Un ricordo di Alfredo Pizzoni, liberale e vero capo della Resistenza
Alfredo Pizzoni fu, senza alcun dubbio, il negoziatore principale, per conto della Resistenza italiana, con l’Alto comando alleato per tutti gli aiuti militari e finanziari ai partigiani
Il 30 marzo 1985 lord Patrick Gipson, ex ufficiale della Special Force One inglese e presidente del Financial Times scrisse una lettera al Corriere della Sera. Cominciava con queste parole: “desidero esprimere, anche a nome di molti altri colleghi che presero parte a quegli eventi storici, il disappunto e la tristezza che tutti noi abbiamo provato in questi anni nel vedere che il nome illustre di Alfredo Pizzoni (alias Pietro Longhi) non sia stato quasi mai ricordato. E’ stato Pizzoni, come primo presidente del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia, il vero capo della Resistenza...
Alfredo Pizzoni fu, senza alcun dubbio, il negoziatore principale, per conto della Resistenza italiana, con l’Alto comando alleato per tutti gli aiuti militari e finanziari ai partigiani...La sua indipendenza da partiti politici è, forse – triste a dirsi – la causa probabile del fatto che egli sia stato praticamente dimenticato”.
Questa lettera il Corriere non la pubblicò ! “Per la vulgata Pizzoni non è mai esistito forse non esisterà mai”, questa la significativa frase di Renzo de Felice riportata in copertina della bella e documentata biografia a cura di Tommaso Piffer “Il banchiere della Resistenza”, edita da Mondadori nel 2005. Piacenza avrebbe inoltre un motivo particolare per ricordare il capo della Resistenza, giacché egli abitò nella nostra città nel 1906 (in via Cavallotti 80, palazzo Costa-Trettenero) e frequentò il ginnasio al “Melchiorre Gioia”.
Bersagliere
Figlio di un ufficiale d’artiglieria, il giovane Alfredo, nato nel 1894, segue giovinetto i frequenti spostamenti della famiglia, determinati dai cambi di destinazione del padre. Chiamato alle armi nel novembre 1914, combatte al fronte da bersagliere. Catturato e internato in un campo austriaco, tenta una ardimentosa fuga senza fortuna. Trasferito in Ungheria, riesce a farsi passare per pazzo e a rientrare in Italia nell’ambito di uno scambio di prigionieri.Nel ’19 è a Fiume con D’Annunzio, ma quell’avventura non l’avvince. Torna agli studi presso l’università di Pavia. Il 20 luglio si laurea e s’impiega al Credito Italiano, l’istituto dove lavorerà tutta la vita.
Al Credito Italiano
A Milano frequenta ambienti antifascisti, in particolare l’associazione “Italia Libera” che Mussolini scioglie nel ’25. Trasferito a Trieste, Pizzoni dapprima nasconde il ricercato avvocato socialista Franco Clerici e poi lo aiuta a passare la frontiera. Tornato alla sede di Milano, si avvicina a Giustizia e Libertà, pur non condividendone la vocazione socialisteggiante. Passa qualche guaio con la polizia e la sua posizione di funzionario del Credito Italiano senza la tessera del partito nazionale fascista lo mette in una situazione difficile. L’Istituto milanese un po’ resiste, poi dietro alte pressioni, lo licenzia per riassumerlo nella sede di Biella.
Anche a Biella l’OVRA vigila. Sequestra a Riccardo Bauer un appunto in cui si parla di Pizzoni come aderente a Giustizia e Libertà. Seguono interrogatori e perquisizioni. La moglie è lontana e incinta del terzo figlio, mentre il padre – vecchio ufficiale sabaudo lealista – si preoccupa per lui. Dopo tre anni di resistenza personale cede alle insistenze della moglie e nel dicembre del ’33 prende la tessera del partito. Così può tornare a Milano, ricongiungersi con la famiglia e riprendere il suo lavoro al Credito Italiano.
Quando l’Italia entra in guerra, Alfredo Pizzoni trova l’entusiasmo popolare del tutto fuori luogo. E’ subito convinto dell’errore gravissimo commesso da Mussolini. Avendo in gioventù studiato in Inghilterra, conosce gli inglesi ed è convinto che “l’Inghilterra non cederà mai”.
Di nuovo coi fanti cremisi
I suoi 46 anni suonati e il ruolo di responsabilità al Credito gli danno il diritto all’esonero dalle armi. Ma la convinzione del prossimo tragico destino per gli italiani accende nel suo profondo la volontà di servire la patria. Crede infatti che – a tragedia consumata – solo l’esercito potrà prendere in mano il paese e trarlo dal disastro in cui il fascismo l’avrà condotto. Rinuncia perciò all’esonero e chiede di tornare nel corpo dei bersaglieri. La cartolina arriva ai primi di luglio del ’41. Al corso di addestramento di Civitavecchia si fa notare per certe espressioni critiche e per il rifiuto di usare il “voi” fascista. Il 22 gennaio ’42, s’ imbarca sulla motonave Victoria per raggiungere il fronte in Cirenaica con il battaglione di bersaglieri al suo comando.
Sul Victoria
In mezzo al canale di Sicilia la Victoria subisce un attacco da aerosiluranti inglesi e viene colpita. E’ ferma in balia di nuovi attacchi. Mentre si cerca di mettere in atto un piano di evacuazione, il colonnello comandante del reggimento fugge su un motoscafo d’emergenza, subito seguito dall’equipaggio civile sulle scialuppe di salvataggio superstiti. Pizzoni tiene calmi i suoi uomini e attende l’arrivo dei soccorsi. Quando finalmente il cacciatorpediniere Ascari si avvicina per il trasporto un altro attacco nemico semina morte e panico. Solo i bersaglieri di Pizzoni restano calmi. Quando la nave comincia ad inabissarsi, egli comanda “bersaglieri in mare”. L’ultimo a gettarsi è proprio lui, Pizzoni, raccolto due ore dopo da un convoglio di scorta nelle acque del mare gelido e buio (erano le ore 21).
