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Piacenza Nostra

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A cura di Cesare Zilocchi

Per i bambini era “la Ida del baracchino”

Ilda Barbieri, sorella di Bot, nei ricordi di un vecchio scolaro. Le fascinose cianfrusaglie da bocca e da gioco davanti alla scuola Alberoni

Passano gli anni con quella fretta che i giovani non sanno percepire. Ormai sono davvero tanti, eppure trovandomi a passare fra il giardino e la scuola Alberoni, il pensiero si sintonizza ancora su di lei, la Ida del baracchino. Che il suo vero nome fosse Ilda l'avrei scoperto molto più tardi, ma non cambia nulla perché resta e resterà sempre - per una generazione di adolescenti degli anni '50 – la Ida del baracchino.

E' incredibile come dall'interno di quell'edificio scolastico, fra l'austero e il tetro, non fuoriescono che immagini sbiadite, volti dimenticati, situazioni indefinite. Fanno eccezione il signorile viso, spruzzato di lentiggini, della maestra - signora Cilindri – e i boccoloni biondi di Gianni Pettenati sulla impeccabile marinara blu. Ma è dall'altro lato della strada che i ricordi producono immagini ancor più care e chiare.

Vedo il baracchino, istituzione benefica della torrida estate nostrana, che andava ben oltre i 20 giorni che si passavano al mare, in colonia con la Poa di don Dieci.

Quando salivano le prime nebbie e le foglie viravano al giallo, quel piccolo angolo di paradiso diventava tutto nostro, ragazzetti con la cartella a tracolla ed in tasca la mela. Incominciava il lungo rapporto esclusivo con la Ida.

Già al primo giorno della riapertura dell’anno scolastico lei era là, in piedi, dietro un tavolo colmo di fascinose cianfrusaglie da bocca e da gioco. Con qualche moneta da 10 lire le quattro ore fra i banchi sarebbero state più leggere e sopportabili. Noi portavamo pantaloni alla zuava, polacchini ai piedi e certi berretti all'inglese, la Ida una mantellina traforata sulle spalle e i calzettoni di lana grossa. Stava ben ritta con cipiglio un po' severo, pronta a riprendere chi ficcava le dita nelle giuggiole o il solito furbo che, approfittando della ressa, pensava di fargliela. Credo che nessuno ci sia riuscito, di certo nessuno se ne vantò mai. Era sveglia la Ida e imparava presto a distinguere i biricchini.

Aveva nel suo piccolo, un finissimo senso del mercato. Immetteva le novità al momento giusto e le ritraeva un po' prima che subentrasse la stanca. Fungeva da grande regista dei nostri giochi. Il suo tavolo diventava un sciorinìo di figurine colorate e da allora per una settimana non si vedeva svolazzare altro, in tutte le combinazioni che la fantasia adolescente sa escogitare.  I giochi son belli se son corti, dice un adagio che la Ida doveva conoscere benissimo. E infatti un'altra mattina - d'improvviso – le figurine non c'erano più. Cerbottane, solo cerbottane di vario calibro e lunghezza. Allora era tutto un lavorio a tagliuzzar vecchi quaderni in strisce, da arrotare in pirioli e accendere quindi furiose battaglie, come i ragazzi di via Paal. 

Poi, d'incanto, un osservatore avrebbe visto scomparire le cerbottane e i ragazzi cavar di tasca palline di vetro colorato. Ogni angolo sterrato andava bene per ingaggiare sfide a cicco e spanna, busella, papa, circolino. Quella delle biglie era una stagione che la Ida faceva durare più a lungo, fin sul finire dell'anno scolastico, quando il caldo cominciava a dir la sua. Allora – e solo allora – sul solito tavolo apparivano le piccole pistole ad acqua col calcio di gomma come la peretta del clistere. Due pressioni fra palmo e dita bastavano a svuotarle e bisognava correre a ricaricare sotto il filo della fontanella che ancora c'è – un po' malinconica – all'angolo del giardino.

