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Vagabondi in Appennino

Vagabondi in Appennino

A cura di Pietro Nigelli

Halloween-Samhain: un viaggio fra Triora, Valle Argentina e Imperia

Alla scoperta del territorio delle medie/alte valli Argentina e Nervia ubicate ai margini ovest della nostra penisola, a confine con la Francia, chiuse a nord dalle Alpi Marittime e sfocianti, a sud, nel mar Ligure

Come nostra consuetudine, anche questo viaggio riteniamo debba divenire momento di crescita dell’albero della conoscenza e, quindi, a seguire il risultato delle nostre ricerche sul territorio delle medie/alte valli Argentina e Nervia ubicate ai margini ovest della nostra penisola, a confine con la Francia, chiuse a nord dalle Alpi Marittime e sfocianti, a sud, nel mar Ligure.
Doveroso ringraziare quanti, attraverso la libera diffusione su internet, ci hanno permesso di reperire notizie, informazioni, curiosità, dati storici, museali, culturali e gastronomici; la nostra fatica si è limitata ad organizzare tutta questa mole di dati rendendola fruibile a Voi che ci leggerete.

Dolceacqua
Visitare Dolceacqua, un paesino di un migliaio di abitanti a 47 km da Imperia, significa fare un tuffo nel passato; tipico borgo medievale della val Nervia, si sviluppa lungo l’omonimo torrente; la parte più antica del borgo, posta ai piedi del monte Rebuffao, è dominata dal castello dei Doria e chiamata dagli abitanti Terra (Téra nel dialetto locale) mentre quella più moderna, chiamata Borgo, si allunga sulla riva opposta, ai lati della strada che sale la valle.
Le ripide stradine affiancate dalle alte case, in apparenza decrepite ma quasi tutte restaurate, conducono sempre in alto, passando per ponticelli sotto ai quali gorgoglia il Nervia e sotto voltoncini, i tipici "chibi" (da ciibu, cioè scuro) dove i raggi del sole stentano a scaldare i vecchi muri. 
II toponimo Dolceacqua deriva quasi certamente dalla presenza di un borgo di epoca romana chiamato Dulcius, trasformatosi in seguito in Dulciàca, Dusàiga e Dulcisaqua; altri studi rivelano però anche la possibilità dell'origine celtica derivante da D'us Aga, il "dio degli incantesimi" adorato dalle popolazioni celtico - liguri, modificato poi in Dulsàga e infine in Dolceacqua.
Altre testimonianze storiche sono rappresentate dai castellari dell'età del ferro, rozze fortificazioni in pietra a secco; studi archeologici confermano che queste fortificazioni del territorio furono presidiati dagli Liguri Intemeli dal IV° secolo a.C. al IV° secolo in età romana, a protezione dei villaggi, dei pascoli e dei campi.
Arrivando a Dolceacqua é sicuramente impossibile non vedere il castello. 
Da lontano sembra una maestosa signora che abbia raccolto davanti a sé un imponente strascico. 
Da vicino, la costruzione è severa, con quelle orbite vuote delle aperture e le torrette laterali, e si nota che poggia su una solida rocca, a circa 60 metri di dislivello dal sottostante Borgo. 
Esso era posto a controllo, oltre che del fondovalle, anche dell'importante percorso alternativo di collegamento con Perinaldo e Isolabona il quale avveniva attraverso la dorsale del Nervia. 
Da lì dominarono per secoli i Doria, ma quante battaglie furono combattute per il possesso di questo caposaldo in Val Nervia; l’ultima quella fatale da parte delle truppe franco-spagnole avvenne nel 1746.
Feudo del Conti di Ventimiglia sin dal XI° secolo  Dolceacqua venne munita del suo poderoso castello con torre difensiva  e  possenti mura nel XII° secolo.
Il castello fu poi acquistato nel 1270 dal genovese Oberto Doria capostipite della generazione dei signori di Dolceacqua e venne ingrandito nel XIII° e XIV° secolo.
Durante il Rinascimento diventò una residenza signorile fortificata, con nuovi locali affrescati e arredati.
Nel corso dell'aspro conflitto tra le fazioni guelfe e ghibelline e la rivalità fra la famiglia Doria e i Grimaldi di Monaco Dolceacqua nel 1524 si mise sotto la protezione della casata Savoia che la eresse successivamente in marchesato nel 1652.
Coinvolta nella guerra di successione Austriaca nel secolo XVIII° in quanto i Savoia si erano alleati con l'Austria contro Francesi e Spagnoli, capitolò il 27 luglio 1746 a seguito di un lungo assedio che distrusse il castello.
Nel 1748 dopo la pace di Acquisgrana i Doria tornavano trasferendo la loro residenza nel palazzo attiguo alla chiesa parrocchiale. 
Nel 1815 il territorio fu annesso al Regno di Sardegna e nel 1861 al Regno d'Italia.
Con l'abbandono del castello, ulteriormente danneggiato nel terremoto del 1887 le vicende di Dolceacqua vennero a perdere il loro principale elemento di vitalità e prestigio.


Principali fasi storiche del Castello di Dolceacqua
1177     Notizie dell'esistenza di Castrum Dulzana; 
1187     Incendio del castello; 
1242     Alleanza con Ventimiglia e guerra contro Genova; 
1255     Acquisto di una parte del castello da Lanfranco Bulborino; 
1270     Acquisto da parte di Morruele Oberto Doria; 
1318     Ampliamento di Domenico Doria; 
1329     Assedio al castello da parte dei Grimaldi; 
1364     Ricostruzione e sistemazione da parte di Imperiale Doria; 

1421     Assedio al Castello; 
1442     Ampliamenti ed abbellimenti; 
1454     Assedio dei Ventimigliesi; 
1523     Assedio dei Grimaldi; 
1527     Riconquista del Castello da parte di Andrea Doria; 
1565     Ampliamento ala occidentale del castello; 
1672     Guerre tra Savoia e Genova e assedio e occupazione del castello; 
1745     Bombardamento e distruzione; 
1887     Terremoto; 
1987     Acquisizione del Castello da parte del Comune.

Intimamente correlato al castello è l’antico borgo medioevale di Dolceacqua chiamato "Tera" che, appunto, nella rocca ospita il castello dei Doria; il borgo è citato già nel 1177 quale parte del sistema difensivo voluto dai Conti di Ventimiglia in Valle Nervia; la continua ed intricata ripetizione dei volti e dei passaggi coperti, evidenzia la natura difensiva dell'abitato, realizzata per settori concentrici; stretti "caruggi" che salgono, scendono, si incrociano come in un labirinto, bui passaggi sotto le abitazioni, rendono Dolceacqua un paese di favola, misterioso e stregato.
Di rilevante interesse artistico la piazza del centro storico, da poco tempo ristrutturata, che è stata restituita all'uso sociale come punto di incontro della popolazione. 
Altra interessante testimonianza storica è l’elegante Ponte romanico o Ponte Vecchio con un arco di 33 metri, ricostruito sulle rovine di un ponte crollato nel secolo XV° alla nascita del nuovo quartiere del Borgo nel XV° secolo allo scopo di collegare le due parti di Dolceacqua. 
Il pittore francese Claude Monet, che all'inizio del 1884 stava visitando la Riviera di Ponente, arrivò a Dolceacqua restò colpito dalla leggerezza della struttura e ne fece il soggetto di alcuni dipinti; non per nulla lo scorcio panoramico del ponte medioevale ad un solo arco di 33 metri di luce che con armoniosa eleganza attraversa il torrente, unendo le case aggrappate alla rocca dove si erge il castello e la chiesa di San Filippo del  XVIII° secolo è una visione tra le più caratteristiche dell'entroterra ligure. 
Ma Dolceacqua è anche storia di uomini che con fatica hanno costruito le terrazze che si arrampicano sulle colline assolate in cui da sempre si producono olio e vino e più recentemente fiori, nel rispetto delle più sane tradizioni contadine.
La cucina tipica di Dolceacqua è costituita da cibi genuini, possibilmente fatti in casa, ma non per questo meno raffinati e delicati di gusto; troviamo prodotti tipici come la salsa di olive, abbinata a carne, pesce e uova; i pomodori secchi, tagliati a strisce e lasciati essiccare al sole, poi salati e insaporiti con erbe aromatiche locali ed ovviamente non poteva mancare il pesto, un condimento ideale per la pasta e i minestroni - ingrediente principale è il basilico, le sue foglie fresche vengono accuratamente selezionate e pestate con l'aggiunte di pinoli, aglio, sale ed olio extravergine di oliva.


Ed ancora, i celeberrimi "ravioli" - con ripieno a base di erbe di stagione -, il "brandacugliun" - stoccafisso, aglio, prezzemolo, sale, pepe e uova -, le "michette" - tipico dolce con impasto di farina, olio di oliva, uova, zucchero, lievito di birra-.
Questa zona è rinomata per la notorietà del vino Rossese di Dolceacqua; é un vino rosso di gran corpo ottenuto dalle uve del Rossese dei comuni di Dolceacqua e limitrofi, presenta colore rosso rubino, granato se invecchiato; il profumo è vinoso ed intenso, il sapore morbido, aromatico, caldo; può essere invecchiato fino a 5-6 anni; gradazione alcolica 12% vol.; va servito fra i 18-19 gradi C ed è adatto per bolliti misti, arrosti, formaggi stagionati. 
In cenno doveroso all’architettura religiosa con la chiesa di San Filippo , eretta nel XVIII° secolo al di là del Ponte Vecchio, la chiesa parrocchiale di Sant'Antonio abate a Terra, del XV° secolo custodente il polittico di Santa Devota di Ludovico Brea del 1515, la chiesa di San Giorgio del XI secolo, all'ingresso dell'abitato, la più antica, nella cui cripta sono ancora conservate le tombe di Stefano Doria (1580) e di Giulio Doria (1608), il Santuario dell'Addolorata del 1890 e le rovine del convento dei Padri Agostiniani, in origine sede di un Priorato benedettino di Novalesa - Breme, - edificato sui resti di un'antica villa rustica romana, la cui cripta, non ancora esplorata, dovrebbe rivelare ulteriori ed ancor più approfondite testimonianze della presenza monastica 
Per gli appassionati dell’archeologia un capitolo tutto a parte.
Nei primi anni novanta, lungo l'antico percorso della via Eraklea sopravvissuta nell'ossatura della mulattiera che dal guado del Roia, località Varase, conduce a Dolceacqua, e più precisamente in località S. Bernardo sono stati scoperti, reimpiegati nei muri a secco di un oliveto su un'area di oltre 100 mq., reperti archeologici, presumibilmente databili tra il IV° e il III° millennio a.C., che rimandano ad un Santuario Neolitico legato al culto della fecondità.
Visitando il luogo, colpisce a prima vista una lastra di arenaria locale lavorata a tondo in parte mutila del diametro di cm. 95 con al centro una incisione vulvare di cm. 7; incisione da non interpretare come una rappresentazione oscena come potrebbe suggerire la nostra morale cristiana, ma una realizzazione finalizzata ad esaltare l'organo genitale femminile da cui nasce il miracolo della vita . 
Sotto l'incisione vulvare sono presenti in linea 28 micro coppelle - calendario mestruale lunare che trova un confronto con una eguale esecuzione di micro coppelle incise sulle pareti di un tempio megalitico di Malta -.
Segue a lato in posizione frontale, una lastra di arenaria anche in questo caso in parte mutila che misura cm.  102 x 48 sulla quale al centro sono presenti tre incisioni vulvari disposte in linea orizzontale che si incrociano con altre due allineate in senso verticale; allineamento che trova un confronto con delle incisioni vulvari riscontrate sopra un affioramento roccioso nei pressi di un menhir scoperto tra i boschi alle falde del monte Monte Caggio. 
Segue, reimpiegato alla base del successivo muro a secco, un menhir che misura cm. 260 x 70 sul quale si distingue un elementare tratteggio del volto con la testa arrotondata e grandi occhi. 
Poco distanti, sempre riutilizzati alla base di un terrazzamento, sono presenti altri due menhir di dimensioni pressoché eguali al precedente che rivelano tracce di lavorazione finalizzata ad arrotondare il lato nella sua giacitura d’origine eretta. 
Troneggia ad alcuni metri di distanza, nella sua collocazione d’origine inglobata dentro un muro, la raffigurazione schematica di una Dea Madre della fertilità che misura cm. 235 x 120 rappresentata priva degli arti con i tratti del corpo ridotti all’essenziale in contrapposizione all’enorme ventre gravido nel simbolismo della fecondità che ricorda per tipologia, le statuette delle Dee Madri del Neolitico; la realizzazione della pseudo statua è stata resa possibile dall’unione di una lunga lastra di arenaria infissa nel terreno che schematizza il corpo sottile della Dea Madre con la testa arrotondata e gli occhi appena accennati da due piccoli fori assemblata con l’intento di voler rappresentare un corpo unico ad un grande masso di arenaria lavorato a forma ovale, il ventre gravido della Dea Madre, divinità che si colloca a pieno titolo all'interno di una società di economia agro pastorale.


