Una storia della guerra civile: da Groppallo a Casalpusterlengo, il dramma di una famiglia
Il 4 aprile del ’44 un uomo sulla cinquantina vangava il suo campicello in località Chiarabini, comune di Farini d’Olmo, riva destra del Nure. Quando il sole cominciò a dare segni di cedimento, lasciò la vanga e prese a salire il sentiero verso Groppallo, il paese abbarbicato a cavaliere di un lungo costone posto nel senso dei meridiani...
Il 4 aprile del ’44 un uomo sulla cinquantina vangava il suo campicello in località Chiarabini, comune di Farini d’Olmo, riva destra del Nure. Quando il sole cominciò a dare segni di cedimento, lasciò la vanga e prese a salire il sentiero verso Groppallo, il paese abbarbicato a cavaliere di un lungo costone posto nel senso dei meridiani. Là in fondo, dove prende abbrivio la lunga, dritta ed erta strada della chiesa, c’era una cappelletta che ora ha fatto posto a una pizzeria. La casa dell’uomo e della sua famiglia stava appunto dietro la cappelletta e per questo Giuseppe Poggioli di Antonio era conosciuto da tutti come Pippéin d’la Caplèta. Nato nel ’93, s’era fatto la guerra del ’15. Aveva perso un braccio guadagnandosi una bella medaglia d’argento al valore. Poi, siccome la moglie e tre figli non possono nutrirsi di medaglie lo avevano nominato ufficiale di posta con uno stipendiuccio da aggiungere al lavoro del campicello. Pippéin era fiero del suo compito di ufficiale di posta ed era grato a chi glielo aveva affidato, cioè allo Stato. E se lo Stato era diventato fascista, anche Pippéin era diventato formalmente fascista. Non aveva mai fatto nulla di male, dicono i vecchi di Farini. E forse per quella ragione non ne temeva dagli altri. Male non fare, paura non avere, gli avevano insegnato i suoi vecchi. Ma la guerra civile se ne frega dei vecchi e dei proverbi. La guerra civile se ne impippa delle regole. Così, quel giorno Pippéin trovò un gruppo di persone armate ad aspettarlo presso la cappelletta. Nel gruppo spiccava un uomo alto, con radi capelli biondi ben curati, in elegante abito grigio, senza armi. Parlava poco ma si capiva che gli ordini li dava lui. Con burocratico distacco chiese a Pippéin di rassegnare le generalità. Lui le diede e aggiunse: “mangio un boccone e sono subito da voi”. “No”, gli rispose a muso duro uno del gruppo, “di pane ne hai già mangiato anche troppo”. La famiglia alla finestra capì e si precipitò fuori a implorare e piangere. Fu inutile. L’uomo in grigio, determinato e freddo, si limitò ad assicurare che ai famigliari non sarebbe stato torto un capello. Pippéin baciò i suoi cari e consegnò l’unica cosa che potesse costituire il suo ultimo ricordo: l’orologio che portava sempre all’unico polso. Gli spararono appena giù dal paese, nel primo sentiero traverso. E lo lasciarono lì.
Sul libro “Piacenza nella RSI” è scritto che i partigiani prima di andarsene distrussero l’ufficio postale, asportarono l’apparecchio telegrafico e sparsero il terrore tra la popolazione locale. Par proprio che non risponda al vero. Fu un lavoro pulito, da professionisti, senza troppo chiasso. E non asportarono il telegrafo perchè non c’era nessun telegrafo. Sul punto ritorneremo. La famiglia si smembrò. Madre da una parte, maschietto da un’altra e le due figlie maggiori - Ida e Bianca - si ritrovarono in un istituto di via Scalabrini, non meglio identificato. Si guadagnarono il pane per un anno, aiutando, cucendo e rammendando. La mattina del 26 aprile ’45 le misero sul cassone di un camion. Erano in otto femmine più sei soldati di sanità, tutti disarmati. Fecero poca strada perchè a Casalpusterlengo l’automezzo incappò in un posto di blocco di partigiani rossi. Furono tutti e quattordici portati alla Torre, maschi e femmine. Passarono la notte tra gli insulti, le botte e le urla della gente che giù nella strada reclamava giustizia sommaria. La mattina seguente, con una vecchia corriera, vennero portati presso l’ospedale e allineati contro il muro. Un plotone d’esecuzione si schierò e aprì il fuoco. Quando la gragnuola cessò, Ida e Bianca erano ferite ma ancora vive. Proprio Bianca ebbe la forza di alzarsi e di implorare: “uccideteci, finiteci”. Ma a quel punto tra le giovani donne e i fucili mitragliatori si frappose frate Paolo, un cappuccino del vicino convento. “No” – disse - non fatelo, stanno morendo e io le assisterò”. I partigiani se ne andarono e frate Paolo fu lesto a nascondere le poverette in una cantina dell’ospedale. Così le sorelle Poggioli sopravvissero ma il calvario non era finito lì. Salvata la vita, dovettero poi subire quattro mesi di prigione mentre il giornale “Piacenza Nuova” pubblicava avvisi per reperire eventuali accuse nei loro confronti. Nessuno le accusò di alcunché e finalmente le poverette poterono riprendere a vivere col loro dolore, col loro fardello di tragici ricordi.
Ida non è più fra noi, Bianca sì. Sposata con un ufficiale di marina, ha un figlio e vive a Pavia. Ogni estate, nonostante tutto, torna a Groppallo nella casa paterna. Passa molto tempo immobile alla finestra, quasi vedesse ancora la Caplèta e quell’uomo alto, dal vestito grigio, venuto da chissà dove - e chissà perché - a martirizzarle la famiglia. Bianca non odia nessuno. Vive coi suoi ricordi, con quattro ferite nella schiena che a volte la fanno vacillare e le pulsano nella testa. I partigiani che le uccisero il padre ritiene venissero da Bardi e non sa spiegare i motivi di quell’azione. Forse per il telegrafo, azzardo io. Chi deve assicurarsi il controllo del territorio in guerra - spiego - non può lasciare dietro di sé un telegrafo sotto la responsabilità di un nemico, chiunque esso sia. Bianca scuote la testa. “No” - afferma con sicurezza - “il piccolo ufficio di posta era lì, proprio sotto questa stanza; un localuccio che vedevo ogni giorno: le assicuro, niente telegrafo”.
Bianca non odia neppure quelli che l’hanno fucilata, anche se due di quei nomi da partigiano (Farina e Billy) li porta impressi indelebilmente nella memoria. Bianca è una signora dal portamento sereno, curato, con un velo perenne di mesta tristezza. - come un interrogativo senza risposta - davanti agli occhi castani Lassù, al colmo della salita che inizia proprio sull’uscio di quella casa, c’è la chiesa di Groppallo. Alta, imponente, sembra signoreggiare l’intera valle perchè ovunque ti trovi la vedi. Di fronte sta il cimitero lindo e curato come sanno essere i cimiteri dei villaggi di montagna, dove - anche tra le peggiori follie umane – si rispettano i morti. Sono andato a cercare la tomba di Poggioli Giuseppe d’anni 51. Sulla piccola lapide c’è scritto: “morto tragicamente....” perché si sa, “barbaramente trucidato ....” non sono parole che spettano ai perdenti. Mentre lascio il camposanto trilla il telefonino. E’ la signora Bianca Poggioli che mi prega di non scrivere niente. Due anni dopo disobbedisco e spero che mi vorrà perdonare.
(da La Cronaca di Piacenza il 31 maggio 2005)