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Anticaglie

Anticaglie

A cura di Carlo Giarelli

Ritratto di Ernesto Leone

Vi dico subito che questo su l’amico Leone, non sarà un ritratto, come gli altri. Il perché è presto detto. Infatti dopo averlo interpellato su alcune mie richieste di carattere biografico, molto amabilmente ha eluso con una certa educata ritrosia la mia domanda. Adducendo giustificazioni legate al desiderio di non voler comparire in quelli che oso un po’ pomposamente chiamare ritratti. Umiltà allora la sua, quella di non fornirmi dati e particolari della sua vita? Può darsi. E senza dubbio questa componente fa parte delle caratteristiche del nostro personaggio. Ma oltre a questo c’è dell’altro. Che io definisco come una certa diffidenza nell’apparire. Una componente psicologica questa che a volte lo prende e che con alti e bassi potrebbe far parte della sua natura. Non si tratta tanto per capirci di una neghittosità, che non fa parte del suo modo di fare, sempre improntato al colloquio educato nei rapporti con la gente e che se fosse confinerebbe nel sentimento non proprio edificante dell’accidia, ma solo, come ho detto, di un fare modesto che fa parte della sua natura . Una specie di atteggiamento di stare alla finestra e osservare il corso della vita senza intromettersi. Senza dare l’impressione di far parte di quell’umanità varia ( e confusa) che per le persone non più giovani, sembra ossessionata dalla voglia di correre, di muoversi freneticamente senza spesso capire la direzione da prendere . Poiché le definizioni in psicologia non sono mai certe, in quanto gli stati d’animo si mescolano continuamente in base alla realtà che cambia ed in modo direttamente proporzionale alla velocità di questo cambiamento, aggiungo allora alla prima valutazione di umiltà, sempre in riferimento alla nostra persona, anche un poco di egocentrismo. Che se sembra in apparenza contraddire l’umiltà, prima menzionata, è in realtà un balsamo che serve a tutti per sopravvivere. Al fine di non farsi travolgere dagli eccessi della vita, specie quella attuale, che per tanti aspetti è troppo volubile e totalmente lontana dai vecchi punti di riferimento in fatto di decisioni da prendere per poi attuarle. Ecco allora che ritornando ai dubbi iniziali, quello che ho definito un non ritratto, si baserà su informazioni raccolte qua e là e meglio ancora su confidenze fattami da un comune amico, oggi purtroppo scomparso. Se poi questo mio proposito di mettere su carta queste impressioni, suonerà come elemento ingiustificato per le imprecisioni e le tante carenze sicuramente presenti, il lettore saprà scegliere cosa fare. In quanto ,come sempre, è libero di passare ad altro scritto, in questo caso ad altro ritratto e di dare punto importanza a quanto da me riportato. Tuttavia, a proposito del lettore, una domanda potrebbe anche porsela. Questa. Perché ostinarsi a mettere per iscritto quello che non si sa o si sa solo per sentito dire? Vero, nulla da obiettare. Ma nelle cose c’è sempre un ma. E quello che mi riguarda è la voglia di dedicare qualche riflessione con relativo commento ad un uomo che stimo e che ha fatto in tempi relativamente recenti la storia del giornalismo piacentino. Ed al quale ancora più che al lettore, devo chiedere in anticipo la virtù della pazienza e della tolleranza. Entro allora nel merito del nostro protagonista, in virtù di una vita, la sua, trascorsa presso la carta stampata, quando non c’era ancora l’offset e si sentiva ancora l’odore di piombo tipografico delle rotative. E mi riferisco a quel giornale locale, la Libertà, che lo ha visto protagonista per un lungo periodo di tempo. Una vita si potrebbe dire, prima come redattore iniziata nel dicembre 1954 e poi scalando la varie tappe della carriera di giornalista, come caposervizio, caporedattore ed infine all’apice della direzione del giornale, quindi