Segue nelle immediate vicinanze, inglobato dentro un muro del terrazzamento un altare sacrificale a forma di trapezio che misura cm 72 x 128. 
Misurazioni preliminari indicano che il Santuario Neolitico è rivolto a ricevere i primi raggi del sole nascente nella sella dell'opposta collina il giorno del solstizio d'estate. 
Nel corso degli ultimi anni , il territorio di Dolceacqua ha rivelato una straordinaria stagione della proto storia attraverso la scoperta di numerosi reperti archeologici tra cui un cromlech.
Probabilmente già abitata, anche se sporadicamente, in età preistorica è solo con l'età del ferro intorno al V° sec. a.C. che i primi abitanti di Dolceacqua ci hanno lasciato le loro più antiche tracce: i castellari. 
Passeggiando nei dintorni di Dolceacqua si possono scoprire delle autentiche meraviglie del passato; la zona è ricca di reperti archeologici: pietre lavorate con graffiti; simboli rituali di influsso celtico - "coppelle" scavate nella roccia usate forse per contenere grassi animali, destinate a rifornire "stoppini" votivi -; una tomba a tumulo (22 m di diametro), destinata ad un prestigioso principe, simbolo della devozione dei popolani.
Tra Dolceacqua e Camporosso si trovano ancora i resti di un "Rastrello": una casa armata di guardie scelte che presidiava le barriere poste sulla via dove i viandanti potevano essere fermati e ben controllati, sotto il tiro dei militi, da un capitano e due guardie.
Il "Rastrello" era ben sorvegliato durante le pestilenze e lo potevano superare solo i viandanti con "lettere patenti", cioè attestati di sanità.
Chi non le possedeva cercava spesso di aggirare il "Rastrello" ma in genere, per la collaborazione del popolo, giustamente timoroso dei possibili contagi, costoro venivano catturati dalle guardie e posti in isolamento, sotto scorta e supervisione di un medico.


Pigna
A Pigna tempo e vita si muovono al ritmo delle stagioni, mentre le regole e le norme sono imposte dal clima. L'incantesimo dei luoghi sa di biblico; il mare è a due passi, pur tuttavia siamo già in montagna; lo testimoniano il volo maestoso degli uccelli, l'impervietà delle alture, gli stupendi panorami, gli odori e i profumi della terra. Pigna ci si presenta come una cascata di antiche case riunite "a pigna", attraversate da stretti "chibi" (ripidi viottoli scuri): un grappolo di abitazioni che scende dolcemente lungo un morbido colle, mentre in alto resiste fiera la mole del campanile medioevale. Intorno, boschi di castagni e roveri nella zona in ombra, ulivi nella zona di sole e più in alto pascoli e "bandite". A fondo valle, in località Lago Pigo, sgorga una sorgente d'acqua solfurea, con stazione termale ed albergo, per la crenoterapia, con ottimi risultati per la cura della pelle. Nato nell'XI° secolo su iniziativa dei Conti di Ventimiglia che necessitavano di un avamposto strategico in quella zona, il borgo offre oggi una serie di bellezze storiche ed architettoniche senza eguali nella zona.
Il borgo di Pigna, attraversato dal torrente Nervia, è situato, compresa la frazione di Buggio,  nella parte montana dell'alta val Nervia in provincia d’Imperia da cui dista circa 62 km.
Recentemente sono state rinvenute tracce di primitivi insediamenti umani risalenti all'epoca preistorica, facendo presupporre agli storici che il primitivo villaggio di Pigna possa essere stato un pago del municipio di Albintimilium, l'odierna Ventimiglia. Un insediamento dell'epoca romana fu invece scoperto nel sito dove oggi sorge la chiesa benedettina di San Tommaso.
Storicamente le prime notizie ufficiali risalgono tra il XII° ed il XIII° secolo quando i Conti di Ventimiglia, signori della valle, fecero erigere un castello a scopo difensivo; la scelta della posizione del maniero fu molto strategica per i conti ventimigliesi poiché esso sorgeva alla confluenza della strada che da Ventimiglia conduceva a Triora, collegando così la costa con l'entroterra ligure-piemontese-nizzardo.
A partire dal XIII° secolo il feudo fu sottoposto ai Conti di Provenza - che lo sottoposero al contado di Nizza - erigendosi in comune libero e stipulando accordi per le terre agricole-pastorali con i comuni vicini di Castel Vittorio, Triora, Apricale, Dolceacqua, Saorge e Briga, quest'ultimi ora in territorio francese.
Tra il Duecento e il Trecento il borgo e l'intera val Nervia subirono gli scontri tra le fazioni guelfe e ghibelline e in particolare le contese territoriali tra il Regno di Provenza e la Repubblica di Genova. 
Nel 1365 presso il ponte di Lago Pigo si ristabilì la pace nella valle.
Nel 1388 il governatore provenzale cedette le terre di Pigna ad Amedeo VII di Savoia, così come attesta un documento ufficiale conservato presso l'archivio comunale. 
Nel XVII° secolo passò nei territori della Repubblica di Genova alla quale fu legato fino alla sua caduta nel 1797. 
Il territorio entrò a far parte della Repubblica Ligure e nel successivo Primo Impero francese (1805) di Napoleone. Il Congresso di Vienna stabilì il passaggio nel Regno di Sardegna (1815) così come altri comuni liguri facenti parti dell'ex repubblica ligure. 
Dal 1861 è parte integrante del Regno d'Italia.
Nel 1944, durante la Resistenza, fu proclamata la "Libera Repubblica di Pigna in Val Nervia" che, caratterizzata da propri ordinamenti democratici e ampia partecipazione popolare, ebbe vita dal 29 agosto all'8 ottobre dello stesso anno; la repubblica, difesa da formazioni garibaldine sotto il comando di Guglielmo Vittorio "Vitò", capitolò dopo aspri combattimenti iniziati il 4 ottobre.


Una manifestazione culinaria denominata "Raviolata di san Tiberio" che si tiene ogni anno il 10 ottobre ricorda una antica tradizione che vuole che all'epoca delle scorribande dei Saraceni sulle coste liguri, questi abbiano tentato più volte di entrare nel paese di Pigna, e durante uno di questi assedi i Pignaschi decisero di raccogliere tutto l'olio che era in loro possesso in grossi recipienti che fecero scaldare e rovesciarono il contenuto bollente, addosso agli invasori che batterono definitivamente in ritirata non tentando più l'assalto al paese. A questo punto gli abitanti di Pigna decisero di festeggiare la loro vittoria con una grande mangiata del loro piatto tipico, i ravioli, ma non avendo più l'olio per condirli li mangiarono così senza condimento, solo con il formaggio pecorino. Questa ricorrenza viene ricordata ogni anno il 10 ottobre antico giorno in cui si festeggiava il santo, da qui il nome della festa.
Pigna possiede un centro storico ricco di pregio, che si snoda tra vicoli tortuosi e pittoreschi, dalla piazza Castello, punto più alto del paese, su cui affacciano bei palazzi signorili con portali in ardesia. La quattrocentesca Loggia della Piazza Vecchia congiunge l’area dell’antico castello con la maestosa parrocchiale di San Michele, che vanta un magnifico rosone e il monumentale polittico di San Michele, capolavoro di Giovanni Canavesio. Nel palazzo del Municipio, il Museo Etnografico racconta i segreti della lavorazione del grano e della produzione del vino e dell’olio. Da ammirare altri bellissimi affreschi del Canavesio conservati nella piccola chiesa di San Bernardo, e le grandiose rovine della chiesa di San Tommaso a valle dell’abitato, che ne testimoniano l’originaria posizione. Merita una visita inoltre la frazione Buggio, piccolo abitato che ha mantenuto integro il suo carattere pastorale e rurale, culminante nella spettacolare piazza centrale, su cui affaccia l’unica chiesa al mondo dedicata a San Siagrio. 
La principale risorsa economica del comune è l'attività legata all'agricoltura, specie l'olivicoltura.
Famosi, oltre il confine regionale, sono i fagioli che rappresentano un'importante opportunità di integrazione del reddito derivante dall'attività agricola. Il particolare cultivar, il terreno e l'acqua sorgiva, permettono di ottenere un prodotto particolarmente apprezzato da esperti gastronomi e gourmet anche d'oltre confine. Recentemente è stato creato un consorzio del fagiolo bianco delle Alpi liguri che si propone la tutela e la diffusione del fagiolo di Pigna.
Il "Fagiolo bianco di Pigna" è presente sui territori di Pigna, Buggio e Castelvittorio da oltre 300 anni. Gli abitanti di tali comuni conobbero il fagiolo all'inizio del'600 grazie all'intensa attività commerciale delle città costiere della riviera, dove approdavano le navi spagnole cariche di cibi del Nuovo Mondo. 
La gastronomia ligure è ricca di preparazioni a base di cereali ed ortaggi, pertanto grazie alla riscoperta di antiche tradizioni enogastronomiche locali, la coltivazione del "Fagiolo Bianco di Pigna" ha preso sempre più piede. 
Tale legume lo possiamo trovare in svariati piatti tipici della zona abbinato a carne, pesce oppure gustato semplicemente con l'ottimo olio extravergine di oliva di produzione locale. L'abbinamento gastronomico tradizionale, fagiolo bianco con la capra, è stato dettato dalla necessità da parte della popolazione pignasca ad allevare le capre che costituivano una delle poche risorse alimentari degli anni passati. Date le caratteristiche organolettiche, il "Fagiolo Bianco di Pigna" si può definire una pietanza semplice, da gustare e condividere durante una cena o un pranzo offrendo all'organismo piacere e nutrimento. Il suo aspetto rosato, tendente al beige, ha una forma singolare molto tondeggiante; di dimensione medio piccola, pelle molto sottile, tenera e trasparente. La pasta è compatta ma morbida. Poco sapido, ha gusto delicato con note di castagne e noci fresche.
Il territorio nel quale viene coltivato il "Fagiolo Bianco di Pigna" si configura in un'area collocata esclusivamente nell'alta Val Nervia compresa nei comuni di Pigna-Castelvittorio e in minima parte in quello di Isolabona ; collocato tra il crocevia di sviluppo degli scambi commerciali tra il mare e la montagna è attraversato dal torrente Nervia e da moltissimi altri rii che trasportano acqua di natura calcarea che, assieme a terreni particolarmente drenati, caratterizza il gusto e le caratteristiche organolettiche del fagiolo. Le aree coltivate sono collocate nelle zone denominate in dialetto all'Abrigu (cioè all'aprico) esposte al sole, dove le colline hanno una conformazione dolce con leggeri pendii adatti per poter essere coltivati. Pare che i territori dove viene attualmente coltivato il fagiolo fossero, probabilmente, messi in coltura fin dall'epoca romana.

