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Venerdì, 19 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il cinema a Piacenza negli anni ‘60 e ’70: la testimonianza di un proiezionista

Il popolo che affollava i cinema piacentini: ci andavano proprio tutti, dai bambini agli adulti, quando avevano tempo libero a disposizione. Il cinema non aveva concorrenza

IL POPOLO DEL CINEMA

Al cinema ci andavano tutti, “grandi e piccini” e di cinema parlavano. Come ne “il buono, il brutto e il cattivo”, il mondo si divideva “in due grandi categorie”, quelli che parlavano di calcio e quelli che parlavano di cinema. Cinema di tutti i generi perché la gente era onnivora e guardava indifferentemente “Quel gran pezzo dell’Ubalda” o “Il Decameroticus” quanto Yodorowsky, Visconti o Fellini. E il giorno dopo ne discuteva citando dialoghi e sequenze con lo stesso fervore, magari specificando quello che del tal film aveva capito poco. Molti compravano il quotidiano cittadino per leggere le recensioni dei critici, poco importa se fossero firmate dall’illustre Giulio Cattivelli o dall’anonimo Vice. Spesso gli articoli del critico venivano tenute da parte e lette dopo aver visto il film perché ciò che determinava la scelta della visione era il manifesto, il titolo, il regista e documentarsi prima non aveva senso. La scelta del film avveniva in base all’umore del momento, a seconda che ci si voleva divertire, o riflettere. Si creavano poi spontaneamente dei circoli, delle sètte invisibili e siccome spesso ci si fermava in strada a parlare, si conoscevano persone mai incontrate prima e si discuteva tanto sul tal regista e su quello che aveva voluto comunicare, quanto su chi fosse l’attore più bravo o se fossero migliori le forme della Fenech rispetto a quelle della Bouchet o della Bolkan.

Comunque sia, c’era un evento che molti aspettavano senza confessarlo apertamente se non agli amici più intimi: il cineforum, che solitamente si teneva all’Excelsior, poi diventato President e poi chiuso, tutti i martedì. Iniziava alle 20.30 o alle 21 per concludersi a notte inoltrata, seguendo alla proiezione un dibattito spesso interminabile in cui tutti, dai barbuti intellettuali alla gente più semplice, intervenivano esprimendo le loro opinioni mediati da un moderatore. Era nel cineforum che si abbattevano le barriere sociali e l’avvocato parlava col metalmeccanico, o l’ingegnere col netturbino. Nascevano rapporti sociali nuovi, spontanei, che potevano concludersi nello spazio di una sera, o proseguire in una sorta di para amicizia e stima reciproca.

Il popolo del cinema era quanto mai attivo: chiunque appartenesse a lui spesso si fermava alla proiezione successiva, se il film era di suo gradimento, o era ben disposto a pagare il prezzo del biglietto, che in quegli anni si aggirava attorno alle 5.000 lire, e ritornarci. Aveva tutto il tempo perché un film stava in programmazione per almeno 15 giorni. Inserisco qui un dato triste, ma che fa riflettere: il gestore della sala, tecnicamente chiamato “esercente”, decideva di farlo smontare quando la media degli spettatori scendeva attorno alle 150 presenze giornaliere. Oggi, quando si raggiunge tale cifra, l’esercente è contento.

Al popolo del cinema appartenevano anche quelli che, preferibilmente di pomeriggio, ci andavano non per guardare il film, non per dormirci, ma con l’unico fine di adescare ragazzini. Feci quest’esperienza per caso, appunto un pomeriggio, quando avevo 11 anni. Avevo chiesto a un mio compagno di classe se voleva venire con me per la proiezioni de “Il cervello” di Gérard Oury che avevo già comunque visto almeno quattro volte. Mi disse che non poteva e al tempo stesso mi invitò a portarmi dietro un cacciavite o una forchetta, senza spiegarmi il motivo, che compresi dopo 15 minuti dal mio ingresso in sala: un uomo, quattro file avanti a me, iniziò a spostarsi: prima di due, poi sulla mia stessa fila, quindi mi venne vicino sorridente e, dopo 5 minuti, mi mise una mano sulla coscia. Prontamente, la forchetta che mi ero portato calò con tutta la forza che avevo sulla sua mano. Devo avergli fatto molto male, perché si mise ad urlare, si fermò la proiezione e si accesero le luci in sala: scappai da un’uscita di sicurezza e non seppi più nulla. Da allora in galleria non ci andai più, se non per motivi tecnici e strettamente legati al mio mestiere.

Il popolo del cinema non si perdeva un film anche grazie all’importantissima funzione sociale che aveva il cinema Roma, oggi ridotto per sopravvivere a cinema a luci rosse: ha ancora una platea e galleria, quest’ultima oggi o per lo meno fino a una quindicina di anni fa inagibile, enormi, segno dei suoi antichi fasti. Come tutti gli altri aperto dalle 14 alle 20 circa, riproponeva i film che erano stati smontati da poco dai cinema di prima visione, ma a prezzo dimezzato: lì ho visto “L’inquilino del terzo Piano” e “Rosemary’s baby” oltre a molti altri che non ricordo. Era un cinema che, solo la sera, aveva una media di 250-500 persone su due spettacoli. Quel cinema aveva un magazzino imponente di manifesti che si erano accumulati nel corso dei decenni, i più vecchi erano quelli dei film di Macario; una raccolta che se fosse stata tenuta oggi avrebbe un valore enorme, ma negli anni ’90 circa, con la crisi che si faceva sentire il gestore, conscio che quei manifesti non avrebbe potuto riciclarli, li fece andare al macero pagando a sue spese un bilico, riempito dai suoi proiezionisti ben contenti di accumulare delle ore di straordinario. La memoria del cinema si è persa (anche) così.

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