come Direttore subentrato ad Ernesto Prati, nel periodo che va dall’agosto 1994 al dicembre 1996. Dimessosi da Libertà diventa poi collaboratore dei quotidiani La Voce Nuova di Piacenza e La Cronaca, mentre attualmente collabora con articoli di argomenti vari al periodico Banca Flash edito appunto dalla banca di Piacenza. Superati allora i dubbi iniziali su questo mio non ritratto per le considerazioni già fatte, inizio a citare quello che conosco a cominciare dagli studi. Ed il liceo classico Melchiorre Gioia ha rappresentato per lui la culla della sua formazione di tipo umanistico. Una preparazione culturale solida la sua, come succedeva un tempo, quando gli studi, per usare un eufemismo, erano meno evasivi degli attuali. Una preparazione, dicevo, che emergerà poi in tutti i numerosi gli articoli da lui scritti su argomenti diversi con particolare predilezione per i fatti umani e le particolarità, riguardanti determinati personaggi della nostra storia, da lui trattati con completezza e precisione. E qui veniamo allora al suo stile giornalistico. In lui mai un rigo di troppo e mai una parola usata in modo improprio. Il fatto di cronaca infatti, doveva essere colto nei suoi connotati principali, senza divagazioni, senza appesantimenti che non fossero in sintonia con l’evento e le sue cause e per usare un termine montanelliano senza tanti riboboli. Precisione e concisione nella chiarezza, la sua essenza di giornalista. Altra sua caratteristica, quella di impersonare al massimo livello lo stile di Libertà, quella del giornale storico inaugurata dal capostipite Ernesto Prati nel lontano 1883 ed al tempo del nostro, diretto dal nipote del fondatore, un secondo Ernesto coadiuvato per la parte amministrativa dal fratello Marcello coi quali il nostro, era anche in rapporti di parentela. Un giornale, come dice il nome stesso, fondato ed ideato per essere al servizio di tutti, evitando come la peste gli eccessi, la violenza dei servizi, i toni scandalistici, ma nello stesso tempo, rispettoso dell’ordine e della morale. Insomma, questo il suo carattere che si è sempre mantenuto nel tempo, dove la segnalazione liberale dei fatti riguardanti la vita cittadina, doveva essere fatta con garbo, avvolgendo gli eventi in un velo di discrezione educata onde offrire dell’informazione il lato meno crudo, meno polemico, meno settario, e quindi più adatto ad essere letto da tutti, evitando preconcetti e impostazioni settarie. Tutto questo, il nostro personaggio lo ha incarnato al meglio e con quel mai nulla di troppo nella sua prosa, l’intento era sempre quello di non alterare gli usi e costumi e più in generale la mentalità di una città, la nostra, sonnacchiosa, che voleva essere informata ma senza bruschi risvegli. Cosicché gli scandali, prima di comparire, dovevano subire un processo di decantazione ed i passi più critici essere stemperati nel rosolio, onde evitare equivoci interpretativi all’insegna di rispettare equilibri consolidati dalla tradizione. Il fine sempre quello di mantenere intatto e invariato il tessuto sociale, affetto spesso, come sappiamo, in certi ambienti dall’abitudine, una malattia, chiamata autoreferenzialità. Se tutto questo riguardava i fatti di cronaca, ancora più cauti bisognava essere a proposito della citazione di nomi e cognomi. Dove la prudenza non era mai troppa. Infatti nell’arte del dire e del non dire, esisteva tutto un codice di comportamento da seguire. E sempre a proposito dei nomi non proporli o esporli, se possibile rappresentava il meglio. Se invece non si poteva fare a meno, il cerimoniale prevedeva di seguire un ordine ben preciso nella citazione. Prima quelli più autorevoli e poi via via seguendo una fase discendente in ordine di importanza, si arrivava da ultimo a quelli cosiddetti di strada. La logica insomma, lo ripetiamo, era sempre quella: evitare, scandali, risentimenti, critiche, incomprensioni