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Effetto Vertigo

Effetto Vertigo

A cura di Diego Monfredini

Colorno, "pazzi" di Amleto

"Hamlet", diretto da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, è uno spettacolo interamente interpretato da ex lungo degenti psichici del manicomio di Colorno, a coronamento di un ormai decennale laboratorio permanente di teatroterapia condotto da Lenz Rifrazioni.

“Hamlet”, diretto da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto,  è uno spettacolo interamente interpretato da ex lungo degenti psichici del manicomio di Colorno, a coronamento di un ormai decennale laboratorio permanente di teatroterapia condotto da Lenz Rifrazioni. Fino al 16 ottobre sarà in scena nelle meravigliose stanze della Reggia di Maria Luigia d’Austria, il cui splendido giardino confina appunto grottescamente con l’abbandonato e dismesso ex ospedale psichiatrico.


Un luogo centrale nell’evoluzione del dibattito sulla psichiatria del XX secolo. Verso la fine degli anni sessanta infatti, infermieri, operatori, lavoratori, insegnanti cominciarono a rifiutare la brutalità dell’Ospedale Psichiatrico ed organizzarono una mostra fotografica in città (quando era allora vietato immortalare i malati).  In seguito sfilarono per le vie della città indossando la camicia di forza e mostrarono per la prima volta alla gente gli strumenti di coercizione utilizzati sui degenti.

Il fautore di questa scossa fu all’epoca Mario Tommasini, assessore provinciale alla Sanità e ai Trasporti, che nel marzo del 1965  fece il suo ingresso nell’Ospedale Psichiatrico, constatando una situazione disumana.  Il manicomio era a tutti gli effetti un carcere con inferriate ad ogni finestra, iperaffollato di malati che spesso venivano legati, chiusi a chiave e controllati a vista dagli infermieri attraverso degli spioncini.

Sul sito della Fondazione Tommasini leggiamo che “venivano utilizzati mezzi di contenzione, camicie di forza, elettroshock; negli sgabuzzini attigui alle camerate c’erano lunghi bastoni che gli infermieri usavano per mandare a letto i degenti. Gli infermieri operavano in una situazione di abbruttimento, educati alla paura e alla violenza; venivano infatti assunti in virtù della loro forza fisica non della loro professionalità. Il numero degli infermieri era inoltre molto basso ( 170 per 1200 malati) e ne conseguiva che tutti erano sottoposti a turni massacranti. Moltissimi entravano in manicomio da piccoli e vi trascorrevano il resto della loro vita, altri erano alcolizzati, vagabondi, prostitute che non presentavano patologie psichiatriche. Una volta internati, perdevano ogni rapporto col mondo esterno e veniva loro tolta ogni forma di sicurezza quali la famiglia, il lavoro, la libertà; ne seguiva l’acquisizione di un modo d’essere e di comunicare lontano dai canoni culturali del mondo esterno.”  Mario Tommasini intraprese immediatamente il processo di liberalizzazione della vita dei ricoverati la Giunta provinciale approvò alcune sue proposte come la riduzione dell’orario di servizio degli infermieri.

Questa politica tuttavia si scontrò con la direzione del manicomio, ancora legata alla psichiatria tradizionale. Così nel 1969 un gruppo di universitari incontrò Mario Tommasini e dopo un’assemblea a cui parteciparono studenti, amministratori, infermieri e parenti dei ricoverati, gli studenti presero possesso dell’ospedale psichiatrico e l’occupazione durò  35 giorni. Tommasini ricorda dell’occupazione come “gli unici trentacinque giorni in cui non si è ammazzato nessuno e nessuno è stato picchiato”.
Il caso informò tutta l’Italia circa le condizioni dei malati di mente ed attirò l’attenzione di Basaglia, il noto psichiatra al quale si deve la riforma (1978) che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.

 Non era possibile parlare di Hamlet senza spiegarne la cornice e l’humus dal quale è scaturito perché gli interpreti sono autentici relitti viventi del naufragio dei manicomi. E rappresentano la memoria storica di un orrore rimosso, così terribilmente vicino al luogo della messinscena, mai come in questo caso (la Reggia) il palcoscenico ideale per questa rappresentazione.

L’operazione sul testo condotta dalla Maestri e Pititto, prevede dunque una scansione spaziale in capitoli ai quali corrisponde un rispettivo numero di stanze.  Ovviamente il dna della trasposizione riguarda la pazzia di Amleto (un matto savio o un savio matto?) e il gioco di rimandi al vissuto tragico dei protagonisti che incarnano il dramma elisabettiano.  Mi trovo in difficoltà a restituire quella sensazione di cortocircuito, tematizzata nell’ambivalente presenza di ciascun attore in carne e video. Ognuno è lì, in scena col suo doppio, e lo spettatore è costretto ad oscillare tra il labiale sincrono e le dimensioni aperte dalla riproduzione audiovisiva.  Come nel momento, a mio avviso, più intenso e struggente della messa in scena, il suicidio di Ofelia: la seguiamo attraverso le stanze nello stento del suo incedere lento in una sorta di litanìa che ripete vorticosamente (e paradossalmente in una nénia) la sua irreversibile pulsione di morte, e restiamo incollati col nostro respiro al pizzo nero sulle spalle gracili di questa angelica vedova nera sino al balcone della villa divaricato innanzi al buio pesto.

Non uno ma tre. Tre Amleti. La schizofrenica versione Lenz propone una moltiplicazione a più piani del concetto di scissione: il protagonista del dramma è un diamante a tre sfaccettature tra i quali anche un’interprete femminile e un’incarnazione del vuoto assoluto, di un pirandelliano silenzio volitivo, che fa da controcanto alla rabbia burbera e sorda di Re Claudio, straordinario nell’atto della preghiera confessionale.

La mente di un malato con gravi patologie mentali ha subito dei condizionamenti molto forti sia interni che esterni, come l’esperienza della reclusione, della mancanza di libertà.  Quello che emerge però da questo lavoro è come la valenza drammatica della violenza venga annullata, disinnescata, asciugata in una sartriana e referenziale consapevolezza del gesto che si va a compiere. Allora Amleto quando uccide lo fa a voce pacata mimando il colpo della lama: “Ecco io uccido”. Hamlet non mira tanto a coinvolgere empaticamente  gli spettatori per emozionarli o creare compassione, ma proprio per stimolarne una coincidenza con i pazienti.

Di questo lavoro del Lenz la principale suggestione che colgo è la capacità di restituire la monumentalità, la caratura epica della leggenda Shakespeariana. E monumentale è anche una rovina tragica, ricorda Maria Federica Maestri, perché tutto questo non ha portato solo bellezza, ma anche molto dolore. Il male è come quando vedi in un teatro greco le colonne spezzate. Non vorresti rimetterle su? Eppure la forza consiste nel guardarle a terra e nell'intuire che possono anche stare in piedi. Ed è l’unica cosa che io posso vedere come terapeutica in tutto questo: constatare che qualcosa è compromesso, atterrato, sapere che saranno per sempre giù, ma attraverso questa azione drammaturgica rivederle disegnate in verticale, come architetture immaginarie.

Vorrei infine ricordare gli interpreti: Liliana Bertè, Franck Berzieri, Giovanni Carnevale, Guglielmo Gazzella, Paolo Maccini, Luigi Moia, Lino Pontremoli, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Varoli, Barbara Voghera, Mauro Zunino

Hamlet

Per il limitato numero di posti è obbligatoria la prenotazione telefonica.

Per info e prenotazioni: Tel. 0521 270141

comunicazione@lenzrifrazioni.it

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