Un mistero piacentino nell’assassinio di re Umberto I
Gaetano Bresci, l'anarchico pratese che uccise il re nel 1900, soggiornò nelle ore precedenti all'omicidio nella nostra città. Ma il suo passaggio rimane ancora oggi un mistero mai svelato...
Maggio 1898. Al governo c’era una congrega di “reazionari in maschera di liberali”, secondo la definizione di Benedetto Croce. A causa di tensioni internazionali crebbe il prezzo dei grani e quindi del pane. Un po’ ovunque il popolino protestò. A Milano montò una vera sommossa. Il capo del governo, Antonio di Rudinì proclamò lo stato d’assedio e il gen. Fiorenzo Bava Beccaris (un soldataccio che svolgeva in quel tempo l’incarico di regio commissario straordinario) prese la gente a cannonate. Fece 80 morti e 500 feriti ufficiali, molti di più secondo fonti ufficiose. Anche a Piacenza ci scappò un morto, diversi feriti e numerosi arresti. Si levarono furiose polemiche politiche da più parti. Per tacitare tutti re Umberto I ebbe una pensata infelice: in segno di riconoscimento per quella brillante azione antipopolare, conferì a Bava Beccaris la Gran Croce dell'Ordine Militare di Savoia. Non bastando, elevò in tutta fretta il soldataccio a senatore del regno.
Il 25 luglio 1900 a Monza, un anarchico venuto da lontano sparò tre revolverate al re d’Italia uccidendolo. Si chiamava Gaetano Bresci, pratese, operaio tessile, emigrato a Paterson (New Jersey, USA). Subito catturato, si dichiarò giustiziere delle “pallide vittime” milanesi. Istruttoria e processo impegnarono un mese in tutto, ma restarono molti buchi irrisolti, alcuni dei quali riguardanti la sosta del regicida proprio a Piacenza. All’inizio la stampa concorde gridò al complotto. Ben presto però il governo e la monarchia cambiarono indirizzo e orientarono i giornali verso l’ipotesi del gesto - tanto orribile quanto isolato - di un anarchico individualista. Semmai da biasimare erano i socialisti che contribuivano ad avvelenare il clima sociale in cui poi crescevano come erbacce i folli attentatori. E lo stesso Bresci, chiedendo quale proprio avvocato difensore il leader socialista Filippo Turati (che rifiutò), portò maliziosa acqua alla tesi del potere istituzionale.
Non tutti però presero per buona la tesi dell’azione individuale. Alcuni restarono convinti del complotto. Ordito da chi? Da Maria Sofia di Wittelsbach, moglie di Francesco II Borbone, regina di Napoli, eroina di Gaeta; spodestata violentemente 40 anni prima dagli imperdonabili cugini Savoia. Mallevatrice della guerriglia brigantesca negli anni seguenti allo scippo del regno, Sofia non aveva mancato mai di usare la sua influenza nelle capitali europee in danno della monarchia sabauda.
Arrivato il vento dell’anarchismo, Maria Sofia si mise a ricevere i capi rivoluzionari nella sua piccola corte di Villa Hamilton a Parigi. Intellettuali e figli della buona borghesia (se non dell’aristocrazia) i giovani anarchici non sfiguravano nel salotto della ex regina – osserva Arrigo Petacco nel suo “La Regina del Sud” (Mondadori 1992) – come del resto i futuri sessantottini non sfigureranno nei salotti più “in” della Milano bene. Alla decisione anarchica di vendicare le pallide vittime milanesi dei cannoni di Bava Beccaris, l’ex regina unì mai sopite ragioni di vendetta. Giovanni Giolitti – che nel movimento anarchico aveva infiltrato numerosi agenti - ne era convinto. Tanto che il prefetto di Torino non esiterà a dichiarare: “Giolitti mi ha detto che il governo ha le prove di come fu ordito il complotto di Monza. La regina Maria Sofia ne fu l’ispiratrice e la mandante e procurò i mezzi finanziari per attuarlo”.
