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Martedì, 23 Aprile 2024
Libertà di pensiero

Libertà di pensiero

A cura di Carmelo Sciascia

C’è sempre un buon motivo per scrivere di mafia: “La notte della civetta” di Piero Melati

“Nec sine te, nec tecum vivere possum”. Né con te né senza di te posso vivere, Ovidio lo scrisse per indicare il contrasto sentimentale degli amanti. Piero Melati lo scrive per indicare non solo “la difficoltà di essere siciliano per un siciliano. Ma soprattutto quello che l’Italia sente verso la Sicilia e viceversa”. La contraddizione apparente di questa introduzione messa lì, come per caso, diventa la condizione “sine qua non” per  chiedere e potersi chiedere: “Chi lo sa in che momento si era fottuta la Sicilia”.  “La notte della civetta” (libro del 2020, Zolfo Editore – Milano) è un libro storico ma non solo, è un libro che parla di mafia ma non solo, è un libro che parla della Sicilia ma non solo. La storia inizia con una telefonata del 6 agosto 1985 partita dalla redazione del giornale L’Ora di Palermo ad un suo giornalista, il nostro scrittore.  Questo libro è il quinto, di una serie (si spera lunga) diretta da Lillo Garlisi, iniziata nel 2019 con “Il Padrino dell’Antimafia” di Attilio Bolzoni, libro che ci parlava di una mafia a noi contemporanea, camuffata da Antimafia, quella di Antonello Montante, già Presidente di Confindustria Sicilia.

“La notte della civetta” ci racconta un’altra storia, la storia di chi ha vissuto sulla propria pelle tre guerre. Così l’autore: “Nella prima è morta la mia generazione. Nella seconda sono morti gli eroi. E nella terza siamo morti dentro tutti noi che potevamo raccontare”. E di fatti ne racconta tanti il nostro Melati, ma proprio la presenza di tante incidenze e coincidenze  può far perdere di vista la realtà,  succede così che ”quando si perdono di vista i fatti, tutto può accadere”come ci ricorda  la frase  conclusiva di questo libro, ripresa da “Nero su nero” di Leonardo Sciascia. “La notte della civetta”, come suggerisce il sottotitolo, è un insieme di storie eretiche di mafia, di Sicilia, d’Italia che vede la luce sessant’anni dopo il “Giorno della civetta”, romanzo dello scrittore racalmutese simbolo  degli anni sessanta (il 6 che ritorna avrà a che fare con l’Apolcalisse?).

Il 6 agosto 1985 è il giorno in cui viene assassinato il vice questore Ninni Cassarà. Un flashback  l’incipit del libro. Siamo nell’estate del 1967, a Partinico, il regista Damiano Damiani gira il film “Il giorno della civetta” tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. L’epilogo del film ricalca fedelmente il  romanzo: il mafioso Don Maurizio Arena viene scarcerato per intercessione politica ed acclamato da tutto il paese. Quell’anno a Partinico, un ragazzo si era avvicinato al regista suggerendogli di cambiare il finale, così com’era a lui, come a tanti altri, gli era sembrata un’apologia alla mafia. Il ragazzino era il futuro cacciatore di mafiosi Ninni Cassarà che verrà ucciso a trent’otto anni, da uno squadrone della morte, con proiettili traccianti sparati da un fucile Kalashnikov AK 47. Era il mese di Giugno del 1985, a Luglio cade il commissario Beppe Montana, ad agosto il poliziotto Roberto Antiochia. Di questi delitti si occupa l’opera di Melati, come di tanti altri cadaveri eccellenti che erano avvenuti anche prima dell’assassinio di Cassarà (nel ’78 Peppino Impastato,  nel ’79 Boris Giuliano e Cesare Terranova, nell’80 Piersanti Mattarella, nell’82 Pio La Torre e Dalla Chiesa, nell’83 Rocco Chinnici) e di altri che ne seguiranno ( nel ’92 Falcone e Borsellino). “La mafia uccide solo d’estate” è il titolo di un bel film di Pif del 2003, e non so perché, ma ho potuto verificare che prevalentemente gli assassinii di mafia avvengono con la bella stagione, da maggio a settembre, un po’ come le esecuzioni che avvenivano (forse avvengono ancora) sempre  all’alba, mai di sera.

