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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I due “Carlòn dal pont”

Rimaniamo con le nostre storie sulle rive del Po rievocando due mitiche figure del nostro grande fiume, ovvero i due “Carlòn dal pont”, il primo scomparso dalla scena padana agli albori del 1900, il secondo nel 1943

Rimaniamo con le nostre storie sulle rive del Po rievocando due mitiche figure del nostro grande fiume, ovvero i due “Carlòn dal pont”, il primo scomparso dalla scena padana agli albori del 1900, il secondo nel 1943. All’epoca del primo personaggio (di cui rilasciò testimonianza la figlia al giornalista Pantaleoni quando aveva superato 80 anni e risiedeva in via Borghetto) le due sponde erano collegate da un passaggio su grandi barconi di legno impeciato ed alla sua metà era installata una rudimentale baracca dei guardiani adibiti alla riscossione del pedaggio.

Avvenne dunque che Carlo Bernardelli, detto appunto “Carlòn dal pont”, essendo uomo alto e corpulento, fra i più noti guardiani del ponte in chiatte, figlio a sua volta di un veterano custode del ponte stesso (la gente diceva nato addirittura dal fiume), una sera che il Po era in piena e le barche erano state staccate dalla sponda, si apprestava a raggiungere la baracca dove avrebbe trascorso la nottata. Era sera ormai inoltrata, le undici, quando Carlòn uscì dall’osteria dell’Isola Pescatori per tornare al suo posto di lavoro. Pioveva a dirotto, c’era buio pesto, il fiume gonfio mugghiava minaccioso; malcerto sulle gambe, raggiunse la passerella, la imboccò per incamminarsi alla baracca.

Forse incespicò o fu un lembo del tabarro a conficcarsi in qualche spuntone della passerella e trattenerlo, quindi farlo cadere nell’acqua. Non sapendo nuotare (ma quel tempaccio, con i vestiti anche un abile nuotatore sarebbe stato in serie difficoltà) fu travolto ed inghiottito dai gorghi impetuosi del fiume. Sta di fatto che la mattina successiva i suoi compagni di lavoro notarono che la passerella non c’era più; l’ondata di piena l’aveva portata via come fragile trabiccolo. Videro invece il mantello dell’amico sulla riva; fu un brutto presentimento; intuirono che al loro compagno di lavoro era capitato un infortunio letale. Tuttavia continuarono a sperare di essersi ingannati e lo cercarono per molti giorni lungo le insenature, nelle lanche ma ogni ricerca fu vana: il Po se l’era portato via per sempre. Forse il suo corpo non fu trascinato molto lontano; forse il terriccio trasportato dalla piena lo aveva ricoperto.

Questa la fine del primo e vero “Carlòn dal pont” che pare ammantata di leggenda tragica; lasciò un retaggio ai figli che fin da ragazzi si erano legati come lui alla vita sul fiume ed il suo soprannome passò quasi per investitura quasi di diritto al figlio Antonio. Del padre questi ereditò la forza leonina che però, per singolare stranezza somatica, non si rivelò subito. A vent’anni infatti Antonio era mingherlino, di fattezze gracili e difettose, tante che per due volte consecutive venne riformato alla leva militare. Sembrava che il giovane “Carlòn dal pont” dovesse restare per tutta la vita di costituzione cagionevole e malferma, ma ad onta di ogni previsione a 23 anni il suo fisico fece uno “sproposito”: si alzò di vari centimetri e quasi raddoppiò la propria mole. Il torso, le braccia, le gambe assunsero dimensioni massicce, le mani, soprattutto quelle mani, si fecero enormi.ponte barche-2

Quelli che lo conobbero raccontavano che le sue mani erano fenomenali; le dita non erano cinque dita ma salsicciotti, anzi “cacciatori” data la loro rude viscosità. Divenne un colosso, fu abilitato al servizio militare e fu aggregato, naturalmente, al Genio Pontieri; in caserma si divertiva, fra l’altro, a fare il presentat’arm sostenendo una pesantissima ancora di ferro.

Cosa aveva di straordinario questo “Carlòn dal pont” in duplicato paterno? Due attributi soprattutto: la forza fisica fuori dal comune e la radicata fedeltà al Po. Visse sempre sul fiume, con la sua barca, nelle boscaglie, campando di pesca, di vendita di legna, ogni tanto traendo in salvo qualcuno che stava per annegare (come del resto è sempre stata prassi umanitaria di tutti gli uomini del Po) con prestanza e perizia incredibili.