L'areale di produzione del "Fagiolo Bianco di Pigna" è compreso in una fascia altitudinale compresa tra i 300 e gli 800 metri slm, ai piedi dei monti delle Alpi Marittime (Monti Toraggio e Pietravecchia), in piccoli appezzamenti, molto spesso di difficile accesso ai normali mezzi meccanici, in genere in prossimità di piccoli rii per facilitare le operazioni di irrigazione che viene praticata ancora nella forma tradizionale a scorrimento naturale con l'ausilio di piccoli canali (beai).
Gli abitanti, come quelli dei tipici borghi medievali dei paesi dell'entroterra, vivevano esclusivamente di agricoltura e di pastorizia; tale contesto sociale favorì l'espansione delle coltivazioni del fagiolo anche in zone impervie rese coltivabili solo grazie all'opera dell'uomo con la creazione dei tipici terrazzamenti (fascie).
Il consumo tradizionale del "Fagiolo Bianco di Pigna" avviene secondo tradizionale ricetta: ammollo in acqua fredda per 12 ore; successivamente bollitura a fuoco lento per 40 minuti con un pizzico di sale ed un foglia di alloro; a parte viene preparato un trito con cipolla fresca ed aglio che viene aggiunto congiuntamente ad olio extravergine, pepe ed aceto a cottura ultimata.
Altri piatti tipici sono:
Gran pistau (grano pestato)
Il grano viene battuto dentro un mortaio di rovere fino a quando la pellicina che ricopre i chicchi si sarà staccata; dopo accurato lavaggio il grano viene messo a bollire con cotiche di maiale, cipolle, aglio, carote, sedano e lauro per 4/5 ore. Si serve condito con un soffritto di porro ed abbondante formaggio grattugiato. 
Pisciarada (torta di patate)
Dopo aver lessato le patate si schiacciano fino ad ottenere un composto morbido, tipo quello per gli gnocchi, si unisce latte, formaggio, olio, sale, pepe ed un pizzico di noce moscata. Con farina, poca acqua e olio di oliva viene preparata una sfoglia; dopo averla cosparsa con un po' di farina gialla o semolino la si stende in una teglia e successivamente si versa il composto di patate ricoprendolo, in parte, con la sfoglia stessa. Cospargere con una manciata di pecorino grattugiato e mettete in forno per circa 30 minuti, ovvero fino a quando vedrete la pasta ed il composto ben dorati. Servire calda. 
Benardun
Grattugiare in un'insalatiera della zucca gialla, aggiungere farina di granoturco ed abbondante formaggio pecorino grattugiato, latte ed olio di oliva fino ad ottenere un composto morbido ed omogeneo; Regolare sale e pepe e disporre il composto in una teglia precedentemente unta con olio di oliva. Cuocere in forno a calore medio, fino a che non si sarà formata in superficie una crosticina dorata. Servite caldo.


Triora
Ubicato nella Valle Argentina a 780 m s.l.m. sulle estreme pendici meridionali di un costone montuoso che digrada dal massiccio del Saccarello - Alpi Liguri - verso la stretta conca di fondovalle percorsa dal torrente Argentina ecco Triora - 380 residenti - maggior comune - per estensione - della provincia d’Imperia da cui dista 47 km.
Visitare il borgo, che presenta una struttura urbana essenzialmente integra con i caratteristici carugi, le case addossate l’una sull’altra, i resti di due delle cinque fortezze nonché di alcune delle sette porte, ci porta a contatto con una Liguria insolita, nascosta ed autentica; al visitatore viene offerta, intatta, l’antica atmosfera dei borghi agricoli e pastorali dell’entroterra ligure unita ad un alone di mistero -  Triora è noto come il paese delle streghe, a causa di un processo per stregoneria che riguardò alcune donne di Triora nel XVI° secolo; fra le rovine di alcune case la tradizione popolare individua il luogo dove le fattucchiere evocavano il demonio -.
Grazie all'altitudine e alla relativa distanza dalla costa, Triora ha un clima prevalentemente montano, con escursioni diurne accentuate; il freddo invernale, comunque, non è mai eccessivo, soprattutto perché il borgo, esposto a mezzogiorno e in pendio, risente del buon soleggiamento diurno e non subisce l'effetto dell'inversione termica di fondovalle; l'alta bastionata montuosa che chiude a nord l'alta valle Argentina, con altitudini uniformemente superiori ai 2000 m, la ripara poi dai venti settentrionali provenienti dalla val Padana, che portano pioggia e nevicate nelle zone vicine dell'alta val Tanaro.
Secondo alcuni storici locali il borgo ha molto probabilmente avuto origine nell'epoca romana, dalla tribù dei Liguri Montani, che si sottomisero all'Impero romano solo dopo lunghe lotte; come altri paesi vicini venne sottoposto alla Marca Aleramica e successivamente a quella facente capo ad Arduino d'Ivrea. In seguito divenne possedimento, intorno al XII°  secolo, del Conte di Badalucco (politicamente dipendente dai Conti di Ventimiglia) ed iniziò a stringere alleanze con i paesi e borghi attigui, specialmente con quelli maggiormente vicini alla politica espansionistica della Repubblica di Genova, e ad acquistare nuove terre tra cui metà castrum di Castelvittorio. La stretta vicinanza politica con Genova fece sì che in un atto del 4 marzo 1261, rogato poi l’8 novembre 1267, si sancisse il passaggio di Triora come nuovo feudo della repubblica genovese. Il passaggio di proprietà giovò molto al paese e al borgo - soprattutto per le numerose concessioni offerte da Genova, tra cui la libera pena capitale - tanto da diventarne comune capofila della nuova podesteria comprendente i borghi - ora comuni a tutti gli effetti - di Molini di Triora, Montalto Ligure, Badalucco, Castelvittorio, Ceriana e Baiardo.
La creazione di nuove cinte murarie e l'erezione di cinque fortezze difensive creò una sorta di nucleo fortificato, quasi inespugnabile, che mise a dura prova le truppe dell'imperatore Carlo IV° nella tentata conquista del borgo. Persino la Repubblica ebbe notevoli problemi nella sua gestione, leggermente inasprita per le continue tasse imposte agli abitanti, tanto da far imprigionare il capo delle milizie e distruggere parte della fortezza. Nonostante i dissapori creatisi la popolazione rispose positivamente alle chiamate di guerra, specie nella famosa Battaglia della Meloria del 1284, dove Triora e la sua podesteria inviarono nella battaglia marinara contro Pisa circa duecentocinquanta balestrieri a sostegno di Genova.
Nel 1625 l'esercito piemontese, guidato da Casa Savoia, cercò invano la conquista del borgo, che strenuamente difese le proprie terre, a differenza di altri paesi vicini che - dati alle fiamme - si arresero ai sabaudi. Ulteriori scontri si ebbero nel 1671 con il comune di Briga per futili motivi legati al territorio da pascolo.
In seguito alla caduta della Repubblica di Genova nel 1797 e all'istituzione della Repubblica Ligure di Napoleone Bonaparte, Triora divenne capoluogo cantonale della Giurisdizione degli Ulivi e dal 1805 parte integrante del Dipartimento delle Alpi Marittime francese.


Il Congresso di Vienna del 1814 stabilì il ritorno di Triora nei territori del Regno di Sardegna, così come gli altri comuni liguri della precedente repubblica democratica ligure napoleonica, e il definitivo passaggio nel neo-costituito Regno d'Italia.
Nel corso del XX° secolo la storia di Triora subì, secondo alcuni per le continue liti tra amministratori, notevoli contrasti governativi specie riguardo al territorio comunale, anche in seguito alla costituzione del comune di Molini di Triora nel 1903.
La seconda guerra mondiale contribuì drasticamente alla decadenza del comune, dove la furia nazista si accanì furiosamente il 2 e 3 luglio 1944; il borgo venne dato alle fiamme e furono rasi al suolo interi quartieri, causandone il repentino spopolamento. Finita la guerra si ridisegnarono i confini comunali nel 1947 e si stabilì l'assorbimento della frazioni brigasche di Realdo e Verdeggia, che scatenò vivaci contese comunali.
I monumenti di natura religiosa sono:
    collegiata di Nostra Signora Assunta nel centro storico; forse sorta su un tempio pagano, tra il 1770 e il 1775; l'impianto interno originario verrà sostituito con un'unica navata; nel 1837 la facciata fu convertita nello stile neoclassico; conserva un dipinto datato 1397 (Battesimo di Cristo) del pittore senese Taddeo di Bartolo, forse uno dei più antichi quadri della Riviera di Ponente nel suo genere; completano le opere due altre tele datate all’inizio del XV° secolo, un Cristo tardo trecentesco ed una tavola lasciata da San Bernardino da Siena nel 1418 a ricordo delle sue predicazioni
    chiesa di San Bernardino, risalente al XV° secolo, al di fuori del centro abitato; particolarmente     vivaci ed apprezzati gli affreschi eseguiti a partire dalla metà del XV° secolo;
    chiesa di Sant'Antonio abate;
    chiesa di San Dalmazio, già menzionata nel 1261, ad est del centro storico;
    chiesa della Madonna delle Grazie del XIII° secolo;
    chiesa di Santa Caterina d'Alessandria, eretta nel XIV° secolo e riedificata nel 1390;     attualmente si presenta in stato di rovina;
    chiesa di Sant'Agostino del 1614;
    oratorio di San Giovanni Battista, risalente al 1632; all'interno sono presenti, oltre l'ancona     (tavola dipinta da altare) del 1682, una statua lignea del 1725 ritraente il santo di Anton Maria Maragliano.
Tra le architetture civili abbiamo il Ponte di Loreto (1959); altissimo ponte (112 m) a campata unica (119 m) in cemento armato che unisce, in regione Loreto, l'abitato di Triora con la frazione Cetta, posta sul lato opposto della profonda gola del torrente Argentina. Fu probabilmente costruito per sperimentare nuove tecniche costruttive, in quanto la poco popolata regione così raggiunta non ne giustificava certo l'alto costo di realizzazione. Negli anni passati è stato sede di lanci di bungee jumping. Dopo vari suicidi compiuti proprio dall'alto del ponte, i suoi parapetti sono stati recentemente resi più alti e sicuri con l'aggiunta di una griglia.
Museo Regionale Etnografico e della Stregoneria.
Come dicevamo, Triora è un antico borgo medievale famoso per le vicende legate alla stregoneria degli anni 1587-1589, che portarono alla condanna a morte di sei donne. All’inizio del centro abitato è stato allestito il museo etnografico e della stregoneria che ricostruisce i cicli della vita contadina e conserva i documenti inerenti al processo di fine Cinquecento, unitamente ad oggetti, strumenti di tortura e pubblicazioni anche rare. Per i curiosi da segnalare la Cabotina, luogo dove secondo la leggenda si riunivano le bàgiue ovvero le streghe, palleggiandosi i bimbi in fasce con le colleghe dei paesi vicini.

Per gli amanti dell’escursionismo da Triora parte un ampio sentiero che raggiunge in un’ora circa il piccolo agglomerato pastorale di Goina, dove vive ancora una famiglia. Si prosegue per arrivare al Passo della Guardia, su uno sperone in posizione panoramica, sotto la splendida cornice delle cime Saccarello e Frontè. L’ambiente alpino è ricco di emergenze botaniche e zoologiche: qui vivono marmotte, camosci, ermellini, il gallo forcello, la pernice bianca e numerosi rapaci.

