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Effetto Vertigo

Effetto Vertigo

A cura di Diego Monfredini

La grande bellezza sotto la campana vuota der cuppolone

«Non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire» Tony Servillo alias Joe Gambardella

Una lirica bellezza, vacua e disfatta, un monumento placido, senza tempo, come il Tevere in battello nei crediti finali.. e il potente e deprimente frastuono del rumore, delle maschere e del kitch. La volgarità dei sorrisi di mezza (o terza) età che rincorrono le vanità di un passato che avrebbe riservato, per dirla alla Warhol, almeno quel minuto di celebrità sufficiente a non rendere perdutamente vana una vita intera.

E’ un mondo amaro e nichilista quello dipinto da Sorrentino, il cui protagonista, uno splendido Toni Servillo, dandy dei party sulle terrazze sopra il Colosseo, è conscio della mendacia, dell’ipocrisia, dell’apparenza: che “è tutto un trucco”. Alla soglia dei 65 anni riflette sul suo passato di romanziere e sul grande primo amore, conosciuto in giovinezza al mare.

Oggi, spumeggiante e cinico giornalista di costume, Jep Gambardella non scrive più. E non sa risponderne il motivo. Il film racconta il pedinamento notturno del protagonista che inciampa in una galleria di casi umani che costellano il suo universo di conoscenze come di un grottesco zoo, un giardino prensile sui Fori Imperiali: dalle attricette arriviste alla nobiltà decaduta a noleggio, dal letterato fallito interpretato da Verdone alla fragile e svampita esibizionista (Isabella Ferrari), dalle meteore della televisione in balia di droga e botulino alle ricche donne annoiate bugiardamente impegnate nel sociale, per arrivare al cardinale interpretato da Herlitzka, per un’ammonizione anche all’inconsistenza frivola della Chiesa come istituzione. 

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La critica sociale si risolve per lo più in chiave tragicomica restando sul piano della commedia, saggiando scambi di battute non sense e affilati monologhi di j’accuse con cui Gambardella addita i rimpianti e i vizi, le debolezze umane altrui. Ne deriva pertanto un ritmo sicuramente brillante ma certamente distante da quel pathos che contraddistingue per esempio quel capolavoro di Sorrentino che fu Le conseguenze dell’amore.

Una considerazione a caldo. Gli unici personaggi di questo universo decadente che hanno la schiena ritta e una volontà di marmo sono i due “esseri” più piccoli e mostruosi: a capo della redazione che dà lavoro a Jep c’è infatti una “cazzutissima” nana. Unica degna interlocutrice delle ansie e delle preoccupazioni del protagonista. Il secondo personaggio è quello della “santa”, una sorta di nuova Maria Teresa di Calcutta in visita a Roma che fa del suo misticismo la consacrazione del mutismo. Mentre scorre verso la fine la pellicola ci svela progressivamente un ruolo che pareva appartenere alla dimensione del grottesco come gli “abitanti” dello zoo sopracitati, invece consegnandoci attraverso la decrepita suora sdentata 104enne un’ulteriore chiave di lettura mediante il paradigma che avviluppa la vita e la morte nel senso del sacrificio, come si palesa nella metafora delle scale in ginocchio (e Sorrentino ha sicuramente visto Ken Shiro). 

Ho detto troppo. E non ho parlato di Fellini.. Come ogni film di Sorrentino ci troviamo di fronte ad una libertà espressiva che ci permette di ammirare un linguaggio non convenzionale per raccontare una storia al cinema, anche una storia come questa, che il protagonista definisce una storia sul niente.  

La sete di questa chimerica grande bellezza è alla fine il motivo per cui Jep non ha più saputo scrivere. In quanto falsa infatti la sua vita forse si è “adattata” al romanzo, poichè in fondo è’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l'emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile.
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La grande bellezza sotto la campana vuota der cuppolone

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