Ch'io sappia, fra la Ida e l'autorità scolastica non sorsero mai attriti. Le bombette di carnevale – ingenue antenate degli attuali petardi - non le vendeva alle otto del mattino ma solo alla mezza, quando i ragazzi sciamavano all'uscita, vigilia del martedì grasso. Tuttavia in pieno inverno le era impossibile proporre giochi da fare all'aperto. C'erano le palle di neve e il ghiaccio per la sguiarola. Tanto bastava. Doveva per forza vendere aggeggi “da classe”. Ricordo certe piccole fionde adatte a lanciare rettangoli di carta, che se ben inumiditi e pressati con la bocca potevano colorare di un bel rosso vivo le orecchie del disgraziato nel banco più avanti. Oppure delle corte cannucce cilindriche dotate di proiettili tondi, fatti con cascami di lana e canapa. Debitamente imbevuti di saliva lasciavano il segno sul collo del vicino e rimbalzavano vistosamente sulle nuche rasate. Come clienti eravamo di una fedeltà quasi assoluta. Qualche piccolo tradimento lo consumavamo presso il fruttivendolo quando esibiva certi pattonini da sballo, oppure quelle strane minuscole rosse meline da siepe che chiamavamo bussalein.  Più raramente sacrificavamo qualche lira alle carrube e alle caldarroste.

Le scuole elementari durano troppo poco e finirono anche per me. Andai a salutare la Ida il giorno che seppi l'esito dell'esame d'ammissione alla scuola media. Avvertivo il senso della svolta, capivo che da quel giorno l'austera popolana amica sarebbe passata nel mondo dei ricordi. Mi abbracciò con insospettata intensità, addirittura lasciò scorrere una lacrimuccia, mi fece qualche contenuto complimento e mi regalò un sacchetto di liquirizia.

Non so come avvenne, ma vent'anni dopo accompagnai mia madre a farle visita. Entrai in una casa di gusto diverso, piena di cose strane e originalissime. Lo scendiletto, o sottopedano come dicevano una volta, era un coccodrillo di vimini e altro materiale, intrecciato con sopraffina tecnica. Ai muri quadri bizzarri, dal soffitto pendevano sculture ardite e incomprensibili. Scoprii così che l'umile Ida del baracchino era sorella del grande ed estroso Bot (Osvaldo Barbieri il Terribile). 

Un quadrato di metallo ossidato su cui stava saldato un nastro di bronzo ritorto, attirò la mia attenzione. Cercavo di capirne il senso e finalmente ci riuscii. Perbacco era una ballerina! Bastava saper guardare con la giusta predisposizione: come l'oculista o l'innamorato davanti agli stessi occhi di ragazza. 

Quel giorno, dai discorsi delle due donne intuii pure il ruolo e l'impegno della Ida nella guerra partigiana. Ne parlava con passione ma senza enfasi retorica o voglia di protagonismo. Insomma la donnina del baracchino, davanti ai miei occhi da adulto si dimostrava ben più grande di quanto l'avessero apprezzata gli occhi dello scolaro.  Da anni ormai aveva smesso di aspettare l'arrivo dei bambini davanti alle scuole Alberoni. Viveva sola con la sua pensione, dall'altra parte del solito giardino che assomigliava sempre meno a quello di una volta. Diceva orgogliosamente di non aver bisogno di nulla, dal momento che la salute non le faceva difetto. Le mancavano però i so ragass, ai quali restava sempre riconoscente perché le avevano permesso di vivere libera e indipendente. 

Alla porta mi diede un bacio e allungò un pacchetto avvolto grossolanamente in un foglio di giornale. Quella ballerina che avevo stentato a vedere, ora la sentivo danzare sotto le dita. Per quanto strofinassi il fazzoletto sugli occhi, i grandi abeti del giardino avevano contorni confusi.  Là in fondo intravedevo la mole della scuola ma il baracchino sapevo bene che non c'era più. Tagliai verso destra e uscii  presso il monumento di Camillo Tassi. Sospirando.

Addio Ida. E grazie di tutto.

dal quotidiano "Libertà" del 23.9.1991

Per i bambini era “la Ida del baracchino”

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