Rocchetta  Nervina
Il borgo medievale di Rocchetta Nervina, a soli 13 km dalla costa, alle spalle di Ventimiglia, è adagiato sul pendio del monte Terca, sulla confluenza del rio Oggia con il torrente Barbaira, in Val Nervia è crocevia tra l'Alta Via dei Monti Liguri ed il Sentiero Balcone, collegante Sanremo con le città francesi di Nizza e Mentone.
Studi effettuati sul territorio hanno permesso il ritrovamento di reperti dell'epoca preromana sul monte Abellio; la cima montuosa prende il nome dal dio onorato dalle popolazioni celtiche e liguri originarie del luogo. Durante l'epoca romana il borgo conobbe una fiorente attività economica, legato al commercio e alla produzione agricola dei servi e dei coloni; sono state rinvenute, in certe aree, monete romane di varie epoche raffiguranti imperatori romani quali Gordiano II° e Gordiano III°.
Le prime notizie documentabili su Rocchetta Nervina appaiono in un manoscritto medievale del 1186, dove si cita il borgo di Castrum Barbairae, dal nome del rio Barbaira; nel documento si apprende di una ribellione degli stessi abitanti contro il signore del luogo, Enrichetto dei Conti di Ventimiglia, che costretto alla fuga si rifugiò nel proprio castello.
Nei trent'anni che vanno dal 1348 al 1378 rappresaglie, incendi e scorrerie dominarono il borgo a causa dei conflitti tra la famiglia genovese Doria e gli abitanti di Rocchetta. I Doria, signori della vicina Dolceacqua, chiesero il possedimento del borgo, ma le ostilità fecero sì che il villaggio venisse dato addirittura alle fiamme per protesta.
Nel XV° secolo la famiglia Savoia ripristinò la pace nel comune rocchettino; quindi nel 1559 venne infeudata ai Doria, oramai vassalli dei Savoia, ai quali succedettero i Perrucca nel 1732.
Raggiunse l'indipendenza comunale nel XVIII° secolo, quando divenne comune libero della Repubblica Ligure. Seguì poi le sorti del Regno di Sardegna, nel 1815, e del Regno d'Italia nel 1861.
Nel territorio sono presenti i ruderi del castello comitale, costruito dalla famiglia Doria.
Il castello di monte Abelio, (in dialetto nervino Abegliu) ridotto a un rudere, si trova situato sulla cima del monte omonimo nel territorio di Dolceacqua ad un'altezza che sfiora i mille metri, venne eretto dai Conti di Ventimiglia sul finire del XII° secolo sulle rovine di un sito d'altura di età romana, rifugio di pastori transumanti.
Il toponimo Abelio è un prestito di francesismo che deriva dalla parola abeille (ape) che in dialetto si trasforma in Abeglia; al maschile indicando un monte perde la vocale a favore della u finale e diventa Abegliu con significato di monte delle Api. Il toponimo Abelio è molto diffuso in area Provenzale indica luoghi, pareti rocciose , dove la api costruiscono i favi; per citarne alcuni, torre dell'Abelio a Cap D'Ail nei pressi di Monaco, Rocchebilliere (rocca delle api) località Abelio alla Trinitè, paese dell''entroterra Nizzardo.
Il castello di modeste proporzioni, si presenta a pianta rettangolare con i muri perimetrali in buon stato di conservazione costruiti in pietra e tenacissima calce; l'ingresso sul lato nord, è rappresentato da un ampio portale con arco a tutto sesto in parte mutilo recentemente spezzato da un fulmine. La piazzola che da accesso al castello, nasconde al suo interno la cisterna che raccoglieva l'acqua del tetto. Il castello venne fatto costruire sulla vetta del monte Abelio a controllo di un antico asse viario mare-monti che aveva funzione di riscuotere il pagamento del pedaggio di uomini, animali e merci.

La mulattiera che in età romana univa il Basso Piemonte e la città nervina di Albintimilium, valicato il Colle di Tenda raggiungeva Briga; risaliva in direzione di Saorgio, evitando gli orridi del fondovalle, scalava zigzagando il monte Agu ed entrava in Val Nervia attraverso il passo di Saorgio. Proseguiva in modo agevole lungo i crinali della dorsale Nervia-Roya sul sentiero che oggi si identifica con l'Alta via dei Monti Liguri con punti cardine a Testa d'Alpe, Monte Abelio, Cima Tramontina, Ciaixe e Colla Sgarba.
Questo antico percorso tracciato dai pastori transumanti del Neolitico, in epoca storica divenne una importante via di comunicazione, via del sale che univa la costa con il territorio Padano aperta ai commerci e alle idee. Nel VI° secolo il progressivo abbandono della città nervina di Albintimilium, sull'antico percorso del monte Abelio si aggiunse una diramazione che conduceva in val Roya. La variante fu dettata dalla necessità di accorciare il percorso che conduceva al nuovo insediamento altomedioevale sorto sulla collina del Cavo e al tempo stesso permetteva di guadare il Roya nell'ansa di Varase.
Questa necessità si era venuta a creare dopo la distruzione del ponte sul Roya nei secoli delle invasioni barbariche.
Sul finire del tredicesimo secolo,un periodo di grande fermento e di rinascita economica del mondo medioevale, il feudo di Dolceacqua, Isolabona, Perinaldo e di Apricale entrò in possesso della potente famiglia genovese dei Doria e il castello dell'Abelio continuò per lungo tempo nella sua funzione di controllo dell'asse viario e della riscossione dei pedaggi.
In seguito allo smembramento della Contea di Ventimiglia, alle conquiste provenzali in Piemonte e all'acquisizione della Contea di Nizza da casa Savoia avvenuta nel 1388, si ebbero inevitabili ripercussioni geo-politiche che portarono a disertare il percorso nervino. 
Nizza eletta a porto franco divenne lo scalo privilegiato delle navi che scaricavano il sale proveniente dalla salina provenzale di Hieres e il trasporto verso il Piemonte, onde evitare le gabelle imposte da Genova nel Ponente Ligure, venne convogliato lungo le mulattiere del Nizzardo nelle valli della Vesubie e del Paglion.
La via del sale del Nervia, percorso privilegiato e più corto di comunicazione con il Piemonte, aperto per lunghi secoli ai commerci, risorto dopo le scorrerie dei Saraceni, inevitabilmente entrò in declino e il castello dell'Abelio venne abbandonato.
Dopo secoli di oblio, durante la guerra di successione al Regno d'Austria del 1744-1748, che contrappose una coalizione Austro-Sabauda agli eserciti Gallo-Ispani, il castello tornò per un breve tempo a rivivere con la presenza di una guarnigione Sabauda. Per la sua posizione strategica, divenne un importante caposaldo dell'apparato difensivo Austro-Sabaudo che con migliaia di uomini presidiava i crinali dal Monte Testa d'Alpe al mare.
Con l'avvento della seconda guerra mondiale sul monte Abelio i soldati italiani costruirono un una strada carrettabile che conduceva al castello dove furono istallate postazioni di artiglieria. Dopo l'otto settembre fu la volta dei tedeschi; a testimoniare la loro presenza restano sul luogo alcuni nomi incisi sulle rocce.
Nel periodo medioevale il sentiero che conduceva al castello aggirava il pinnacolo della montagna da nord, costeggiava una parete rocciosa sopra un abisso dove era stato scavato uno stretto passaggio agibile per una sola persona; in caso di pericolo poche milizie asserragliate in quel punto potevano di fermare gli assalitori.
Ormai da tempo il sentiero e il percorso carrettabile che permetteva di raggiungere il castello non sono più agibili, interamente sepolti dalla vegetazione. 


Apricale
Il borgo medievale di Apricale - 291 mt. s.l.m. - (Brigar o Avrigà in ligure) è situato nell'entroterra di Bordighera, nella valle del Merdanzo, affluente del Nervia, in provincia d’Imperia da cui dista 52 km
La sua felice posizione è all'origine del nome, che deriva da apricus, esposto al sole, ma la principale caratteristica del paese, che ha incantato nel tempo i suoi visitatori, è lo scenografico aspetto dell'abitato: una sinuosa cascata di antiche case di pietra allungate sulla dorsale di un erto pendio dominato dall'altura del castello.
Questa straordinario colpo d'occhio, unico nel pur ricco campionario dei "Villaggi di pietra" della Liguria intemelia (cioè abitata prima degli antichi Romani dalle tribù degli Intemelii), è stato celebrato da poeti e scrittori e dipinto da pittori di fama, che hanno contribuito a fare di Apricale un borgo particolarmente frequentato e amato dagli artisti.
Il paese presenta uno schema urbanistico medievale di enorme interesse, sia per la sua ottima conservazione, sia per la sua struttura mista, formata dal settore centrale avvolgente o a gironi, attorno al castello, disposto a semicerchio, circondato dall'anello pianeggiante dell'antico Carugio Cian (vicolo piano) e dai due agglomerati di cresta ubicati sugli opposti versanti della dorsale,  rispettivamente all'abrìgu e all'ubàgu - a sud e a nord - , attraversati verso ovest da via Castello e via degli Angeli con la porta medievale perfettamente conservata di Cousutàn (del fondo) e verso est da via Cavour.
Altre due porte medievali che delimitano l'antico cerchio di fortificazioni murarie, si trovano rispettivamente ubicate l'una, Porta Cutrùn, ai piedi dell'attuale muraglione di sostegno del castello, all'inizio del tratto settentrionale di via Martiri, l'altra sempre in via Martiri, ma nel versante opposto, detta Porta deu Carugiù Ciàn, completa dei suoi cardini di pietra e reca impressa sulle pietre del piedritto sinistro, la frase scolpita "1764 fame ubique" (fame ovunque), che ricorda un drammatico periodo di carestia. 
La ripidità dei versanti ha imposto la costruzione di erte e strette scalinate, sostituite da rampe a gradoni per collegare i vicoli a gironi concentrici; i frequenti passaggi coperti che uniscono le facciate opposte delle case, le frequenti piazzette, gli scorci panoramici sui valloni assolati che lo circondano fanno della visita una piacevole passeggiata nella storia e nel verde. 
Il visitatore sarà colpito soprattutto dal fascino medievale del Borgo, dalle case di pietra affacciate sui vicoli dall'andamento irregolare, dalle ripidissime e buie scalinate trasversali, dagli scorci fioriti e dalle tante piante che abbelliscono le scalinate esterne di accesso alle abitazioni. 
Quello in cui ci si immerge è un mondo fuori dal tempo, antico e immutato nei secoli, che quasi incredibilmente viene offerto alla nostra curiosità ma anche al nostro rispetto. 
Tutt'intorno, l'abbraccio di una campagna che dalle fasce, i terrazzamenti sostenuti da muretti a secco che nei secoli hanno strappato alla montagna preziosi fazzoletti pianeggianti di terra da coltivare, manda i riflessi argentei degli uliveti e il verde cupo delle altre colture fino alle masse più dense dei castagni e dei pini dei boschi sui rilievi più elevati.


