzi nobiliari di cui Piacenza abbonda, oppure le semplici case dove un tempo sono nati illustri personaggi, oggi consegnati alla dimenticanza, che triste fine la loro, se non ci fosse l’eccezione di una nostra istituzione bancaria privata, l’unica rimasta al servizio della cittadinanza e l’unica che si ostina a non perdere la memoria del nostro passato. La quale istituzione, andando contro corrente, pone iscrizioni e lapidi sui muri scrostati per ricordare fantasmi un tempo vissuti. Iscrizioni su facciate consunte, immerse in un passato che non risveglia alcun interesse da parte del cittadino medio, preoccupato più della sua storia personale che non di quella della sua città. Ci sono è vero, in questa generale dimenticanza, oltre all’istituzione citata, anche delle singolarità pregevoli, come il caso di quell’architetto ( il nome ve lo dovete ricordare da soli) che ancora giovane e di buona cultura non si rassegna alla tabula rasa del ricordo , anzi per la sua abitudine a percorrere strade, piazze e vicoli con e fra la gente della sua associazione, latinamente parlando, genera col suo docere deambulando, anche un diletto causa il coinvolgimento sintonico con gli amici di camminata . Infatti studiando carte, documenti e regesti, compulsando archivi, è in grado di interpretare gli antichi segni costruttivi della città romana e medievale, ne scopre le tracce passate, ne individua i tesori , i fasti ed anche tutta la serie infinita delle miserie umane che hanno accompagnano l’ avventura cittadina . Un immenso patrimonio di tradizioni di contraddizioni queste, di cui è ricca la nostra storia, che affiorano timide da lapidi ingiallite o annerite, erose dagli eventi climatici e dalla grafia quasi illeggibile, ma ciononostante sopravvissute non si sa come all’insulto livellatore del tempo e all’incuria dagli uomini. Da individuare in angoli cittadini dismessi ed in aree non più interessate dai nuovi itinerari che privilegiano gli aspetti commerciali e ludici. Vestigia di un passato tutto in ombra che ci ricorda( ma fino a quando?) quello che eravamo, in un tempo dimentico come l’attuale, dove il pensiero va invece ad un presente senza passato e ad un futuro senza speranza . Ebbene come detto si può anche non condividere questa visione critica della città e della nostra piacentinità. Ad ognuno quindi il suo, in fatto di valutazioni. Un fatto però è certo, che chi non ha memoria della nostra storia, è soprattutto la politica. Che ad ogni campagna elettorale, attraverso i suoi esponenti, indipendentemente dagli orientamenti, utilizza facili slogan che promettono molte più cose di quello che poi realizzano. E poiché così stanno le vicende cittadine, l’apparire batte l’essere e l’essere piacentino vive la sua decadenza, non sapendo o potendo reagire alle grandi sfide che l’evoluzione dei tempi comporta. Avevamo una storia importante e fino al settecento ogni libro parlava della nostra città, in fatto di banchieri, nobiltà di censo e di sangue, letterati, grandi principi della Chiesa , imprenditori, educatori, filosofi. Ma ora Piacenza ha abdicato alla sua stessa natura storica e geografica. Prenderne atto non è una consolazione, ma può essere la premessa per iniziare una nuova avventura, a patto che, se sono giustificate le critiche, si sappia rinunciare alla sonnolenza che diventa pigrizia e alla dimenticanza che si trasforma in colpevolezza. In sintesi ostinarsi ad essere ottimisti partendo dal pessimismo vuol dire incoerenza , insensatezza, illogicità. Ma non sempre la logica governa le cose. A volte queste seguono altre vie. Non so precisare quali esse siano. Ma pascalianamente esistono altre strade. A queste, si lega la speranza di chi pensa vi sia ancora un’identità cittadina, che anche se agonizzante, non è ancora completamente perduta. Dunque per i nostri vizi, quali la sonnolenza e la smemoratezza, una cura da cavallo (ogni riferimento al Mochi è puramente casuale) potrebbe ancora esistere.
Ma bisogna crederci.