Salvare una persona travolta dai gorghi possenti del fiume era per Carlòn come acciuffare un gatto, portarlo a riva senza affatto scalmanarsi. Per lui, che a differenza del padre, fu nuotatore di consumata abilità, quello di strappare al percolo mortale una vita umana, era un gioco da ragazzi. Si raccontavano di lui prodezze eccezionali, come quella di attraversare il fiume tenendosi quasi completamente sott’acqua. In città stava pochissimo, soltanto il tempo di mangiare un boccone e dormire, per tornare alla barca come la sua vera “casa fluviale”.

Camminava ciondolando sulle anche enormi. Fu persona di poche parole, di scarsa socievolezza, non perché mancasse di comunicativa, ma perché badava più ai fatti della sua attività concreta, di uomo d’acqua e di bosco, che alle chiacchiere con gli sfaccendati ed i perdigiorno.

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Per quanto rude e selvatico all’apparenza, non era affatto un musone o, peggio, un misantropo. Sapeva stare al gioco allegro delle compagnie, sfoderando una verve insospettabilmente faceta, gioviale, rintuzzando con vivacità di spirito le frecciate burlesche di cui lo facevano sovente bersaglio, amici e conoscenti.

Talvolta qualcuno lo stuzzicava al punto da provocare in lui reazioni adirate, furiose ma Carlòn, come sovente succede per alle persone dotate di forza smisurata, non ne abusò mai, né mai commise atti di prepotenza e di sopraffazione, tenendo a freno la sua imponente carica muscolare, ammantandola di umiltà e remissività.

Quando la notorietà della sua forza fisica d’eccezione si diffuse, la gente lo sottopose a prove fuori dell’ordinario, con sempre la medesima scommessa: mangiare e bere a volontà.

Ebbe pure momenti di spassosa notorietà partecipando a tornei di lotta libera, facendo sbellicare dal ridere gli spettatori. Non era infatti lottatore che conosceva le regole agonistiche; lottava, per così dire, in condizione brada. Eliminava gli avversari sollevandoli di peso, schiantandoli poi a terra. Ecco perché la gente si divertiva tanto. Ridevano un po’ meno i malcapitati contendenti.

Un’altra volta a S. Stefano Lodigiano un “bullo” locale in vena di spavalderia mise in palio cento lire (allora erano soldi) per chi l’avesse battuto. “Carlòn dal pont” che era lì presente si fece avanti, adottò il suo sistema di pestaggio libero, fracassando di botte quello spaccone. Ne derivarono mangiate pantagrueliche e libagioni anacreontiche.

Per una “forchetta” della sua taglia era sempre una pacchia accettare sfide a premio. Per aperitivo la mattina beveva diverse bottiglie, mangiava pastasciutte da mezzo kg; altre bottiglie nel pomeriggio ed alla sera era capace di farsi fuori numerosi piatti di tortelli. Nessuno di quelli che lo conobbero e praticarono lo vide mai sbronzo né ubriaco. Quando andava al cinema si addormentava quasi sempre. Una volta lo chiusero dentro e lui non se ne accorse. Accettò quello scherzo facendosi una grande risata con i compagni burloni.

Si sposò due volte, con due sorelle, tutte e due piuttosto magre, che lo amarono affettuosamente, quel gigante mite e mansueto, lavoratore infaticabile. Fattosi vecchio, bazzicò nella caserma di Palazzo Farnese dove un colonnello aveva molti lavoretti pronti per lui. Però la sua scappata al fiume era quotidiana. Non poteva staccarsi dal più grande amico che non lo tradì mai, pur facendolo tribolare per mezzo secolo.

Un giorno del 1941, a 74 anni, cadde da una scala e si ruppe un femore. Non riuscì a guarire, le ossa enormi non vollero sapere di ricongiungersi e così fu inviato al ricovero di Borgonovo. C’era la guerra, erano tempi di gravi penurie; la sorella, i fratelli, i figli poco potevano portargli per sfamare la sua fame sempre gigantesca: polenta e castagnaccio.

Certo ha patito la fame alla fine della sua vita “Carlòn dal pont”, ma ha soprattutto sofferto la lontananza dal suo amato Po. Morì due anni dopo, nel 1943, con chissà quale accoratezza e desolazione per non poter vedere per l’ultima volta il suo grande fiume, prima di passare ad altre sponde senza ponte di ritorno.

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