Le sue origini si perdono nella preistoria come testimoniano i tumuli sepolcrali dell'età del bronzo rinvenuti in località Pian del Re (nel dialetto locale Cian deu Re); ufficialmente il borgo venne fondato intorno al X° secolo dai Conti di Ventimiglia, passando poi nel 1276 ai Doria, signori di Dolceacqua.
Nel 1267 comparvero i primi Statuti, tra i più antichi della Liguria, legati all'indipendenza per la costituzione in Libero Comune; nel 1573 la famiglia Grimaldi di Monaco distrusse il  castello dei Doria, scatenando lotte e guerre interne.
Subì l'invasione francese nel 1794 di Napoleone Bonaparte e la conseguente annessione nella Repubblica Ligure (1797) e poi nel Primo Impero francese dal 1805; alla caduta di quest'ultimo, nel 1815, fu inglobato nel Regno di Sardegna, come stabilito dal Congresso di Vienna, e successivamente nel Regno d'Italia dal 1861.
Gli statuti
Importanti per la medievale comunità apricalese furono gli storici Statuti Comunali del 1267, considerati i più antichi della Liguria, i quali regolarizzarono la vita degli abitanti del borgo con regole e fondamenta ben precise; ogni aspetto è minuziosamente contemplato, spaziando dalla regolarizzazione delle principali attività di sostentamento, al pagamento delle tasse e dei tributi e ovviamente nelle scelte di condanna per i reati più gravosi.
Proprio sul tema della giustizia si applicarono svariati e talvolta trucidi regolamenti punitivi, dalla sepoltura dell'assassino (ancora vivo) con la vittima, alla decapitazione delle donne adultere fino all'amputazione di un piede o della mano per i ladri di bestiame; i furti dovevano essere prevenuti dalle due guardie campestri - costrette a dormire tutti i giorni d'estate e due notti in inverno nelle ore notturne nei campi - e obbligate loro stesse al risarcimento materiale a seguito del mancato arresto dei presunti ladri dopo otto giorni dal furto.
Gli statuti ricorsero inoltre al "giudizio di Dio" sempre in materia di giustizia: il procuratore di danni o furti a terzi poteva essere dichiarato innocente se riusciva a camminare - per un breve tratto - con un ferro rovente in mano senza ustionarsi.
Castello della Lucertola
La formidabile posizione del castello, sopra uno sperone roccioso emergente dall'erta dorsale collinare e a dominio della sotto stante insellatura poi trasformata in piazza, autorizza a ipotizzare che in età preromana il sito ospitasse un castellaro, anche se finora sono mancati riscontri archeologici.
Edificato su uno sperone di roccia dai Conti di Ventimiglia nel X° secolo per farne il baluardo difensivo del luogo attorno al quale si è poi sviluppato il borgo medievale si affaccia dominando la piazza principale di Apricale così come l'attigua chiesa della Purificazione di Maria Vergine
La facciata era fiancheggiata da due torri quadrate, di cui la superstite, venne trasformata in campanile.
Passato il comune ai Doria, venne forse ingrandito e rafforzato, ma nel 1523 non potè resistere all'assedio del vescovo Agostino Grimaldi, che lo distrusse parzialmente senza tuttavia riuscire a catturare Bartolomeo Doria l'assassino del fratello, che vi si era rifugiato.
La successiva ricostruzione lo rese nuovamente agibile, ma con funzioni militari ridotte; passato ai Savoia nel 1634 e ancora a Francesco Doria nel 1652 (quando questi venne nominato marchese), fu venduto nel 1806 per 3.400 lire genovesi a Stefano Cassini, che iniziò la sua trasformazione in residenza privata.
All'inizio del Novecento, il chirurgo Fruttuoso Cassini, che lo aveva ereditato, vi ricavò due appartamenti che fece affrescare da Leonida Martini, e realizzò il giardino pensile sostenuto da un nuovo muraglione verso la chiesa; la palma che vi troneggia al centro risale a quella fase di ristrutturazione.


Il toponimo Brìcure, attribuito alla zona immediatamente posteriore, è stato interpretato quale luogo di stazionamento delle macchine per lanciare pietre, o brìcole.
Dopo un periodo di decadenza è stato acquistato dal Comune e sottoposto a un provvidenziale e radicale restauro, che lo ha restituito alla sua antica dignità. 
Sono stati inoltre recuperati gli ambienti sotterranei coperti da volte a botte e già adibiti a cantine e depositi di derrate varie (alcuni ambienti erano probabilmente destinati a prigione), mentre i signorili ambienti affacciati sul giardino pensile del piano rialzato accolgono le sette sezioni del Museo della Storia di Apricale.
Il grandioso salone del piano superiore e le sue appendici laterali sono una sede perfetta per le mostre d'arte e le manifestazioni culturali che vi si susseguono durante tutto l'anno. 
Superato il portone d'ingresso un breve corridoio immette nel giardino pensile (fiorito e profumato, diviso a metà da un vialetto coperto da un pergolato in ferro battuto realizzato in loco nel 1930).
Sul fondo, un gruppo statuario intitolato Le marché aux femmes, che ritrae alcune figure femminili, è opera di François Bouché di Marsiglia; dello stesso artista è pure la scultura L'arbre de l'amour che si trova accanto al gazebo metallico; una terza scultura, opera di Georges Boisgontier di Vence, raffigura Edipo re. 
Visto dalla sottostante piazza principale, il Castello della Lucertola, si mostra al visitatore con un alto muraglione in pietra a vista, che nella parte rivolta verso la chiesa presenta un doppio ordine di tre arcate a tutto sesto; la più interna dell'ordine inferiore, chiusa da una cancellata e accessibile dall'interno, custodisce sulla parete il dipinto di Enzo Cini San Bartolomeo dei Fiori, che fu realizzato per l'oratorio di Apricale.
Nei locali sotterranei si tiene l’abituale della Festa dell'olio nuovo in primavera, e vi si conservano alcuni attrezzi per il lavoro agricolo; scendendo nella parte più bassa, formata da due antiche cisterne, si accede alla Loggia superiore che si affaccia sul sagrato della chiesa parrocchiale, e si entra nella Galleria del Teatro, un corridoio ricavato tra le mura antiche del castello e i muri più recenti costruiti durante i lavori di sistemazione del giardino pensile all'inizio del Novecento.
Qui sono esposti i manifesti delle varie rappresentazioni teatrali dal loro debutto nel 1990 sino ad oggi, nonché le sagome della scenografia dei Tarocchi di Emanuele Luzzati.
Piazza Vittorio Emanuele II
E’ senza dubbio il cuore pulsante del borgo, in cui si affacciano tutte le principali vie del paese e in cui fervono le principali attività pubbliche. 
Qui hanno infatti la sede oltre al Municipio, la Pro Loco, lo I.A.T., le Poste, le Scuole Elementari, nonché la Chiesa Parrocchiale e il Castello della Lucertola che la dominano dall'alto; lo sbocco del grande spazio era un tempo difeso da un torrione, di cui rimane memoria nel nome della zona, la Turaca. 
L'insellatura ai piedi del castello, forse adibita a fossato, venne sistemata alla fine del Quattrocento nella platea nova communis o platea magna, vasta area dalla forma irregolare quadrangolare in leggera discesa, su cui convergono sei strade e si affacciano come detto i principali edifici pubblici e religiosi; la pavimentazione è in lastroni di arenaria; al centro la pietra scolpita detto ciotu de magiu (pietra di maggio), costituiva la base per l'innalzamento dell'albero di maggio o della libertà, oggi usata in diverse occasioni vuoi come basamento per l'albero di Natale, vuoi come base per l'albero di ulivo nella festa dell'olio nuovo, vuoi per l'albero della cuccagna, durante la festa della primavera.


Visione d'insieme
Aperta sul lato meridionale, che la illumina con mutevoli giochi di luce durante il giorno, appare incassata fra le sovrastanti strutture murarie che sostengono gli edifici; il lato sinistro è occupato dalle arcate di pietra a vista su cui si appoggia la piazzetta superiore, sagrato della chiesa parrocchiale dalla facciata neoromanica; sotto le arcate o sui sedili di pietra i consoli medievali del borgo, amministravano la giustizia.
Al termine della prima rampa acciottolata si apre il tratto settentrionale di via Martiri, delimitata dall'altissimo muro del castello, che si affaccia sulla piazza col magnifico giardino pensile; il lato di fondo presenta una serie continua di edifici ottocenteschi culminanti nella Casa dei Sindaci dalle caratteristiche arcate in stile gotico. 
Sulla sinistra via Garibaldi - in cui si vede ancora "la casa del boia", così detta perché secondo gli Statuti qui venivano appese come monito le teste dei criminali precedentemente giustiziati - scende fino ai piedi del paese. 
Sulla destra invece si apre un porticato dalla doppia arcata che sostiene la balconata su cui prospetta l'oratorio barocco di San Bartolomeo cui si accede salendo la rampa laterale; ai lati dell'oratorio si aprono rispettivamente via San Bartolomeo (Cousinaighe) che risale la collina, e via Cavour (Bouser), che conduce al cimitero e alla chiesa di Sant'Antonio Abate.
La seconda arcata è occupata da una fontana monumentale formata da una grande vasca rettangolare di lastroni quadrati di pietra, dove si getta l'acqua che scaturisce da tre bocche poste al centro di dischi lavorati; la struttura della fontana richiama modelli rinascimentali.
Il lato destro della piazza è completato, a un livello inferiore dall'edificio municipale, costruito nel 1863 in sostituzione di quello cinquecentesco divenuto insufficiente. 
La facciata è ornata da sei affreschi di artisti contemporanei su due registri, che dall'alto al basso raffigurano La fondazione del borgo (L. Musso), L'emanazione degli statuti (R. Cassini), L'assedio del vescovo Agostino Grimaldi (E. Frana), Fame e carestia (F. Stasi), L'attività agricola (M. Raimondo) e la Costituzione della Comuità Artistica Nervina (M. Agrifoglio), episodi che ripercorrono le tappe più significative della storia del paese; sotto gli affreschi spicca la Veduta della chiesa e del castello, in piastrelle di ceramica policrome (A. Marra 1987).
L'aspetto scenografico è straordinario e si presta molto bene per le tante rappresentazioni ed eventi che vi si svolgono ogni anno, offrendo al pubblico il suo volto poliedrico, di mese in mese mutevole; è la cornice perfetta per risvegliare ricordi di altri tempi durante tutto l'arco delle festività natalizie, che vedono acceso ininterrotamente il falò sino all'Epifania con l'allegro scoppiettio dei tronchi di pino e abete e il chiacchiericcio degli abitanti che vi fanno capolino per scaldarsi e stare in compagnia.
Qui trovano posto l'allegria che accompagna la festa di San Valentino in febbraio, come anche gli addobbi che l'arricchiscono per la Festa della Primavera e dell'olio nuovo o ancora la fiumana di gente che da sempre la riveste durante la Sagra della Pansarola, la seconda domenica di settembre; in estate poi ospita concerti, spettacoli, riuscendo a trasformarsi da palcoscenico magnifiche scenografie teatrali durante il mese di agosto o in pista da ballo nelle serate danzanti o come campo da gioco per le entusiasmanti gare di pallone elastico che la vedono protagonista per tutto il mese di luglio; e ancora muta in salotto per gli abitanti come meravigliosa appendice alle tante mostre che vengono ospitate nel salone del castello.
I Murales
Quello che colpisce da subito il visitatore che si arrampica su per i millenari carrugi è la presenza costante sui muri delle case dei numerosi dipinti a sfondo agreste che ne impreziosiscono le facciate; questi murales hanno origini dalla vena artistica dei suoi abitanti che negli anni sessanta, con la nascita della Comunità Artistica Nervina, hanno voluto dare un'impronta significativa al paese.


Apricale vanta un numero di chiese e cappelle campestri, alcune di antichissima origine,  molto elevato; la loro presenza é costante nel territorio sia nel paese sia nelle campagne, a testimonianza di una fede ben radicata nella popolazione nel corso dei secoli. 

Chiesa della Purificazione di Maria Vergine
La chiesa, eretta intorno al XII° secolo, è la principale del paese, situata in posizione centrale e scenografica, davanti alla "Torracca" - la piazzetta che domina la piazza principale del borgo; il suo aspetto odierno é il risultato di numerosi rifacimenti e ingrandimenti che a partire dal Duecento ne hanno mutato sia l'orientamento sia la dimensione; gli ultimi interventi edilizi risalgono al 1760 con la trasformazione in stile barocco.
Secondo la tradizione locale, il precedente edificio seicentesco venne in parte demolito e il suo orientamento ribaltato in modo che la facciata prospettasse sulla piazza e il fianco destro corresse parallelo al castello.
Arredi interni e finiture richiesero un altro decennio e furono conclusi grazie al concorso economico della popolazione.
La facciata neo romanica è stata rifatta nel 1935; il campanile della chiesa è stato ottenuto dall'antica torre quadrata del Castello della Lucertola nella cui sommità è stata fissata una bicicletta rivolta verso l'alto - la singolare e curiosa installazione altro non è che un'opera artistica contemporanea del 2000 di Sergio Bianco  “La forza della non gravità” -.
Il portale centrale e' sovrastato da un rosone che accoglie il moderno mosaico raffigurante La Purificazione di Maria Vergine e la Presentazione al Tempio, mentre sopra i portali laterali si aprono due finestre le cui vetrate rappresentano San Luigi e Sant'Agnese. 
Nel luminoso interno a tre navate, divise da due file di quattro pilastri ciascuna, colpisce immediatamente la gradevole pavimentazione a mosaico eseguita nel 1903 da Giuseppe Tamagno; anteriori di un anno sono le decorazioni ad affresco delle volte con figure di santi e motivi floreali, dovuti alla mano di Leonida Martini; le finestre che si aprono sulla navata sinistra sono ornate da vetrate realizzate all'inizio del Novecento a Parigi e dedicate a San Vincenzo, all'Immacolata, a Santa Margherita e a San Giuseppe. 
Le pregevoli stazioni ottocentesche in gesso dipinto della Via Crucis, provengono invece da Nizza; i dipinti esposti sono anonimi da di buona fattura e risalgono alla fine del Settecento e all'Ottocento.