Interessante l’analisi del rapporto mafia-droga,  quando negli anni settanta/ottanta i clan dei Corleonesi  e dei Palermitani si erano alleati proprio per spartirsi i proventi del traffico della droga, la mafia trasformò negli anni 80  “Palermo in una città di zombi. Morti viventi. Cadaveri ambulanti”. Tanti sono stati i ragazzi uccisi dalla droga, dovrebbero essere considerate vittime di mafia e come tali dovrebbero essere ricordati dalla memoria collettiva, di loro era rimasta traccia solo in una targa in Piazza Bologni, la piazza di Carlo V, targa oggi scomparsa. È stato un periodo in cui la mafia spadroneggiava a Palazzo delle Aquile. Lo testimonia il famoso Sacco di Palermo: migliaia di licenze edilizie su terreni di proprietà di amici degli amici, uno scempio senza precedenti che ha distrutto un patrimonio artistico ed architettonico di incommensurabile valore come le preziose ville liberty dei Basile.

A seguire ci imbattiamo nell’uccisione di Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore degli istituti finanziari di Sindona  e sul suo finto rapimento. Sarà a proposito delle supposizioni (incidenze e coincidenze) sull’ “affaire” del finanziere siculo-americano che si consuma l’incomprensione tra Sciascia e Falcone.  È quest’incomprensione frutto di una terra “che fa i suoi figli migliori e poi li mette contro”,  un’incomprensione causata, “ca va sans dire” dal carattere sospettoso e diffidente del vero siciliano.

Una delle teorie più originali di questo libro è l’aspetto ideologico: la mafia come regime totalitario. A proposito vengono riportate le parole della filosofa tedesca Hannah Aredent: “Il terrore è la vera essenza del regime totalitario”. L’analisi della filosofa riguardava il nazismo, quando né la polizia né i tribunali procedettero seriamente contro i delitti politici di destra,  facendo così percepire alla popolazione che il potere dei nazisti era maggiore di quello delle autorità”. Questo era quello che era avvenuto nell’Isola, dagli anni settanta, dove si era instaurato un regime totalitario mafioso che aveva occupato lo Stato e ad esso si era sostituito.

Si fanno in questo libro tante congetture, si descrivono fatti, si avanzano nuove ipotesi sulla pax mafiosa, sul regime totalitario. Si parla delle stragi per la conquista del potere in seno alle cosche,  del maxiprocesso di Palermo iniziato nel 1986 e terminato con sentenza della Cassazione nel 1992. Di morti ammazzati di primo, di secondo e di terzo grado. Di Falcone e Borsellino. E di eroi. A proposito di eroi è interessante ascoltare quello che ha da dirci Gorgia da Lentini (quindi siciliano pure lui), filosofo del  IV secolo a.C. quando Atene gli chiese di celebrare gli eroi della guerra del Peloponneso.

Non ci sono eroi, fu la sua tesi,  i caduti della guerra del Peloponneso sono da onorare perché accettarono la situazione in cui si trovavano e seppero reagire secondo le circostanze. Ed io che, ignaro di Gorgia, a futura memoria, avevo scritto: “Eroe non nasce nessuno, diceva mio zio Vincenzo, carabiniere, è la situazione, il momento che ti costringe ad esserlo, a diventare eroe” (Note 2013 –Breve viaggio nella memoria). Ancora una volta, coincidenze ed incidenze: da siciliani non poteva essere diversamente.

C’è sempre un buon motivo per scrivere di mafia: “La notte della civetta” di Piero Melati

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