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Piacenza Nostra

Piacenza Nostra

A cura di Cesare Zilocchi

La rüdeina de La Corva

La città distava sì e no quattro chilometri ma Pietro non c’era mai stato. Conosceva solo due stradelli: quello dritto che dalla corte de “La Corva”, dove abitava, immetteva a oriente sulla strada grande e quello che seguendo il canale a biss e boga, tra due file di gelsi   in   direzione sud, sbucava giusto nel villaggio della scuola.  Di scarpe ne aveva un paio, lunghe tre numeri in più, tamponate in punta da uno straccetto di lana. Per durare duravano, anche perché Pietro le indossava di mattino da ottobre a maggio (quanto durava l’anno scolastico) e di pomeriggio solo quando il gelo mordeva la terra.  Per il resto si svegliava scalzo e tale restava. Non andava neppure alla Messa della domenica perché la chiesa era lontana, oltre la strada grande e altre vie sconosciute. Né l’accompagnava il padre che ogni notte – tutte le notti -  governava due interminabili file di vacche, così la mattina dormiva fino all’ora della prima mungitura.  Non essendo mai stato in città, Pietro non aveva mai visto il negozio di giocattoli “Campominosi” che stava in via XX Settembre, angolo via Carducci, dove noi piccoli piacentini sostavamo incantati.  Invero, Pietro non aveva mai visto un giocattolo in senso proprio, vale a dire costruito in una fabbrica di giocattoli.  Perciò se li faceva da sé, procurandosi i pezzi componenti nella rüdeina del podere. Nella discarica, si direbbe oggi.   Tutti i nuclei abitati della campagna ne avevano una, dato che, al tempo, la Nettezza Urbana – come dice il nome – era solo urbana e non rurale; un piccolo spazio dove era lecito buttare i pochi rifiuti solidi prodotti dalla piccola comunità di bergamini e braccianti.  Lì Pietro si procurava i pezzi componenti delle sue creazioni: un tubo, un segmento di cantinella, un ritaglio di iuta, una matassina di fil di ferro arrugginita, qualche spago o laccio da scarpa, sugheri da fiasco, chiodi storti e simili.  Quel che gli serviva per trarne sagome di trattori, erpici, carri di varia foggia.  Unica cosa di provenienza urbana che gli procurai mediante mia madre fu un po’ di colla da legno.  Una Pasqua gli portai un vecchio “meccano”, confezione di semplici pezzi sagomati per creare costruzioni meccaniche. Non l’apprezzò: il suo magazzino era e restava la rüdeina, i suoi modelli le macchine agricole.   Pur nella innata modestia, delle sue creazioni andava fiero. Ogni volta che arrivavo per le vacanze, fosse Natale, Pasqua o l’inizio dell’estate, per prima cosa mi mostrava i modelli realizzati in mia assenza. Un giorno stavamo giocando quando sull’ aia si materializzò l’elegante figura del fittabile, impeccabile in abito e panama bianchi, con la pipa di candida spuma ritta tra i denti.  Pietro si bloccò ammirato, poi disse: patròn, at ghé bein una bella pipa … l’ät cattä ind la rüdeina? (padrone, hai  proprio una bella pipa … l’hai trovata nella rüdeina?).   Il fittabile restò allibito, poi si sciolse in un sorriso e riprese il suo signorile incedere.  Forse lui la prese per una insolita battuta di spirito. Io no, capii subito che quella di Pietro non era una battuta scherzosa. No davvero, era una domanda molto seria, destinata a non essere capita e a rimanere senza risposta. 

La rüdeina de La Corva

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