Chiesa di Santa Maria degli Angeli
Sorge ai margini inferiori dell'abitato, lungo la mulattiera che conduce a Isolabona, sopra un rilievo roccioso e incassata nella valletta a poca distanza da un torrentello tributario del Mandancio, il rio San Rocco; sulle origini non ci sono né documenti né certezze, soltanto ipotesi; poteva essere una cappella porticata, luogo di sosta lungo l'itinerario che risaliva la valle, oppure una cappella addossata a un posto di guardia, posta a difesa dell'accesso meridionale del borgo. 
La prima menzione scritta risale al 1520 e si trova in un lascito testamentario.
La facciata della chiesa é a capanna e presenta una grande arcata a tutto sesto recintata da una cancellata, probabilmente eretta nel 1739, data incisa sopra il muretto su cui poggia; l'unica aula rettangolare absidata, é addossata, sul lato a monte, a un piccolo edificio attraversato da un portico, chiuso tra il fianco destro e la rampa a gradoni della mulattiera che scende dalla provinciale; un piccolo campanile triangolare si innalza dall'angolo sinistro dell'abside.
L'interno suddiviso in tre campate chiuse dall'abside, é interamente affrescato da una eccezionale serie di pitture realizzate fra il XV° e il XVII° secolo, che rappresentano il ciclo pittorico più sintetico e continuativo delle tendenze artistiche presenti nell'estremo Ponente Ligure e nelle Alpi Marittime; si tratta di una straordinaria rassegna di stili e tendenze che copre quattro secoli, cui si devono aggiungere riprese e ritocchi ottocenteschi. 
La volta della prima campata, divisa in quattro spicchi rettangolari, é ornata dalle figure dei Dottori della Chiesa; é il ciclo più pregevole, risalente ai primi decenni del Cinquecento; nell'arcata che divide la prima dalla seconda campata compaiono gli stemmi dei Doria e dei Grimaldi. 
La seconda campata, pure suddivisa in quattro spicchi, contiene il dipinto ritenuto più antico per via dello stile ligure-piemontese di matrice tardogotica, un poco ingentilita dai modi del Canavesio, l'Incoronazione della Vergine (databile nella seconda metà del Quattrocento); vicine le figure degli Evangelisti Matteo, Marco e Luca.
La terza campata é decorata da Scene della vita della Vergine, risalenti alla seconda metà del Cinquecento. 
L'abside presenta Episodi dell'Infanzia di Gesù circondati da figure di Angeli e Virtù, dipinti quasi certamente nel 1640; l’abside accoglieva già un ciclo di affreschi che, con l'occasione, furono ripresi e arricchiti dai riquadri della Pentecoste e della Fuga in Egitto.
Le pareti laterali sono occupate dal ciclo dei Misteri del Rosario, opera dei pittori Bartolomeo Asmio di Sanremo e di Antonio Semeria di Coldirodi.
Il grande altare ligneo risale al Cinquecento e proviene da un'altra chiesa, forse la parrocchiale; risulta infatti essere sproporzionato allo spazio disponibile. 
Da segnalare, poco distante, al fondo della valletta, la caratteristica Fontana del Pozzo, realizzata nel 1852 e coperta da tre volte in pietra: sotto la prima ci si forniva d'acqua, sotto la seconda si abbeveravano gli animali, sotto la terza venivano lavati i panni.

Chiesa di Sant'Antonio
Risalente al XIII° secolo fu edificata nei pressi del locale cimitero sui resti di un antico tempio di epoca romanica; dell'edificio originario rimane integra soltanto l'abside in conci di arenaria, decorata in alto da una fila ininterrotta di archetti pensili di tradizione romana.
Attorno alla chiesa si estendeva un cimitero, così come era avvenuto in precedenza nel campo antistante San Pietro in Ento e come avvenne presso la cappella di San Martino, in quanto la chiesa parrocchiale di Santa Maria Alba non disponeva di spazi idonei alle sepolture.
Anche l'aula rettangolare ricalca le misure originarie; fra il 1771 e il 1776 fu sottoposta a ristrutturazione per il grave stato di degrado in cui versava; insieme fu rifatto anche il tetto e restaurata la sobria facciata seicentesca. 
L'interno, scandito in quattro campate più l'abside, é custode di importanti opere d'arte antica; l'abside é decorato ad affresco (in parte deteriorato) con la figura centrale del Cristo in mandorla (cioè racchiuso tra due archi di luce che formano una grande aureola ellittica, appuntita in alto e in basso, sintesi di apoteosi e gloria), assiso in trono e con i piedi nudi e divaricati; il registro inferiore é occupato da cinque riquadri rettangolari: al centro c'é Sant'Antonio Abate, ai lati coppie di santi, fra cui a sinistra San Bartolomeo con il coltello della scarnificazione in mano e a destra San Zeno con il pesce e il libro. 
I due altari laterali sono ornati dalle tele della Discesa dello Spirito Santo sulla Vergine e gli Apostoli (a destra) e della Pietà fra Santa Lucia e Sant'Agnese, attribuiti al pittore Bartolomeo Asmio di Sanremo .
Alle pareti della chiesa si possono inoltre ammirare altre tre grandi tele d'inizio Seicento dovute a mano anonima; sulla parete a destra é raffigurata l'Adorazione dei Magi, e su quella di sinistra si trovano la Natività con San Gerolamo e santi e l'Incoronazione di Maria Vergine fra santi ed anime.
Notevole anche la statua lignea di Sant'Antonio Abate che reca la data del 1640.

Oratorio di San Bartolomeo
L'oratorio, edificato ad inizi del Cinquecento quale sede della Confraternita omonima, che era solita festeggiare qui sia la ricorrenza del Santo (24 agosto) sia quella della Madonna della Neve (5 agosto), domina anch'esso la piazza principale del borgo e si eleva sopra la doppia arcata della fontana, prospettando la sua facciata di fronte al giardino pensile del castello e alla chiesa parrocchiale.
Nel settecento si provvede a intonacarlo e probabilmente a decorarlo in forme barocche.
La semplice facciata é scandita da quattro lesene con capitelli corinzi, ai lati del portale sovrastato da un grande oculo ellittico; l'alto campanile é a vela centrale; l’edificio presenta un'unica aula rettangolare, con copertura a volta e sobrie decorazioni barocche, nel cui interno sono conservati due pregevoli dipinti antichi.
Sulla parete di destra é stata collocata la tavola - anonima, datata ai primi del Cinquecento. dipinta a olio  - raffigurante Sant'Antonio Abate; il restauro del 1960 ha restituito al dipinto la sua freschezza originale, i delicati colori e la finezza dei tratti del volto del santo, che appare seduto su uno scranno dalle rigorose forme geometriche, coronato da un semplice cartiglio dai lembi arricciati. Il santo veste abiti monacali, con il saio e il mantello scuro recante il simbolo "T" della croce commissa, o Tau; il volto barbuto é sereno, molto ben delineato, tanto che si é pensato alla mano di Ludovico Brea o della sua scuola. 
Sopra l'altare maggiore spicca il polittico a sei scomparti a predella inserito in una cornice lignea intagliata rettangolare, con colonnine tortili e baldacchini dorati posti a separazione. 
Al centro é raffigurata la Madonna della Neve col Bambino e fedeli; tra i quattro penitenti dipinti in basso vi é anche il committente del polittico vestito di rosso.
Ai lati vi sono le figure di San Bartolomeo (a sinistra) e San Lorenzo in veste di giovane diacono, con la palma e con lo strumento del martirio (la graticola); nei registri superiori vi sono i riquadri della Pietà al centro, con il Cristo seduto sul sepolcro, la Madonna e San Giovanni ai fianchi, e lateralmente l'Arcangelo Gabriele e l'Annunziata; la predella presenta il Cristo affiancato dai dodici apostoli. 
Nell'Oratorio sono custodite le statue di San Bartolomeo e della Madonna della Neve, quest'ultima opera del 1849 del genovese Paolo Olivari.
Le pareti hanno restituito tracce di decorazioni anteriori alla decorazione barocca.

Chiesa di San Pietro in Ento (ruderi)
La prima parrocchiale ('XI° o XII° secolo) dei villaggi rurali circostanti, loro primitiva pieve dedicata a San Pietro e affiancata dal cimitero. 
Si tratta dell'edificio religioso più antico - anteriore alla stessa nascita del borgo - di cui oggi rimangono solo i ruderi, che si trovano isolati su un poggio affacciato sulla Val Nervia, lungo l'antica strada che conduceva a Pigna, a oltre 3 km dall'abitato. 
Il toponimo Ento potrebbe riferirsi al convento benedettino da cui trasse origine, infatti la zona di San Pietro viene tuttora chiamata dai locali U Cunventu. 
Di certo si sa che nel 1230, sullo spiazzo antistante la chiesa che domina un fertile anfiteatro sistemato a fasce di uliveto, si radunò il Parlamento di Apricale per la nomina di un giudice di pace; la chiesa é citata negli Statuti del 1267 e, nonostante il suo progressivo abbandono, viene ricordata nel Cinquecento in alcuni lasciti per mettere rimedio alle infiltrazioni d'acqua nel tetto.
Nel Seicento il parroco di Bordighera aveva giurisdizione sulla chiesa e nel Settecento un priore era ancora incaricato della sua manutenzione e il camposanto serviva ancora il borgo (l'attuale cimitero infatti ha iniziato la sua funzione dalla fine del Settecento). 


Poi ogni notizia sull'edificio cessa; ormai si tratta da un rudere ricoperto di edera e altri rampicanti, e invaso all'interno da rovi ed erbacce, ma i muri superstiti rilevano la sua originaria struttura romanica; la facciata é parzialmente crollata insieme alla parete laterale sinistra e al tetto, mentre quella a destra e l'abside semicircolare sono ancora in piedi; la muratura é formata da corsi regolari di blocchetti squadrati di arenaria di dimensioni diverse; nella parete destra si aprono due porte, una piccola con arco a tutto sesto presso l'abside, l'altra maggiore in corrispondenza della prima campata, rifinita con un arco falcato; due piccole finestre quadrate recano traccia di archetti pensili, mentre l'abside é aperta da due monofore contornate da blocchi di tufo.

Cappella di San Vincenzo Ferrer
Risalente al XVI° secolo, ma rivista in forme barocche, è situata lungo la strada provinciale per Perinaldo a circa un chilometro dal centro di Apricale; la facciata quadrata, incorniciata da due lesene laterali e sovrastata da un'edicola centrale con la statua del santo entro una nicchia, é occupata da una grande apertura ad arco a tutto sesto chiusa da una cancellata.

Cappella di San Martino
Forse già antica pieve romanica con annesso cimitero, le prime informazioni sulla cappella risalgono al XVI° secolo, conserva tracce di affreschi cinquecenteschi nel catino dell'abside.
Lasciata alle spalle la cappella di San Vincenzo, proseguendo per la strada provinciale per Perialdo, si giunge in vista del ponte Cannone che attraversa il torrente Mandancio; si svolta a sinistra e si percorre lo sterrato fino a incontrare, dopo alcune centinaia di metri, due ponti affiancati, l'uno antico e l'altro moderno; ancora svolta a sinistra e, poco oltre, nella vegetazione, si scorge sopra la strada la cappella di San Martino. 
All'inizio del XVII secolo il cimitero fu ristrutturato, poi seguì un lungo periodo di degrado e l'abbandono nella seconda metà del Settecento; la semplice facciata a capanna presenta l'ingresso affiancato da due finestrelle e sovrastato da una finestra curvilinea; nell'unica area rettangolare, ormai priva di copertura, é interessante osservare nel catino dell'abside, in un'apertura dietro l'altare, parte degli affreschi ben conservati, in apparenza cinquecenteschi, coperti dall'intercapedine anteriore che vi si appoggia.
All'esterno l'abside mostra la bella struttura muraria in grossi conci d'arenaria coronati da una fila di archetti pensili. In passato, nei pressi della chiesa, sul vicino Poggio delle Ruve, sarebbero state scoperte alcune tombe antiche, forse romane.

