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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Borghetto, rione di “giad” (1° parte)

Rione Borghetto, denominato, in tempi remoti, "di giad". A causa, pare, del colore giallognolo che caratterizzava il viso di molti suoi abitanti. La storia del quartiere

In molti a dirmi: beh, che aspetti? Non hai ancora scritto nulla su via Borghetto, uno dei centri nodali del costume popolaresco della vecchia Piacenza! Così quasi obbligato, metto da parte (ma solo per il momento, perché verrà il loro turno) molti altri argomenti, e ci concentriamo (in due puntate poiché l’argomento è vasto) su rione Borghetto, denominato, in tempi remoti, “di giad”, a causa, pare, del colore giallognolo che caratterizzava il viso di molti suoi abitanti.

Infatti  sembra fossero colpiti, più che quelli residenti in altre borgate d’entro mura  durante le penurie alimentari, dalla pellagra una malattia derivata da una grave penuria di vitamine tipica per chi si cibava quasi esclusivamente di polenta. Per fortuna in tempi più vicini a noi le carestie non furono così frequenti; a due passi c’era il Po e all’interno di ogni casa, anche la più umile, si coltivava un pezzetto d’orto; insomma ci si arrangiava e si poteva contare sulla reciproca solidarietà. Da ciò il detto: par la sal a gh’è i visèi”“; tuttavia, anche in Borghetto, come del resto in molte altre borgate, molti faticavano a combinare pranzo e cena.

Borghetto, la lunga via che si snoda in un sinuoso percorso all’incrocio via Cavour-via Roma per terminare di fronte al Torrione, nonostante i rimaneggiamenti e rifacimenti edilizi che hanno in parte modificato gli esterni delle case  e dei palazzi, non ha sostanzialmente modificato la struttura delle costruzioni e le relative ramificazioni veicolari rispetto ad altri nuclei borghigiani della città. Dobbiamo quindi considerare Borghetto quale epicentro borghigiano cui si aggregavano via S.Bartolomeo, Cantarana, Stra Nòva (l’ultima propaggine di via Mazzini che scende ripida dalla Montà di Ratt), S. Rocchino, Cantone de’ Degani. borghetto4-2

Una comunità piuttosto coesa nella quale non sono mai divampate accese rivalità culminanti con le epiche sassaiole che di tempo in tempo si ingaggiavano fra bulli boriosi e rissosi di altre zone confinanti. “Storici” avversari erano invece quelli di via Taverna e zone limitrofe, considerati “ariosi!”per la prossimità a Porta S. Antonio aperta ai traffici del comprensorio suburbano rurale. Le guerriglie avevano come campo di disfida terrapieni accidentati folti di cespugli ed arbusti, rovi e prunai selvatici dell’entromura, nel tratto compreso tra il Torrione ed il bastione di S. Maria di Campagna.

“Torrione Borghetto- descriveva quasi 50 anni fa il giornalista Gaetano Pantaleoni che vi era nato- non ha perduto nell’aura dei ricordi nostalgici che restano patrimonio delle generazioni anziane, il “rustico colore ambientale” di un tempo. Oltre i bastioni, oltre la fortezza cintata del barbacane, appena fuori porta, vi sono i campi, gli argini, le golene un tempo boscose del Po, lo scenario sconfinato dei pioppi e dei salici. Contiguo alla Porta c’è ancora, con qualche ritocco funzionale, l’edificio del corpo di guardia, ove alloggiavano i soldati accasermati nel Torrione. Erano giovani prevalentemente meridionali detti “patàn”. Vestivano l’uniforme della 1° guerra mondiale. Noi ragazzini di borgata familiarizzavamo con loro, spesso ci dispensavano pagnotte di cruschello che odoravano di “casermaggio”, “gallette” di pasta dura coi buchi, più infrangibili ai morsi che gli “straccadeint”. I soldati del Torrione parlavano astrusi dialetti meridionali ma erano sempre allegri, spensierati, ingenui. Sovente la gente dai finestroni del Torrione li osservava farsi la barba, cantare “o sole mio”, gridare “mannaggia” alle bottonaie dell’opificio di Capra o alle operaie del lanificio che venivano a stendersi al sole durante l’intervallo meridiano del lavoro, a divorare le povere cibarie della “scartassa”: pane con mortadella o stracchino.

Cantavano canzoni in voga nei primi anni Venti, portavano capelli tagliati “alla maschietta”, le prime gonne corte appena sopra il ginocchio, secondo l’audace moda dell’età del fox trot. Il tempo- chiosava il giornalista- è trascorso nella zona del Torrione quasi senza sfiorarla, mentre nel suo vortice inesorabile ha cancellato le vecchie tracce di vita associata  che ne animavano il proscenio gremitissimo, pittoresco, ciarliero, tra il continuo via vai di carrettieri, boscaioli, bottonaie, fornaciai, pescatori, stallieri, operai della Chimica (ex cotonificio) che sorgeva sull’area d’angolo con via S. Bartolomeo”.

Borghetto era contrada di stallaggi, di lavanderie militari, di straccivendoli, di fornaciai che operavano nella zona detta “I sier”, una specie di brughiera fra il Fodesta e la parte elevata di S. Sisto. La caratterizzava una fornace paleo- industriale la cui struttura somigliava ad un imbuto rovesciato. borghetto3-2

Era una delle più moderne dell’epoca. Attorno al 1870 il suo titolare Antonio Cattaneo l’aveva tecnologicamente rinnovata istallando una fornace a sistema circolare “tipo Hoffman” alimentata ogni cinque minuti con carbone fossile, con un potenziale giornaliero incredibile per quei tempi: 6 mila unità manifatturate tra cui mattoni, tegole, pianelle per pavimenti ecc. Occupava un rilevante numero di fornaciai ed addetti ad altri lavori accessori come appunto i carrettieri che trasportavano tonnellate di argilla estratta giornalmente dalle cave golenali del Po.

Andavano e venivano con le barre (carrettoni) d’alta ruota, trainate da poderosi stalloni guarniti di finimenti tintinnanti di sonagli, infiocchettati come destrieri da parata. Al loro passaggio facevano schioccare il nerbo della frusta. Nel quadro dell’economia zonale la fornace rivestì dunque un ruolo di primaria importanza e continuò a funzionare con crescente ritmo produttivo. Nel primo decennio del ‘900, la fabbrica gestita dai soci Cattaneo e Romagnoli, operò in pieno boom costruttivo ed il numero delle maestranze continuò a salire per tutti gli anni ’20.

C’era poi la gente del Po che sul fiume aveva trascorso tutta una vita: sabbiaioli, pescatori, boscaioli e cacciatori. Bastano pochi nomi a riassumerne il gremito proscenio: i Borsotti, i Bori, il Nìn Pantaleoni, suo figlio Mario, i Barbieri, i Bernardelli, i Morelli, i Galliani, i Rizzi, i Fraschini.

E tanti altri ancora che popolavano lo scenario borghigiano: i Lamberti lavandai, la Guglielma Migli, sorella del Zeti: era la bucandiera del Genio Pontieri; stendeva i panni, le coperte, le lenzuola militari al sole del Torrione; i Lamberti nella assolata radura dei Sier. Borghetto ma anche S. Bartolomeo e Cantarana, era un rione etnicamente omogeneo, quasi un tutto unico, in tempi di cruda realtà sociale.

Nella seconda puntata citeremo ancora tanti altri straordinari protagonisti e naturalmente il loro naturale palcoscenico, le osterie, ben otto, con la loro indiscussa regina, la Pirèina tutt’ora in attività, ma solo come trattoria.

Borghetto, rione di “giad” (1° parte)

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