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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I tempi poveri e fieri delle bisnonne bottonaie

Piacenza è stata per quasi un secolo “patria del bottone” per antonomasia: l’industria-chiave della nostra economia manifatturiera (dopo quella dei setifici, dei cotonifici, delle filande di vario genere tessile) s’imperniò sulle fabbriche dei bottoni

Piacenza è stata per quasi un secolo “patria del bottone” per antonomasia: l’industria-chiave della nostra economia manifatturiera - dopo quella dei setifici, dei cotonifici, delle filande di vario genere tessile - s’imperniò sulle fabbriche dei bottoni. Nell’album delle riesumazioni sociali incredibilmente ricco di operosità imprenditoriale, ma anche di aspetti connessi al folclore vernacolo, le aziende bottoniere rappresentano un capitolo primario sia sul piano delle tecnologie produttive, che su quello del costume popolaresco.

L’immagine quasi classica della bottonaia, per esempio, rivestì un ruolo assolutamente tipico nello scenario della vecchia piacentinità, tanto che essa si identificò con la popolana del “sass”, ossia la “batùsa”, cantata nelle vivaci strofe dialettali da Valente Faustini. “Butunèra” e “batùsa” si possono infatti ritenere facce della stessa medaglia tradizionale. uscitabottCapra-2

Entrambe si contraddistinguevano per un’identica, ammiccante, strafottente maliziosità, da damigelle e madame della contrada, del cantone, del vicolo. Avevano una loro inconfondibile grazie impenitente, un’ostentata irriverenza, talvolta provocatoriamente beffarda, nei confronti di certo “dongiovanissimo “ da strapazzo galante, di genere contradaiolo. Detestavano i corteggiatori ed i pedinatori da marciapiede, alla cui petulanza verseggiatrice rispondevano fermandosi con le mani sui fianchi in atto di sfida, con motteggi sboccati e canzonatori, spesso ricorrendo all’arma intimidatoria “‘d’ la sòcla”, la zoccola, da scagliare sugli scocciatori.

Dietro le loro sfuriate altezzose e schiamazzanti, c’era però un certo gusto compiaciuto della provocazione reattiva, come mezzo di tutela della loro dignità proletaria, soprattutto nei riguardi degli “stuchèi” (zerbinotti) di estrazione, vera o presunta, piccolo-borghese. Oppure di sornioni e saccenti “fa da lucc” o “lucc da fera”. La “batùsa” e la “butunèra”, allora se ne contavano a centinaia, pressappoco della stessa risma psicologica, quelle che oggi si potrebbero definire “femministe” ante litteram.

Ma utilizziamo questo termine con cautela: avevano ben poco in comune nel piglio e nel comportamento, con le ingiustamente denigrate suffragette anglosassoni, allora su proscenio rivendicativo dei diritti sociali e civili della donna. Si trattava di un tipo muliebre formoso ed avvenente, carnagione olivastra, chiome corvine, occhi dai riflessi bruniti e scintillanti.

C’è tutto un repertorio fotografico a darcene conferma, nonostante si tratti di immagini scattate all’interno delle fabbriche, in disadorne tenute da lavoro, vicino ai torni azionati dalle cinghie di trasmissione. Ma mutavano radicalmente quando erano agghindate secondo i dettami della modo “belle epoque” nelle foto di gruppo o nei formati gabinetto. Sembravano allora altrettante regine Margherita; mancava soltanto la corona. Quelle bottonaie- cenerentole erano le nostre nonne e bisnonne dai cui grembi travagliati sono uscite generazioni di piacentini. E’ retorico dire che sarebbe doveroso venerarne la memoria, accarezzarne le sembianze stinte nella patina giallognola del tempo? Erano il “’l noss bell butunèr” occhieggiate  dalla pungente penna di quell’impenitente scapolo che fu Faustini.

La storia dell’industria bottoniera fiorì a Piacenza già attorno al 1870, perché nel capoluogo era attivo un opificio per la lavorazione del corozo, meglio conosciuto con il termine di “avorio vegetale”, frutto coriaceo provenente in prevalenza dall’Equador e da Panama.

Titolare di quell’opificio artigianale-industriale fu il dott. Vincenzo Rovera, manager antesignano,imprenditore geniale, di signorili costumi umani. Lo studioso Serafino Maggi che operò ricerche nel settore bottoniero piacentino, benché scarseggino documenti al riguardo, sosteneva che la lavorazione del bottone di legno o di metallo per abiti maschili, forse si può far risalire ai primi dell’Ottocento, al tempo dell’occupazione napoleonica, ad iniziativa di alcuni nuclei artigiani di tipo familiare, quasi “paratici” di locali corporazioni artigiane dell’età comunale. bottgalletto-2

Nella seconda metà dell’Ottocento, l’evoluzione capitalistica industriale assunse proporzioni mondiali con l’avvento di nuovi impianti, macchinari, tecnologie che soppiantarono su scala sempre più estensiva, le antiquate strutture della “bottega” a conduzione familiare.

In quel periodo fu notevole lo sviluppo, soprattutto nella vicina Lombardia, dell’industria manifatturiera, con quella tessile incentrata nelle filande della seta, della lana, del lino e del cotone, con migliaia di addetti. Ma di fronte alla liberalizzazione doganale di cui questa industria aveva goduto per anni, e conseguente crisi, ci si rivolse, anche a Piacenza, verso aree di più promettente sviluppo produttivo, come appunto il bottone. Talvolta però al pionierismo generoso e trascinante, non corrisponde un’adeguata concretezza di risultati e così l’iniziativa del dott. Rovera, il quale iniziò la primitiva attività bottoniera in un modesto stabile di Cantone Maddalena assieme a poche decine di operai, dovette a non lunga scadenza, concludersi in una mortificante dèbacle. Al suo spirito di illuminata imprenditorialità, non corrispose un appropriato realismo amministrativo.

Ciò non toglie, come annotava il Maggi, che, nonostante i detrattori, il nuovo opificio il cui fumaiolo svettava sui caseggiati borghigiani di Beverora- Maddalena (ne tratteremo per le borgate), non abbia avuto riflessi positivi sull’economia cittadina.

Il Rovera non era in effetti l’aborrito prototipo di capitalista dipinto da certa agiografia proletaria ed anarco-operaista di fine secolo, giacchè i salari da lui corrisposti ai dipendenti, erano più elevati di quelli percepiti dagli operai addetti ad altri settori produttivi.

Come spiegava il Maggi “la fase sperimentale della lavorazione del bottone avviata dal Rovera, si dimostrò soddisfacente; sotto la sua guida il bottonificio rimase attivo qualche tempo, poi, a causa, di un rovescio finanziario che coinvolse il titolare per mezzo milione di lire (cifra da capogiro per quei tempi), giunse sull’orlo del dissesto”.

Ma il seme gettato dal Rovera, uomo peraltro di singolare cultura umanistica e giuridica, doveva ben presto rigermogliare e fruttificare a metà del 1870, grazie all’apporto di nuovi capitali da parte di un avveduto banchiere, Luigi Ponti, rampollo di una famiglia di banchieri lombardi giunti a Piacenza nel Settecento. Così il dissestato bottonificio che sorgeva nell’area compresa tra via Maddalena e Molineria S. Giovanni, venne più funzionalmente riattivato e fu costituita la prima società piacentina per la lavorazione del bottone: la “Rovera-Ponti & C”.

(Fine prima parte)

I tempi poveri e fieri delle bisnonne bottonaie

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