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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

In Sant’Agnese con Pirèlu, poeta delle sagre

Sant’Agnese una volta era una delle borgate simbolo della piacentinità in vernacolo. In questo quartiere il protagonista delle feste era Pirèlu Favari, animatore di tutte le brigate povere e spensierate, prodigioso verseggiatore e rimaiolo

Ne abbiamo già trattato diffusamente: Sant’Agnese era una delle borgate simbolo della piacentinità in vernacolo: la sua topografia globale non può essere circoscritta alla contrada-madre di via Angelo Genocchi o, in senso più “ghettizzato” della Gariverta, poiché si ramifica (tutt’ora) in un più articolato contesto urbanistico-edilizio, in un reticolo di vicoli, cantoni, viotoli, non esclusa la contrada collaterale di via X Giugno.

Numerosi abitanti “storici” di Sant’Agnese negli anni si trasferirono nella parte nuova della città. Nella borgata giunsero (negli anni Pirelu-2Sessanta) numerosi immigrati meridionali, mentre una parte delle famiglie di più consolidata tradizione rimase. Sostanzialmente quindi il suo humus popolaresco perdurò più che in altre borgate e quindi era stato più agevole, nelle mie ricerche, reperire testimonianze orali che affondavano nei primi del ‘900. I poveri in canna, “trid cmè la bülla”, (di poco conto, come il residuo della trebbiatura dei cereali), erano tanti e come in molte borgate povere della città dovevano pure arrangiarsi per non crepare di fame e di freddo. Quella non era certo l’epoca del consumismo, semmai della sopravvivenza. Insomma tanta dignitosa povertà tanto che anche la sua parrocchia, Santa Maria in Gariverto, ne era un po’ l’emblema, giacché si dice tutt’ora che “la Gariverta la fa bein al Dom”, perché nei secoli dopo il Mille era tributaria della Cattedrale.

Sant'Agnese e la più antica comunità borghigiana della Gariverta, è stata per secoli collegate alla vita del Po, alle sue vicissitudini concernenti i traffici ed i commerci portuali del fiume quando era navigabile. La fisionomia topografia dalla seconda metà dell’800 è rimasta in gran parte immutata se si esclude l’abbattimento dell’oratorio di S. Agnese da cui la borgata prese il nome. Sorgeva in fondo a via Genocchi, dove è stata ricavata tempo fa una piazzetta.

Nel volume “Per le vie di Piacenza “G. Nasalli Rocca annotava che “laggiù dove la strada si biforca, presentasi l’oratorio di S. Agnese già consorzio dei pescatori che un tempo era nominata della Santa Croce”. Gli edifici in gran parte conservano (seppur debitamente restaurati) caratteristiche di edilizia rustica spontanea, anche nei rispettivi tracciati di vicoli e cantoni: si osservi vicolo Bettolino, Cantone Fornace e Cantone del Guazzo. Come è accaduto su tutto lo scacchiere della vecchia città d’entromura, anche Sant’Agnese ha smarrito (ma un po’ meno delle altre) la propria identità etnico- vernacola, lo stesso “spirito di borgata” che si è pressoché vanificato, perduto.

Gran parte dei protagonisti di un’età povera e gaia, spensierata e festaiola (quella delle sagre rionali che però in S. Agnese è stata mantenuta fino a non molti anni fa), sono scomparsi; i vecchi sopravvissuti, persone che quando furono intervistati avevano almeno già superato i settanta, rievocavano quasi accoratamente, l’età della cuccagna, con gli ambiti trofei gastronomici posti in palio fra i più abili, agguerriti, arrampicatori.

In quella di S. Agnese si riproduceva, con varianti a loro modo tipiche, la vita generale piacentina di tanti anni fa, avente per fulcro locali disadorni ed animati delle osterie delle zone situate nella fascia dell’entromura che va da Porta Galera (tratto ex porta Cavallotti e Torricella), Porta Fodesta, Porta Borghetto, Porta S. Antonio, frequentate da musicanti rapsodici, pescatori, sabbiaioli, boscaioli, cacciatori di selvaggina, carrettieri, fornaciai, venditori ambulanti, le cui attività si svolgevano in prevalenza sulle sponde e sulle acque del Po.