Quella notte, con la Victoria, va a fondo anche la sua fiducia nell’esercito come àncora di salvezza del paese dopo la inevitabile disfatta. Il 25 luglio ’43, l’entusiasmo per la caduta di Mussolini lo lascia ancora una volta perplesso. La gente festeggia e non prevede il dramma che deve ancora venire. La mattina stessa in uno studio legale si trovano vari esponenti dei partiti antifascisti, più lo stesso Pizzoni (non aderente ad alcun partito ma di area liberale).
Nella clandestinità
Quando il comitato sente la necessità di darsi un presidente che diriga i lavori, il socialista Veratti propone Pizzoni, ben accetto da tutti. Arriva l’8 settembre e il comitato interpartitico si trasforma in Comitato di Liberazione Nazionale. la designazione di Pizzoni alla presidenza è proposta dal comunista Girolamo Li Causi. I comunisti, in questa fase, sanno di aver bisogno di uomini che sappiano aprire contatti con i finanziatori, procurarsi la fiducia degli alleati, mantenere gli equilibri con tutti i partiti antifascisti. Ma scrive Luigi Longo già sulla fine di settembre del ’43: “a misura che la situazione evolverà a sinistra perderemo certamente degli alleati di destra, ma queste perdite non saranno che la conseguenza del rafforzarsi della direzione di sinistra. Quindi non saranno un danno, anzi.”.
Stretto dai partiti
Pizzoni non è uno sciocco, sa che comunisti e socialisti conducono una loro lotta rivoluzionaria; lui Pietro Longhi (il suo nome di battaglia) si limita invece alla lotta patriottica, si attiene all’amor di patria come lo intendevano i nonni e i bisnonni del Risorgimento. Di tanto in tanto la Muti irrompe nelle sedi provvisorie usate dal Comitato e bisogna sceglierne di nuove. E’ sempre Pizzoni il motore della complicata macchina del Cnlai. Così come è Pizzoni a cercare i finanziamenti e a studiare i meccanismi – spesso assai ingegnosi – per movimentare il danaro.
Quanto ad aprire rapporti con gli alleati, ci prova prima Ferruccio Parri con scarso successo. Le cose cominciarono a cambiare quando in Svizzera arrivano il liberale Casagrande e lo stesso Pizzoni. Nonostante le gelosie e le diffidenze dei partiti di sinistra la missione in Svizzera ha successo. Il nostro riesce a vincere la diffidenza degli alleati assicurando ai partigiani sostanziosi aiuti. Si attira però le invidie delle sinistre che ritengono “non più compatibile la presenza di un apolitico nel Cnlai”.
Le sinistre credono che l’epilogo sia vicino, e sbagliano. Lo sbarco in Normandia provoca un rallentamento della risalita degli alleati verso il nord Italia. Dopo molti contrasti, una strana delegazione viene mandata al sud per incontrare i comandi inglese e americano oltre a rappresentanti del governo italiano.
In missione al comando alleato
E’ composta da Pizzoni, Sogno, Parri e Paietta. Nonostante le premesse – scriverà il Nostro - grazie anche al comportamento prudente e composto degli altri tre, la missione riscuote un successo superiore alle più rosee aspettative. Pizzoni riuscirà anche a far ritirare il famoso proclama del gen. Alexander che invitava i partigiani a disarmare durante l’inverno. La delegazione torna al nord con l’impegno di un finaziamento pari a 160 milioni ogni mese. All’avvicinarsi della liberazione le sinistre tornano all’attacco: vogliono un politico alla presidenza del comitato e Pizzoni deve togliere l’incomodo. In questa “fissa” si distingue lo zelo di Sandro Pertini (che Pizzoni giudica un “fanatico senza equilibrio”). Mentre si trova di nuovo al sud, impegnato in un’altra missione presso gli alleati, a Milano gli fanno le scarpe.
Il ben servito
E’ il 19 aprile. Pizzoni sarà sostituito da un rappresentante di partito, comunista o socialista. Poichè non si trova l’accordo sul nome, la riunione viene aggiornata. La mattina del 27 aprile il Cnlai si riunisce per l’ultima volta sotto la presidenza di Pizzoni. Illustra i risultati della missione e subito dopo viene attaccato dal comunista Sereni. E’ stato deciso, nel comitato possono rimanere solo i politici iscritti a partiti. Lui è fuori ! Nuovo presidente del Cnlai viene nominato Rodolfo Morandi. Così, Alfredo Pizzoni, il giorno stesso della insurrezione generale riceve il ben servito. Torna al Credito Italiano, finché un tumore alla gola lo porta a morte il 3 gennaio 1958. E’ sepolto per la sua volontà con la mantellina da bersagliere, in quattro asse di legno grezzo come si fa al fronte.
Conclusione: la storia celata
Questa in estrema sintesi la storia dell’uomo senza partito che fu presidente, ministro delle finanze e ministro degli esteri del “governo della Resistenza”. Una storia celata a lungo da una cortina di silenzi vergognosi e omertosi. Una sistematica cancellazione dalla memoria degli italiani sotto la regìa dei partiti che avevano (e ancora hanno) interesse a raccontare la Resistenza non secondo verità ma secondo gli interessi della loro politica.