Poco più di una formalità, il frettoloso processo non chiarì alcunché. Bresci tenne un atteggiamento altero, quasi irridente. Alla fine, secondo la verità giudiziaria, il viaggio transoceanico, il lento, accorto avvicinamento a Monza, andavano ridotti al normale comportamento di un anarchico che – per definizione – da solo concepisce ed esegue orrendi nefandezze, chiamate “azioni esemplari”.
Tuttavia un foglio piacentino – il bisettimanale “La Voce Cattolica” – andò fuori dalle righe. Riferì che nelle tasche del Bresci si era trovata una cartolina firmata “Sofia”, proveniente da Buenos Aires. Aggiunse che per le autorità della Plata, questa Sofia andava identificata con la misteriosa direttrice del giornale anarchico Protesta Humana, la quale però era ormai fuggita in America...
Dopo il regicidio, Villa Hamilton, la piccola reggia di Maria Sofia, continuò ad essere frequentata da esponenti dell’anarchismo, compreso il famoso Errico Malatesta. Vi si tramò forse l’evasione di Gaetano Bresci dal reclusorio di Santo Stefano dove l’anarchico si comportava effettivamente come un detenuto provvisorio, non certo come un ergastolano. Sempre altero, irridente e molto dedito alla cura della sua persona, inaspettatamente venne trovato appeso a un rudimentale cappio il 22 maggio 1901. E sull’intera vicenda, dubbi e misteri compresi, calò il sipario.
L’anarchico – partito dagli USA il 17 maggio – sabato 21 luglio si trovava di sicuro a Bologna in una stanza d’albergo con la giovane ombrellaia ventitreenne Teresa Brugnoli, detta “la Rizzona”. Che cosa fosse abile a “rizzare” ciascuno lo immagini. In quella stanza dell’albergo bolognese, Bresci ricevette un telegramma. Lesse rapidamente e lo sminuzzò in piccolissimi pezzi. “Debbo partire per Milano”, disse all’amante. La mise sul treno per Firenze e – a sua volta – prese quello delle 18,35 per il capoluogo lombardo. Così almeno dichiarò in un primo tempo agli inquirenti. Ma “la Rizzona”, rintracciata e interrogata dalla polizia, parlò di una cartolina ricevuta da Piacenza…..
Per quale motivo, stante la gran fretta che il telegramma gli aveva messo, l’anarchico ritenne di fermarsi a Piacenza ? Chi incontrò? Dove alloggiò? Quanto tempo si fermò?
Nessuna di queste domande ebbe mai una risposta convincente né a Piacenza né altrove. “Il Progresso” (organo della sinistra piacentina) si era lanciato in una strana campagna tesa a dimostrare che l’anarchico attentatore non poteva essersi mai fermato a Piacenza. Ma il 16 agosto arrivò una conferma che non ammetteva repliche. Secondo gli inquirenti l’uomo aveva effettivamente fatto sosta nella nostra città, alla trattoria Stella d’Oro presso la stazione ferroviaria. La polizia aveva tardato a rilevarlo perché il nome del Bresci non era iscritto – come d’obbligo - sull’apposito registro. L’albergatore Arisi se n’era dimenticato. Poiché dalla testimonianza di una affittacamere milanese, Bresci risultò essere a Milano nella tarda mattinata del 24 luglio, logico dedurre ch’egli avesse alloggiato a Piacenza dalla sera del 21 alla prima mattina del 24 luglio.
Arisi invece testimoniò che l’uomo era arrivato nel suo locale domenica 22, col treno delle 11 da Bologna per ripartire il martedì 24 alle ore 13,50 diretto a Milano. Dove aveva trascorso la notte di sabato 21? E come poteva trovarsi a Milano nella tarda mattinata del 24 se quel giorno di martedì 24 lasciò Piacenza col treno delle 13,50 ? Specificò l’Arisi che in quella stessa mattinata di martedì 24 luglio il suo ospite aveva spedito un telegramma aspettando poi la risposta – recapitatagli dal commesso del telegrafo alle 12,30 - non nel suo locale però, ma sulla porta del caffè Arioli, poco distante. Anche in questo caso il Bresci fu visto lacerare il dispaccio in minutissimi pezzi e riporli in una tasca della giacca. Le testimonianze del locandiere piacentino non collimavano, dunque, con quelle dell’affittacamere milanese. I figli dell’Arisi, Cesare e Annetta, furono interrogati dagli inquirenti a Milano solo il 21 agosto. E per quanto la loro deposizione continuasse a non coincidere con gli spostamenti del Bresci come ricostruiti sulle dichiarazioni dello stesso Bresci, della “Rizzona” e dell’affittacamere milanese, gli inquirenti diedero a queste circostanze scarso peso. Nella sentenza di rinvio a giudizio fu trascritto vagamente che l’imputato si era soffermato a Piacenza “un giorno o poco più”.
