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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Giardino “Merluzzo”: lo chiamò così il popolo piacentino

Anche questa un po’ spelacchiata plaga di verde ha origini storiche lontane ed ebbe dal “popolino” diversissimi e non sempre lusinghieri appellativi

La seconda oasi di verde a disposizione della cittadinanza che risiede nel centro storico (dopo il Margherita di cui già abbiamo trattato), è il giardino “Merluzzo”. Anche questa un po’ spelacchiata plaga di verde, ha origini storiche lontane ed ebbe dal “popolino” diversissimi e non sempre lusinghieri appellativi. Grazie ad una paziente ricostruzione storica del prof. Attilio Repetti, è possibile riannodare le fila del lontano passato di questo giardino sorto nell’avvallamento triangolare tra l’antica via Torricella (via Alberoni) ed un tratto della strada romea di S.Lazzaro (ora via Roma).

Questo bivio fu indicato per lunghi anni, come sovente ricordavano gli anziani piacentini, con il nome di “Spig ‘d Santa Maria ‘d l’Angil” dal nome della chiesa eretta fin dal 1151 da Abizzone, abate del vicino monastero di S. Savino in ottemperanza al lascito di terreni e case da parte di Bongiovanni Astario perché vi fosse eretto, alle dipendenze di quel convento, un oratorio detto prima della Madonna di S. Savino poi di S. Maria degli Angeli dal nome della chiesa eretta nel 1602.

Della descrizione di questa chiesa restano poche testimonianze tra cui quella di Leopoldo Cerri che in gioventù ebbe modo di ammirarla prima che cadesse sotto i colpi del piccone nel 1872. Scriveva che “la caratteristica facciata di questo nuovo tempio prospettava (caratterizzava) quel bivio stradale, con tutte le sue svariate e curiose ornamentazioni seicentesche. Sui fianchi si elevavano due eleganti torri nella cui cella campanaria erano aperte per ogni lato, finestrelle abbinate. Sopra la cella, attorno alla calotta a volta oblunga, spuntavano numerose cuspidette ed un esile cupolino terminale.

L’interno del tempio iniziava con un avamporto a forma ottagonale, con volta a catino; il vano seguente era diviso in due campate con volta a botte. Il presbiterio, sopraelevato di tre gradini, era chiuso da una balaustra. Tutto il santuario e le due cappelle erano affrescate a motivi architettonici; quelli del coro erano stati dipinti nel 1753 dal piacentino don Antonio degli Alessandri, autore anche di altri dipinti eseguiti nell’ora distrutta chiesa di S. Alessandro dove era ubicato il cinema Iris.

Con la distruzione di questa chiesa venne a mancare l’unico singolare esempio di costruzione ecclesiastica del più spinto stile barocco (ad eccezione di S. Giorgino iniziata nella seconda metà del ‘600) della nostra città”. Già quando nel 1872 iniziarono i lavori di spianamento, furono subito alimentati da polemiche per le ingenti spese che si sarebbero dovute sostenere. Infatti il Comune che aveva affidato all’ing. Balzaretti (noto per aver progettato i giardini pubblici di Milano) l’incarico della sistemazione dell’area, sorsero forti contestazioni perché, inviati gli amministratori a specificare la spesa prevista, venne dichiarata la cifra non esigua per quei tempi di lire centomila.

Alcuni cittadini ironicamente proposero di murare in loco una iscrizione: “in tempi munificentissimi di gabelle, deficit ed imposte, il Municipio un tesoro di 100.000 lire seppellì, alla vana ricerca dei posteri nel breve spazio di questo giardino. Anno MDCCCLXXIV, memori i poveri contribuenti”.

Il progetto tuttavia proseguì ma non si sopirono affatto le polemiche, anzi. Depositario di tutte le diatribe fu principalmente “Il progresso”, il periodico bisettimanale allora più diffuso tra la stampa piacentina che fu tenace nell’opposizione al progetto ordinato dal Comune. Anche i soprannomi proposti furono ben indicativi degli stati d’animo che verso questa realizzazione: dal più modesto “orto di S.Savino”, si passò al “Giardino in cantina”, poi al “giardino fossa”, per concludersi alla proposta di “ghiacciaia per lo scarico delle nevi”.

Ma l’appellativo che poi rimase fu dettato dall’arguzia del “popolino” che, dal disegnarsi dell’area di questo spiazzo in un triangolo allungato a guisa del noto pesce qual si presenta una volta decapitato, spaccato e messo sotto sale, fu denominato “Merluzzo”. Le polemiche non si sopirono tanto facilmente ed i commenti per quella che molti consideravano solo come un vasto ed antiestetico dislivello, proseguirono sui giornali e periodici locali.

Comunque a conclusione di tante controversie, si seppe poi che il “Merluzzo” costò al Comune non le tanto contestate centomila lire, bensì duecentocinquanta mila, senza che in questa somma fosse compresa quella pagata all’illustre autore del progetto.

Storie di ieri, realtà d’oggi. L’oasi che suscitò tante polemiche è solo una piccola landa circondata da un parcheggio e via di attraversamento e scorciatoia tra la via Alberoni e la parte finale di via Roma. Le due foto dei primi del ‘900 lo inquadrano dall’intersezione tra le due strade con il monumento a Felice Cavallotti.

Altri tempi, altri ritmi, ma per fortuna il Merluzzo almeno resiste…

Giardino “Merluzzo”: lo chiamò così il popolo piacentino

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