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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

“Ciòti”, mimo del teatro-strada piacentino. Ma soprattutto una storia di dignitosa miseria

Percorreva le strade delle borgate con una cesta (successivamente con un carretto), proponendo ai passanti l'acquisto di tre limoni per poche lire. Tutti lo conoscevano con il nome di Ciòti ed era uno delle più popolari "macchiette" del teatro-strada della Piacenza popolaresca

Gran parte della generazione di piacentini già piuttosto attempata, ricorderà senza dubbio un piccolo uomo che passava per le vie del centro, vestito con un abito sdrucito e malandato, un cappello calcato in malo modo in testa, pantaloni enormi, scarpacce bucate e sghembe che lo facevano caracollare sui piedi anchilosati.

Percorreva le strade delle borgate con una cesta (successivamente con un carretto), proponendo ai passanti l’acquisto di tre limoni per poche lire.

Tutti lo conoscevano con il nome di Ciòti ed era uno delle più popolari “macchiette” del teatro-strada della Piacenza popolaresca. Erano i primi anni ’60 e l’epoca del benessere cominciava inesorabilmente a spazzare via l’humus autoctono rimasto praticamente intaccato, con i suoi equilibri e disequilibri sociali, per almeno cent’anni.

Ciòti era “del sasso”, nato in S. Agnese. Da giovane era un bell’uomo, piaceva alle ragazze della borgata e fu un provetto battimazza, ovvero il primo aiutante del fabbro nella forgiatura battendo con la mazza. Lavorò (come mi ricordava mio padre, nativo di via S.Bartolomeo, al n° 100), prima da Coghi e Dusi, officina ubicata all’inizio della via, dentro un caseggiato con un grande portone, quindi come dipendente, negli anni ’30, dell’Arsenale. Era, così mi diceva mio padre scuotendo la testa in segno di disapprovazione quando lo vedeva dileggiato da qualcuno, un bravo operaio, serio, alacre, esemplare, stimato e benvoluto da tutti, compreso i suoi datori di lavoro.

Colpito da una grave infermità, dovette sospendere a lungo l’attività, poi rientrò al lavoro e, durante la guerra, fu deportato in Germania e tornò mal messo, dopo alcuni mesi. Le sue condizioni di salute andarono via via peggiorando, stremandolo nel fisico e nella psiche, riducendolo a quel rudere d’uomo che molti conobbero.

Ma Ciòti, nonostante le sofferenze ed i travagli della sua infermità permanente, riuscì a conservare una sostanziale fierezza, una propria dignità.

ciòti giovane-2A quei tempi il sistema di assistenza agli indigenti era ancora tutto da impostare; Emilio S….., così si chiamava, non chiese, né accettò mai elemosine, preferendo condurre un’esistenza di disperato bohemien dell’iniziativa privata, come venditore ambulante di limoni che comperava (spesso regalati) al mercato ortofrutticolo, per poi rivenderli in giro per le borgate, prima con una cesta portata al braccio, poi con un carretto-trabiccolo che ne accentuò il ruolo comico-grottesco agli occhi dei suoi concittadini che cominciarono a vederlo sotto una luce caricaturale, di “macchietta” secondo i gusti ridanciani e sovente anche volgari, dell’umorismo burlesco dei tempi che, dopo la parentesi bellica, ritessevano la trama della beffa e dello spasso a buon mercato verso questo “don Chisciotte” appiedato. Mimo estemporaneo che animò per anni con schiamazzi, il palcoscenico ridanciano popolaresco.

Ma non era, tranne per alcuni casi, crudele dileggio verso l’uomo dallo sfascio psico-fisico. Lo pungolavano provocandone l’azione scenica con bonario sarcasmo, con faceta malizia, tanto per vederne la reazione furente, il suo turpe lessico di popolano deciso a difendere la propria dignità umana. L’epiteto di “spia” o “boia” che gli veniva indirizzato, scatenava in Ciòti collere terribili.

Ma dopo l’eccesso, il raptus, la sfuriata, sul viso del popolare venditore di limoni, tornava rapida una sorridente mestizia e, come quasi sempre accadeva nelle “baruffe nostrane”, lui e gli occasionali antagonisti verbali, se ne andavano all’osteria per il consueto bicchiere.

Quel vino, bevuto in quantità sempre più abbondanti, lo stordiva, lo inebriava, gli spremeva luccicori lacrimosi sulle palpebre appassite, gli accendeva il grigiore spento delle iridi, gli annebbiava la mente, lo portava a dormire sotto i portoni, nei sottoscala, in chissà quali antri, lui senza abitazione, né parenti. Una vita con poche gioie, tanta sofferenza, stenti, miseria e molta, troppa solitudine, proprio in mezzo alla gente che sghignazzava intorno alle sue baruffe di strada.

L’ultimo anno della sua vita fu ospite dell’ospizio di Borgonovo e sovente chiedeva di poter ritornare a vendere i suoi limoni. Gli fu promesso (probabilmente per tenerlo calmo) un posto al Vittorio Emanuele, nella sua Piacenza, ma vedendosi dileguare la speranza di tornare nella sua amata città, smise di alimentarsi. Morì forse di nostalgia, perché gli mancavano gli spazi di libertà del suo palcoscenico cittadino di cui fu per anni reietto protagonista.

“Ciòti”, mimo del teatro-strada piacentino. Ma soprattutto una storia di dignitosa miseria

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