Era anche la S. Agnese delle sagre rionali organizzate e “recitate” da intraprendenti promotori, con l’ausilio corale degli abitanti dei paraggi e di altri sobborghi cittadini.

In via Gregorio X, sorse con il Fascismo il dopolavoro “Michele Bianchi” dove, tra l’altro, si organizzavano gite sociali e varie scampagnate in diverse località della Provincia. Picnic alla “scartassa”, grandi bevute, esibizioni di fantasisti (ne ricorderemo alcuni tra i più famosi), canti corali accompagnati dalla fisarmonica, chitarra e mandolino. “Andare verso il popolo” era il motto del regime che, in fatto di folclore populista, aveva immaginazione totalitaria. Tuttavia le sagre di quartiere non le aveva abolite, ben sapendo che il popolo, oltre al tozzo di pane, ha bisogno di svaghi, secondo il vecchio motto latino “panem et circenses”. Quindi lo lasciava sfogare nei suoi giochi di tradizione, come la cuccagna, la rottura delle pentole, la corsa nei sacchi, il bacio della Taitù, la gara della pastasciutta ecc.

Era inoltre l’epoca in cui agli inni prorompenti nelle adunate di piazza (“Giovinezza”, “Fischia il sasso”), facevano da contrappunto le languide melodie sentimentali di Andrea Bixio: “Così piange Pierrot”, “Lucciole vagabonde”, “La canzone dell’amore”, “parlami d’amore Mariù”, “Portami tante rose”, “Il tango della capinera”, tutte canzoni che, con le romanze d’opera, si intonavano all’osteria.

Sant'Agnesini alla Pietra Parcellara-2

Protagonista assoluto di quelle sagre fu Pirèlu Favari, animatore di tutte le brigate povere e spensierate, prodigioso verseggiatore e rimaiolo di impeccabile, arguta, vena estemporanea, in schietto vernacolo. Peccato che i suoi versi, quasi sempre declinati a memoria, siano svaniti per sempre nel vento delle occasioni festaiole, mai tradotti sulla pagina.

Non c’era sagra, simposio, festeggiamento, convivio di combriccola, riunione di buontemponi, cui non fosse presente. Egli era “il maggiordomo “delle cuccagne erette nelle sagre settembrine. Pare che cominciasse a declamare fin dalla prima giovinezza. Le rime d’occasione gli sbocciavano dal cuore con strabiliante facilità. Da ragazzo si divertiva a lanciare frizzi e motteggi giocosi ai contemporanei. I versi magari erano un po’ zoppicanti nella metrica, ma le rime, le assonanze erano azzeccate. Bastava che gli mettessero uno sgabello sui cui montare ed erigersi sei o setti palmi al di sopra della ressa degli ascoltatori, perché si sentisse padrone dei propri mezzi espressivi.

Dava la stura a spassosissime filastrocche satiriche, a lazzi di umore, a battute di spirito che facevano sbellicare dalle risa amici ed ascoltatori popolani. Nessuno però si offendeva se le sue strofe erano pungenti e caustiche, ben sapendo che lui si prendeva gioco di tutti quelli che gli capitavano a tiro, guardando nello specchio parabolico vizi e difetti del prossimo, con il fustino sferzante della sua inesauribile verve estemporanea. Quando scoppiò la Pertite, Pirèlu fu sepolto sotto un capannone crollato; ne venne liberato dopo ore, subendo diverse lesioni da cui non si riprese mai completamente e dopo un po’ di anni la sua vèrve estemporanea tacque per sempre.

Una delle foto che proponiamo lo ritrae in un’allegra tavolata: è il quarto a sinistra vicino a due signore. La prima è mia zia Augusta, che lavorava nel bottonificio Capra, in via S. Bartolomeo (scomparsa molti anni prima che nascessi); l’altra, vicino a Pirèlu è (me lo confermava sempre mia madre), la signora Teresa, madre del cantante Johnny Dorelli.

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In Sant’Agnese con Pirèlu, poeta delle sagre

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