Cappella di San Rocco
Edificata lungo la mulattiera per Pigna, nella zona settentrionale del borgo apricalese, è citata in un atto testamentario del 1576; vi si arriva risalendo via San Bartolomeo sino alla dorsale collinare in cui si incontra la strada panoramica del Feoga e di qui si segue la stessa verso sinistra. 
Dedicata al santo protettore delle pestilenze, presenta la semplice facciata rettangolare con due lesene agli angoli; la porta centrale, ha due finestrelle ai lati e un oculo superiore ed é sovrastata da un frontale curvilineo che nella nicchia della provvidenza centrale conserva una statua del santo. 
 

Cappella di Moudena
Situata lungo la mulattiera per la regione di Moudena; per arrivarvi si parte dal viale delle Rimembranze quindi si passa presso il campetto sportivo e si prosegue la discesa tra terrazzamenti e incolti, incontrando i ruderidi due frantoi; poco oltre si raggiunge l'antico ponte romano di pietra a schiena d'asino di Cian deu Murin (piano del mulino) e proseguendo nel boschetto si segue la mulattiera sino ad arrivare in prossimità di alcuni fabbricati rurali. 
Aggirato un costone il percorso prosegue in salita e si incontrano i primi castagni della regione Moudena, che poi si infittiscono fino al moderno santuario dedicato nel 1945 alla Nostra Signora di Monte Carmelo; l'edificio circondato da una vasta area prativa, presenta una semplice facciata a capanna ed un campanile cuspidato che s'innalza sul retro.

Draghi e Diavoli in Val Nervia

Scandagliare tra i relitti di toponomastica le sorprese non mancano, può accadere che tra le pieghe del tempo ricompaiano pagine inedite di storia che ci raccontano di tempi lontani in cui, su mandato della chiesa, draghi e demoni terrorizzavano la Val Nervia.
Agli albori del XI° secolo, se il processo di evangelizzazione nelle città si poteva ritenere compiuto, nelle campagne, tra popolazione rurale conservatrice poco permeabile alla nuova religione monoteista continuava ad imperare il paganesimo; una realtà che ha lasciato le sue tracce nel comprensorio di Pigna con il toponimo Pagan, Paganaglia a Rocchetta Nervina e Campo dei Pagani in località Veonegi (Isolabona).
La svolta ispirata nel V° secolo dal papa Gregorio Magno che portò all'avvio del lungo processo di sincretismo religioso, riverniciatura cristiana di elementi sacri del paganesimo, diede i suoi frutti nelle grandi città, mentre nelle campagne e negli alpeggi, lontano dall'occhio vigile della chiesa, tra i contadini ed i pastori perduravano pratiche religiose precristiane di tipo naturalistico legate alle pietre (menhir) agli alberi e alle fonti.
Nell'intento di perseguire il paganesimo ed imporre con una azione incisiva la nuova religione, l'autorità ecclesiastica, preso in prestito dalle pagine della Bibbia arruolò il diavolo e tra le lontane leggende sopravvissute all'usura dei secoli il drago con precise regole di ingaggio rivolte ad incarnare tutti i mali dell'umanità.
In pari tempo la chiesa, nella consapevolezza di dover interloquire con una popolazione analfabeta e per diffondere il nuovo concetto della personificazione del male, nell'intento di impressionare e spaventare i cultori dell'idolatria politeista, diede inizio a rappresentare nell'arte religiosa romanica le loro immagini mostruose.
Nei dipinti il diavolo veniva rappresentato nudo, con le ali di pipistrello, le corna, la barba caprina, gli artigli, gli occhi di fuoco e con in mano una forca; durante le omelie, la sua figura malefica rappresentata nelle chiese veniva additata dai parroci per spaventare i colpevoli di devianze dottrinali candidati a perire di una morte orrenda tra le fiamme degli inferi. 
Relitti di toponomastica ispirati dalla chiesa che ricordano il processo di demonizzazione dei luoghi di culto pagano, provengono da un menhir localizzato sul territorio di Dolceacqua in località Portu, che pur essendo stato cristianizzato attraverso l'incisione di una croce, la memoria contadina indica con il toponimo Prea du Diavu (roccia del diavolo); una grotta nei pressi del menhir denominata Garbu du Diavu (buco del diavolo) è ricordata dagli anziani come il rifugio di demoni e streghe.
Un secondo menhir demonizzato sul quale è stata eretta una edicola dedicata alla Madonna indicato come Bausu du Diavu (roccia del diavolo) si trova nel comprensorio di San Biagio nei pressi della cappella intitolata alla Santa Vergine; a ridosso del monte Toraggio, nel Bosco degli orsi, a memoria dell'antico culto degli alberi, una pianta secolare viene ricordata come la Nugie du Diavu (noce del diavolo).

Diversamente dai demoni, le origini della figura terrificante del drago si perde nelle nebbie del passato ed è parte integrante di un mito che in oriente viene riconosciuto come figura benefica, portatore di fortuna mentre nella Cristianità riassume l'incarnazione del male, simbolo di morte.
Nei dipinti i draghi venivano rappresentati con il corpo ricoperto di squame, cresta e protuberanze spinose, lunga coda, quattro zampe munite di artigli e una grande bocca sputa fuoco che emanava un alito pestifero munita di grandi denti.
Nei bestiari medioevali venivano descritti come animali immondi abitatori degli alpeggi in prossimità delle fonti dove si nascondevano dentro le grotte da dove uscivano per aggredire e uccidere pastori e animali.
Abitudini di vita dei draghi che calzavano perfettamente con il progetto della chiesa di collocarli negli alpeggi nei pressi delle sorgenti che per ragioni logistiche non potevano essere cristianizzate con l'erezione di un'edicola oppure con una cappella dedicata alla Vergine Maria.
Un modo per inibire con la presenza del drago la frequentazione delle sorgenti dove credenze ancestrali collaudate, confortate dall'effetto placebo venivano attribuiti poteri terapeutici e fecondanti per uomini ed animali all'insegna della divinità delle acque Mai Mona (Grande Madre).
Relitti di toponomastica attestati in Val Nervia che hanno superato i secoli, ci rivelano il processo di dragonizzazione di tre fonti indicate nella forma dialettale Dragorigna (fonte del Drago) sparse tra i pascoli dei monti Toraggio, Testa d'Alpe ed in località Magauda frazione di Ventimiglia.


Cromlech "recinto sacro preistorico" sul  monte Abelio

La parola Cromlech è un prestito del gallese che significa crum-cerchio e lech-pietra altare.
Indica un monumento preistorico costituito da un circolo di pietre di varie dimensioni che può avere un diametro variabile.
E' una testimonianza della civiltà Megalitica che ebbe diffusione in Europa occidentale tra il III° - II° millennio a.C. proveniente dai centri propulsori delle isole Britanniche e dalla Britannia.
L'ipotesi più accreditata da parte degli studiosi di preistoria è che i Cromlech avessero funzione di tempio primordiale, un recinto sacro luogo di raduno delle popolazioni preistoriche dove sacerdoti astronomi praticavano l'osservazione astronomica e riti religiosi legati al culto del sole in occasione dei solstizi e degli equinozi, eventi magici che sancivano la morte e la rinascita della natura.
Il più famoso per dimensioni e per la sua architettura monumentale più complessa è il Cromlech di Stonehenge, santuario eretto su una superficie che sfiora i 100 metri di diametro.
Fino ad oggi in Italia si registrano due soli ritrovamenti di questo tipo di monumento preistorico; il più conosciuto è il Cromlech che si trova al passo del Piccolo San Bernardo a 2188 metri di altitudine con un diametro di 72 metri oggi quasi interamente spoglio dei massi che lo componevano.
Seppure molto contestato da parte degli studiosi resta da segnalare il Cromlech di Briaglia comune della provincia di Cuneo.
La scoperta del Cromlech nei pressi del monte Abelio sul territorio di Dolceacqua, è un importante tassello che va ad aggiungersi al mosaico che ormai da anni si va configurando nel panorama della preistoria dell'estremo Ponente Ligure.
Il Cromlech si trova localizzato in posizione dominante un vasto orizzonte sulla dorsale spartiacque Nervia-Roia a 850 metri di altitudine lungo un leggero pendio che sovrasta un passo che unisce le due valli in uno scenario di grande suggestione che si spegne sul mare; posizionamento che suggerisce un forte legame con l'osservazione dei movimenti del sole che sarà in futuro oggetto di misurazioni.
Il recinto ha forma elissoidale misura 5,60-5,30 metri ed è formato da 22 pietre infisse nel terreno in parte sepolte dai sedimenti che si sono accumulati durante i millenni; si accosta per dimensioni a quanto ha prodotto la deriva del Megalitismo nella sua veste meno monumentale lungo la catena montuosa dei Pirenei e nel dipartimento francese delle Alpi Mrittime.


Sito paleolitico dei Balzi Rossi 

Le grotte dei Balzi Rossi, circa 7 km da Ventimiglia, e meno di 1 km dal Confine di Stato con la Francia, si aprono ai piedi di una suggestiva parete rocciosa di calcare dolomitico del Giurassico superiore alta circa 100 metri, che costituisce la linea di costa tra la frazione Grimaldi di Ventimiglia (Imperia) e la frontiera francese; il nome della località è dovuto all’arrossamento superficiale della parete rocciosa (nel dialetto di Mentone, Baussi Russi - Rocce Rosse).
Il toponimo deve il nome al tipico colore della locale roccia alterata, una falesia alta circa 100 m formata da calcare dolomitico ricco di minerali ferrosi, nella quale si aprono numerose grotte e ricomprende nel suo insieme una spiaggia (nota anche come "spiaggia delle uova"), un museo ed un complesso di grotte in cui sono stati scoperti, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, diversi reperti di epoca paleolitica. 
Tra gli insediamenti preistorici il sito dei Balzi Rossi aveva tutti i requisiti per essere considerato un luogo comodo, confortevole, all'interno di un vasto territorio ricco di risorse alimentari; caratteristiche peculiari che hanno favorito stanziamenti dell’Homo erectus che trovò rifugio, circa duecentomila anni fa, sfruttando le profonde cavità e le fenditure verticali del terreno; la frequentazione mostra una continuità durante un arco temporale che va dal Paleolitico Superiore fino all'Età Storica.
Tra i tanti vantaggi che offrivano le grotte, il fattore climatico era una componente di grande rilievo, sopratutto la notte quando il freddo pungente del periodo glaciale veniva mitigato dalla grande falesia che domina il litorale; infatti, oggi come allora, l'imponente bastione calcareo smorza i venti freddi di tramontana, durante il giorno cattura i raggi del sole e dopo il tramonto continua ad irradiare calore come un immenso radiatore; non a caso nel periodo invernale è il luogo dove si registra la temperatura più mite di tutta la costa Ligure-Provenzale.
Oltre al fattore climatico, di fondamentale importanza era la grande varietà di cibo disponibile in tutto il circondario; dalle grotte vista mare, alle prime luci dell'alba i cacciatori paleolitici potevano scegliere il menù del giorno tra le numerose mandrie di erbivori che pascolavano nella grande pianura che nel periodo glaciale si estendeva per oltre 5 km dalla linea di costa attuale; lungo il litorale potevano integrare l'alimentazione con la cattura di pesci, la raccolta di crostacei, molluschi e conchiglie, raccogliere il sale, il più antico condimento dell'umanità che oggi come allora si materializza nelle cavità e tra le rughe delle scogliere; nella vicina località dei Ciotti raccogliere negli affioramenti di selce la materia prima per la produzione di utensili e armi per la caccia mente nel promontorio della Baia Beniamin raccogliere l'ocra per dipingere i corpi ,imbellettare i morti e affrescare le grotte e nel ruscello di Ponte San Luigi trovare acqua limpida da bere.
Nella sua fatica letteraria - La preistoria in Liguria Sagep Editrice Genova 1977 - Enzo Bernardini, nel capitolo che dedica ai ritrovamenti avvenuti nelle grotte sotto la falesia di calcare giurassico dei Balzi Rossi, ci informa sulle tormentate vicende che ha partire dalla seconda metà dell'ottocento hanno caratterizzato il sistematico saccheggio di quello che era ritenuto dal mondo scientifico internazionale, il più importante sito archeologico della Preistoria Europea, unica cassaforte di culture preistoriche che poteva vantare una frequentazione umana a partire dal Paleolitico Inferiore al Tardo Neolitico.
Persone senza scrupoli, a scopo di lucro, si avvicendavano nelle grotte dei Balzi Rossi compiendo scavi senza alcuna cognizione di metodo riportando alla luce preziosi reperti che andavano ad arricchire collezioni private, musei e università straniere; il totale disinteresse dello Stato Italiano e la ripetuta divulgazione dei risultati delle indagini da parte di paleontologi francesi, giustifica ancora oggi il fatto che in molte pubblicazioni di carattere internazionale il sito dei Balzi Rossi venga citato come le Grotte di Mentone.


