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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Il tarlo scemo

Il tarlo scemo

A cura di Nereo Trabacchi

Anche un po’ di Piacenza nella monumentale opera postuma di Oriana Fallaci

Era qualcosa che se qualcuno aveva già detto, chiedo scusa, ma io non lo avevo sentito e non potevo permettere passasse inosservato. Appena ho terminato di leggere l’ultima riga della monumentale opera “Un cappello pieno di Ciliege” di Oriana Fallaci, ho subito pensato: “Obbligare la lettura di questo libro nelle scuole italiane sarebbe cosa buona e giusta”

Era qualcosa che se qualcuno aveva già detto, chiedo scusa, ma io non lo avevo sentito e non potevo permettere passasse inosservato. Appena ho terminato di leggere l’ultima riga della monumentale opera “Un cappello pieno di Ciliege” di Oriana Fallaci, ho subito pensato: “Obbligare la lettura di questo libro nelle scuole italiane sarebbe cosa buona e giusta.” Ma dato che come tanto altro di buono e giusto, questo non accade, quando e come posso vado io in qualche classe dove cerco, tra errori e sospiri, di lasciare qualcosa.

Il libro racconta la saga della famiglia dell’autrice dalla metà del 1700, per chiudersi nel 1889. Un lavoro di ricerca durato una vita, raccogliendo informazioni in giro per il mondo, visitando cimiteri, biblioteche e recandosi in ogni angolo del pianeta fosse necessario andare per scovare quanto cercava. Ma la cosa che emoziona di più, a parer mio, è il metodo di narrazione scelto. Spesso la Fallaci si cuce letteralmente addosso le identità dei suoi avi, vivendone le emozioni, le gioie e le sofferenze sia fisiche, sia psicologiche. Poi prende per mano il lettore e dandogli del tu lo guida verso un viaggio che forse la narrativa italiana non intraprendeva dai Promessi Sposi.

Pensandoci bene però, il termine “prendere per mano”, potrebbe risultare riduttivo. Io personalmente ho viaggiato per cinque giorni sprofondato in una elegante poltrona su cui l’autrice (o autore dato che sulla sua tomba ha voluto fosse scalpellato “scrittore”), in persona mi ha invitato ad accomodarmi sin dalla prima parola. Passaggi che invitano a riflettere come: la speranza di volare in paradiso produce stoicismo. La fede unita alla coglioneria è capace di eroismo.

La vera arte del saper scrivere, propria della Fallaci, le permette cronache storiche di una bellezza imbarazzante come: uno scrittore milanese che a Firenze c’era venuto per risciacquare i panni in Arno, i panni di un romanzo che non si stancava mai di elaborare e al quale aveva dato il titolo I Promessi Sposi. In quel circolo bazzicava pure un letterato gobbo di Recanati che rompeva sempre le scatole con le sue malinconie, la sua pessima salute, la sua scarsa fortuna con le donne: Giacomo Leopardi.

E all’interno di queste 900 meravigliose, leggerissime pagine c’è pure un po’ di Piacenza. Infatti la Fallaci, mentre si sofferma sui metodi d’insegnamento nelle scuole dell’800, si rifà ad un’opera del nostro Pietro Giordani datata 1819 e intitolata La causa dei ragazzi di Piacenza (che disperatamente cerco da anni), in cui parlando delle scuole della nostra città dice: Nelle nostre scuole la carne umana vien trattata peggio delle carne dei porci, perché i porci li ammazzano in un colpo, è d’uopo, i nostri scolari invece vengono seviziati di continuo e per ludibrio.

Continuando a sfogliare poi si viaggia nella Livorno dei pirati e nel far-west dei cowboys e degli indiani. Si vive con la pelle d’oca sulle braccia l’invasione di Napoleone e ci si immedesima nella quotidianità della vita di campagna del ‘700 dove le donne non indossavano le mutande femminili non ancora inventate, ma i “tubi della decenza.”

Per concludere cari lettori de Il Piacenza punto it, concedetemi un consiglio mascherato da luogo comune che mi riesce sempre tanto bene: fatevi un favore e un bel regalo, comprate questo libro, leggetelo e fatelo leggere ai vostri figli. Sarà uno dei vostri viaggi più belli.

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Anche un po’ di Piacenza nella monumentale opera postuma di Oriana Fallaci

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