La vigilia di Ferragosto, “Libertà” pubblicò una intervista a tale Luigi Cerati, commesso della calzoleria Boschi di via XX Settembre. Costui disse di riconoscere il regicida nel cliente che il 25 luglio aveva acquistato un paio di scarpe color giallo-bulgaro da 11 lire pur avendone ai piedi un paio di molto fini. Ma il 25 luglio non doveva essere a Milano? Il mistero continua. Un vecchio conoscente del Bresci dichiarò a “Il Resto del Carlino” di averlo incontrato e salutato quel giorno 25 luglio alla bouvette della stazione di Bologna. “Il Progresso”, sempre inspiegabilmente impegnato a negare comunque ogni connessione piacentina con l’anarchico, ipotizzò che il Bresci non fosse partito il 21 da Bologna, ma avesse manifestato tale intenzione al solo scopo di scaricare la Rizzona e rispedirla al paesello. Da Bologna sarebbe poi effettivamente ripartito per Milano il 25 luglio, incontrando così il conoscente alla bouvette della stazione. E senza fare alcuna sosta a Piacenza. Non dà spiegazioni il giornale della sinistra piacentina circa la cartolina spedita da Piacenza alla Rizzona e – ancor di più – circa la testimonianza dell’affittacamere milanese che lo attestava già Milano nella tarda mattinata del 24 luglio. “Il Progresso” si premurava soprattutto di difendere i socialisti di Turati da una sorta di chiamata in correità favorita dallo stesso Bresci. “Da chi ricevono danaro gli anarchici”, si chiedeva il giornale della sinistra piacentina? Constatato che vivono bene e viaggiano meglio senza coonestare i loro guadagni, deduceva il foglio piacentino che ”li ricevono dai ricconi, i quali glieli danno per tenerseli buoni e procurarsi la loro protezione”. Insomma l’assassino del re era un affaire tra potenti!
Nonostante dubbi e discordanze, le indagini furono sbrigate in tre settimane. Il processo che si aprì a un mese esatto dal regicidio si risolse in una formalità. Infatti non chiarì alcuna delle contraddizioni rilevate fra il 21 e il 25 luglio da Bologna a Milano. Bresci intervenne pochissimo ma per ben due volte parlò con il chiaro intento di minimizzare il soggiorno a Piacenza.
Il suo viaggio transoceanico, l’accorto avvicinamento a Monza via Parigi, Genova, Bologna, Piacenza, nonché i telegrammi ricevuti e inviati, secondo la giustizia si ridussero all’azione esemplare di un anarchico individualista. Come abbiamo ricordato, il bisettimanale “La Voce Cattolica” fu l’unico a riferire che in tasca al Bresci era stata trovata una cartolina firmata “Sofia” lasciando sottendere che dietro l’attentato mortale poteva esserci l’ex regina di Napoli.
Piacenza visse la vicenda con grande sconcerto. “Libertà” invocava Iddio perché se mai di complotto si fosse trattato, Piacenza ne risultasse estranea. Chissà.Non si può escludere che proprio nella città che “per prima ebbe fede della gloriosa dinastia sabauda” (per dirla col sindaco Boscarelli) vada collocata l’ultima tessera di un bizzarro mosaico risultante dall’intrigo di estremisti rivoluzionari e passatisti reazionari coordinati da una irriducibile regina legittimista. Un mistero destinato a rimanere tale perché il governo, la corona e la magistratura ebbero fretta di metterci una pietra sopra. E perché l’anarchico regicida presto fu suicidato nel carcere di Santo Stefano.