Presso le grotte, nel 1898, sir Thomas Hanburyè allestì un piccolo museo preistorico, il Museo Preistorico dei Balzi Rossi che rimase per lunghi anni quale semplice completamento della visita alla Barma Grande - all’interno della quale erano conservate in posto due sepolture paleolitiche e resti di elefante -; acquisito dallo Stato Italiano è stato ristrutturato e riaperto nel 1955; l’attuale allestimento, completato nel 1994 grazie all’ampliamento degli spazi espositivi ottenuto con la costruzione del nuovo edificio museale, si inserisce in un percorso integrato di visita del museo e dell'area archeologica.
Dalla nuova grande sala, in cui è illustrata la storia delle ricerche ai Balzi Rossi, si passa alla visita delle grotte del Caviglione e di Florestano e del Riparo Mochi nonché, sui due piani del vecchio edificio museale completamente ristrutturato, alla presentazione degli scavi più recenti.
Sul retro della nuova costruzione è tuttora visibile la stratigrafia incontrata nel corso dei lavori e scavata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria con la collaborazione di M. Cremaschi (1990-1992).
Il complesso delle cavità, come precedentemente detto, è formato da una quindicina di grotte, di cui le più importanti sono (da ovest ad est):
    grotta del Conte Costantini;
    grotta dei Fanciulli;
    grotta di Florestano, così intitolata in onore del principe monegasco che, nel 1846, finanziò i primi scavi;
    riparo Mochi;
    grotta del Caviglione;
    Barma grande (barma vuol dire "grotta" nel dialetto locale);
    grotta del Principe, la più vasta (35 × 18 × 22 m).
Fra i numerosi reperti in esse rinvenuti vi sono resti di animali di varie epoche, sepolture umane (in tutto una ventina), svariati oggetti (fra cui statuette - le cosiddette Veneri dei Balzi Rossi di cui tratteremo a parte -, ornamenti, utensili in pietra) e anche un'incisione rupestre raffigurante un cavallo.
Almeno sette degli scheletri scoperti sono riferibili alla presenza dell'Uomo di Cro-Magnon, il cui tipo locale è denominato Uomo di Grimaldi e si distinguono in un gruppo recente databile all'Epigravettiano Finale (ne fan parte i bambini messi in luce dal Rivière e lo scheletro femminile rinvenuto negli strati alti della grotta dei Fanciulli), ed uno precedente, Gravettiano/Aurignaziano; l’orizzonte più basso apparterrebbe al Musteriano, e manca di reperti umani. 
Le sepolture sono le seguenti:
     singola sepoltura, scoperta nel 1872 da Émile Rivière nella grotta del Caviglione ("Uomo di Mentone"); trattasi di un individuo di alta statura (circa cm 190) che indossava un copricapo di conchiglie e denti di cervo; il corpo era ricoperto di ocra rossa, sepolto sul fianco sinistro, rivolto verso occidente, con le mani vicino al volto e le gambe ripiegate;
     tripla sepoltura, scoperta nel 1873 dallo stesso Rivière nella grotta Bausu da Ture, di un adolescente e due adulti di sesso maschile con caratteri simili a quelli del precedente rinvenimento;
    doppia sepoltura, scoperta nel 1874 ancora da Émile Rivière nella grotta dei Fanciulli, di due bambini interrati alla profondità di 2,7 metri distesi sul dorso con le gambe flesse (da cui il nome della caverna) con la presenza di varie conchiglie marine in prossimità dell'anca;
    singola sepoltura scoperta nel 1884 da Louis Jullien, collezionista di antichità che iniziò la scavo nella Barma grande, ritrovando uno scheletro di un maschio adulto cosparso di ocra che venne distrutto per il rifiuto del proprietario della grotta, Giuseppe Abbo, di consegnare i resti al museo di Mentone, Jullien recuperò invece una serie di statuette denominate Veneri paleolitiche, caratterizzate dall'evidenziazione degli attributi genitali e della fecondità; 


    tripla sepoltura, costituita da tre scheletri rinvenuti nel 1892 nella Barma grande da Giuseppe Abbo; si tratta di un maschio adulto, di una giovane e un adolescente disposti parallelamente nella stessa fossa da est a ovest e interrati insieme a un ricco corredo funebre comprendente conchiglie marine, lame di selce e canini di cervo; la datazione della sepoltura risale a circa 20000 anni fa; l'adulto ha una statura intorno a 190 centimetri e possiede ossa degli arti superiori molto sviluppate ma fortemente intaccate dall'artrosi, indice di grande forza unita a intense attività; una caratteristica insolita per l'uomo moderno è una diversa strutturazione del margine ascellare della scapola, che evidenzia una grande potenza muscolare;
    due singole sepolture, scoperte nel 1894, sempre da Giuseppe Abbo nella Barma grande, una costituita da uno scheletro maschile adulto caratterizzato da una forte usura dentaria e l'altra formata dai resti di un adulto interrato sopra un antico focolare;
    doppia sepoltura, scoperta nel 1901 dal canonico Louis de Villeneuve nella grotta dei Fanciulli, formata da una donna anziana e un adolescente di tipo apparentemente non cromagnoide, disposti nella stessa fossa in posizione rannicchiata.
È a questi ultimi individui, in particolare, che si deve la definizione di "negroidi di Grimaldi" (poi "uomo di Grimaldi") a causa della morfologia apparentemente analoga al tipo umano negroide moderno; questo almeno è quanto si era pensato sino agli inizi degli anni settanta, quando più attente analisi effettuate dall'antropologo dentario Pierre Legoux dimostrarono che il prognatismo facciale era dovuto nel caso della donna ad un difetto di masticazione e per l'adolescente si trattava di una contraffazione effettuata per fare rientrare la scoperta nella casistica dei cosiddetti "anelli mancanti" della catena evolutiva; in realtà anche questi due individui appartenevano al tipo Cro-Magnon come tutti gli altri. 
Le Veneri dei Balzi Rossi, espressione delle prime forme d' arte religiosa dell'umanità, arrivano a noi da un mondo molto lontano, uscito dalle nebbie della Preistoria fecero enorme scalpore all’atto del loro ritrovamento, alla fine dell'ottocento; trattasi di quindici minuscole statuine in steatite alte poco meno di cinque centimetri raffiguranti personaggi femminili nella loro nudità con la testa priva di lineamenti, gambe e braccia ridotte all'essenziale, ventre gravido, seni e glutei enormi.
Nel museo di Preistoria dei Balzi Rossi sono custodite tre copie; gli originali sono in parte esposte nel Museo di St. Germain an Laye nei pressi di Parigi, di altre si sono perse le tracce fino a quando un articolo comparso sul quotidiano la Stampa di Torino ne segnalava la presenza in un negozio d' antiquariato a Toronto in Canada.
In molti circoli accademici d'Europa si pensò a dei falsi; lo scetticismo dei paleontologi nasceva dal fatto che nulla di simile era mai stato rinvenuto nei siti archeologici, mancava una relazione dettagliata dello scavo e l’antiquario francese , un certo Rivier, che le offriva in vendita non era figura raccomandabile; l'alone di diffidenza che serpeggiava tra le più alte autorità in campo antropologico sull'autenticità delle sculture, precluse ogni tentativo rivolto ad interpretarne il significato; si preferì solo indirizzare l'attenzione all'esame critico artistico dei manufatti.
Dopo ampi dibattiti, prevalse l'idea che le statuine erano il risultato dell'interpretazione da parte dell'uomo preistorico dei canoni della bellezza femminile in un'ottica rivolta all'esaltazione smoderata delle parti del corpo legate alla sessualità.
Trascorsero gli anni e le statuine dei Balzi Rossi venero pressoché dimenticate; ritornarono all'interesse degli studiosi di preistoria quando a partire degli anni trenta nei siti preistorici di tutta Europa si intensificarono campagne di scavo che non tardarono a portare risultati eclatanti con la scoperta di innumerevoli manufatti che rappresentavano figure femminili in ossidiana, avorio, giada e steatite rappresentate nello stesso stile pressoché uniforme a quelle rinvenute nelle grotte dei Balzi Rossi.

Gli scavi, questa volta condotti con metodi scientifici datavano le sculture alla prima fase del Paleolitico Superiore periodo che si colloca tra i 30.000 e gli 11.000 anni fa.
A seguito dei numerosi ritrovamenti di statuine i paleontologi coniarono l'apellativo "Veneri del Paleolitico'' prestito derivato da Venere, dea romana della fertilità.; le più celebri oltre quelle dei Balzi Rossi, sono la Venere di Laspugue trovata nell'Alta Garonna in Francia, Willendorf in Austria, Dolni Vestonice in Cecoslovacchia e Kostienki in Russia.
Tale appellativo aveva aperto una breccia sulla reale interpretazione simbolica dei manufatti;  Veneri non sessuali ma Dee Madri, prime forme di arte religiosa dell'umanità in associazione simbolica al culto della Terra Madre, credo religioso che ebbe diffusione sul continente Europeo su un'area vastissima, dai Pirenei al corso del fiume Don in Russia.
Il culto della Terra Madre simboleggiato dalle Veneri, è un sentimento religioso che affonda le sue radici nella profonda comunione dell'uomo con la natura; vivendo in una economia di caccia e raccolta i nostri lontani progenitori praticavano il nomadismo; immersi nella natura ne conoscevano tutti i segreti e avevano concepito che la terra era la Grande Madre di tutte le cose, il primo anello del ciclo della vita, l'eterna partoriente, il bene più prezioso, la loro certezza di vita che simboleggiavano attraverso l'unico essere vivente, la donna, che come la terra ha i poteri di dare vita.
Mai accostamento simbolico tra la Terra Madre e la donna fu più giusto; nel modellare le Veneri gravide con i seni enormi i nostri lontani progenitori volevano esprimere il loro riconoscimento per l'abbondanza e la continuità dei doni che la grande nutrice, la terra, non nega mai.
Alcune scuole di pensiero hanno ipotizzato che in un certo periodo della preistoria sia esistita una società matriarcale che pose fine ai suoi giorni nel momento in cui l'uomo realizzò di esser parte attiva nel concepimento attraverso l'inseminazione, conseguenza che portò inevitabilmente a svilire il ruolo importante della donna nel nuovo assetto sociale.

Halloween-Samhain: un viaggio fra Triora, Valle Argentina e Imperia

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