presso i lettori e più in generale presso l’opinione pubblica, in quanto il giornale doveva essere lo specchio fedele della città, per cui, era d’uopo ammorbidire, velare, addolcire i fatti di cronaca. Ed in particolare il sangue, inteso come notizia drammatica, non doveva mai apparire in tutto il suo aspetto di colore troppo acceso, anche quando scorreva a proposito di un fatto delittuoso. Il rischio da correre per il giornale, quello di essere accusato di partigianeria. Ebbene, sto un po’ esagerando, è vero, ma come dicevo, Leone ha rappresentato il più fedele interprete di questo modo di fare, che era anche il suo modo di essere. Specie poi quando diventerà Direttore, la sua dedizione al giornale era proverbiale. Una specie di clausura, il suo impegno, che lo vedeva sempre all’opera perché nulla gli scappasse riguardo all’imprecisione degli articoli fatti da altri. Gli errori anche quelli riguardanti un aggettivo non appropriato, abbisognavano di chiarimenti. Ed in mancanza di raggiungere personalmente il collaboratore, il telefono come mezzo sostitutivo, squillava. Il dogma era sempre lo stesso. la chiarezza prima di tutto. Non solo per rispetto della sintassi, ma soprattutto del lettore che doveva capire subito di cosa si trattava, dopo aver letto le prime righe dell’articolo. Riconoscendogli questa sua capacità di giornalista sia come scrittore che come organizzatore, pochi dei collaboratori osavano eccepire. Nessuno provava ad offendersi. Troppo giustificate le sue richieste di precisazioni. Troppo autorevole il suo modo di fare per non suscitare ammirazione. In sostanza per citare un fatto storico che ci viene a fagiolo per evidenziare caratteristiche agli antipodi, Leone era esattamente l’opposto di quel Giuseppe Baretti che nella seconda metà del diciottesimo secolo prese un soprannome che era tutto un programma, quello di Aristarco Scannabue, il quale aveva fondato un quindicinale : La Frusta che era altrettanto un programma, in base al modo di concepire le notizie. Dove i toni bassi erano vietati perché tutto doveva essere trattato all’insegna dell’urlato, del tono aggressivo, quasi violento, e della critica pungente e caustica tesa più alla denuncia offensiva che non all’accusa civile, compatibile con la possibilità di una resipiscenza nei confronti di una eventuale mancanza . Il risultato di tanto strepito? Periodico fallito causa le denunce ricevute e il suo autore migrato in Inghilterra per evitare grane giudiziarie. Insomma tutto l’opposto e questo lo dico a titolo di merito del nostro Leone, della sua conduzione come direttore di Libertà. Ed il giornale infatti filava a meraviglia, presso gli affezionati lettori, senza perdere una copia. Detto questo, dopo aver trattato la figura di giornalista , passo ora a fare alcune considerazioni sull’Uomo. E prima di tutto devo chiarire il fatto del nome, all’anagrafe Ernesto, ma da tutti chiamato Ninino. Perché? Non ve lo so dire. La psicologia ci potrebbe aiutare, ma anche a portare fuori strada. Un diminutivo per una figura di complessione modesta potrebbe essere giustificata? Sì e no ma forse più no che sì, perché se questa fosse la spiegazione, sempre facendo ricorso alla psicologia, dovrebbe accadere il contrario. Il piccolo infatti desidera presentarsi da grande anche nel nome e non viceversa. Passiamo allora oltre. Ho parlato di complessione modesta ma con una struttura d’insieme molto proporzionata. Un bello piccolo il suo, ma grande dal punto di vista estetico. Un qualcosa che rimanda alla bellezza infantile, quella non corrotta dalla crescita e dal trascorrere della vita con tutti i suoi problemi e le sue ansie. Pelle ancora liscia e di aspetto roseo non dimostra infatti l’età, che non vi saprei precisare, anche se gli ottanta sono a mio avviso già passati. L’unico cenno di vecchiaia, le perdita dell’antico crine, per la verità non ancora imbiancato che lascia qua e là intravvedere parti scoperte del capo, arrotondato come uno schizzo di Leonardo. La faccia inoltre rivela il carattere. Con fronte ampia e bombata , sopracciglia accennate, naso diritto e tutto sommato regolare, bocca semi serrata atteggiata ad un possibile sorriso di compiacimento o di sfottò a seconda dei casi. Infine occhi piccoli, curiosi, vispi, indagatori e riflessivi. L’espressione specie quando le mani si incrociano davanti mascherando il mento che si inserisce senza distorcere i lineamenti d’ insieme, è quella di chi aspetta prima di prendere una decisione. Il fine è quello di valutare il comportamento dell’interlocutore, in base a quello che dice e soprattutto a quello che fa, nel senso di come si atteggia. Due allora le possibilità. O un silenzio riguardoso con la mimica facciale fissa, quasi inespressiva, rotta solo da poche parole di circostanza. Oppure una apertura del viso che si distende per lasciare spazio alle idee. Le guance allora si alzano un po’ e si incavano lievemente, il colorito diventa più roseo e gli occhi allargandosi, ammiccano prima ancora che subentri il sorriso, mai un riso, di compiacimento, che in alcuni casi diventa di affettuosa condivisione. Ecco allora che fluiscono le parole con riferimenti appropriati, battute salaci piene di sottintesi, rimandi a nuove e meno scontate interpretazioni dei fatti, aggiustamenti di tiro a proposito di considerazioni considerate eccessive, oppure non condivisibili, infine il saluto finale con la doverosa stretta di mano che sancisce un coinvolgimento emotivo a sottintendere una stima, che per lui non è mai scontata. Più volte ho parlato con il nostro, su argomenti diversi e se ho sempre apprezzato la sua intelligenza nel cogliere gli aspetti meno comuni del discorso e nonostante abbia toccato a volte temi più personali, non mi sono mai avventurato sugli aspetti religiosi, per i quali non ho certezze da riferire a proposito del personaggio in questione. Tuttavia se devo avventurarmi, come ho fatto fino ad adesso seguendo le mie impressioni, a me pare che la sua religiosità sia piena di dubbi e di riserve. Impressioni, ma avvalorate da una telefonata che ricevetti nel 2013 a proposito della malattia della moglie Vittoria Libè, cui era molto affezionato. Io allora ero a Medugorye per risolvere sempre a proposito di fede i mie dubbi, anzi per andare oltre al dubbio come poi espressi nel titolo di un mio libro. Cosicché la telefonata mi spiazzò non sapendo cosa consigliare in merito ad una malattia in fase già troppo avanzata. Risposi non da medico, ma da fedele in cerca di certezze, offrendo la mia disponibilità a rivolgermi alla Madonna apparsa in quei luoghi. L’unica a mio avviso in grado di comprendere e proporre la giusta soluzione. Ma quale questa sia stata, non sempre noi umani siamo in grado di comprendere. Sta di fatto che la moglie, dopo poco, lasciò solo il nostro e da allora nonostante la presenza di due figlie, Lea e Marcella, entrambe insegnanti rispettivamente di italiano e matematica, il colpo subito fu gravemente sentito. Cosicché il carattere ne risentì, subentrando una minore tendenza a frequentare come prima l’agorà. Citando questo fatto personale sono ormai giunto alla fine. Ma prima di lasciare il nostro personaggio, consapevole degli errori e delle omissioni da me commessi, una richiesta di scuse devo proprio fargliela. Non so se saranno accettate fino in fondo, perché quando si è in errore non sempre si può contare sulla benevolenza degli altri. L’unica giustificazione che posso addurre, poca cosa lo so, è che questo ritratto, non ritratto, è stato mosso dalla voglia di citare un personaggio meritevole, senza alcuna intenzione di sminuirne l’importanza. Semmai il contrario. Che sia sufficiente? 
 Ad Ernesto, pardon a Ninino allora, la non ardua sentenza.

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