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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

L’eterna lotta tra burlandòt e sfrosadur

Dopo l’Unità d’Italia vennero istituite alla periferia della città le barriere daziarie controllate dalle pattuglie di burlandòt, arcigni agenti del dazio con caserma in via Cavallotti, dietro la chiesa di S. Savino. Ma c'era chi provava a fregarli...

Dopo l’Unità d’Italia vennero istituite alla periferia della città le barriere daziarie controllate dalle pattuglie di burlandòt, arcigni agenti del dazio con caserma in via Cavallotti, dietro la chiesa di S. Savino. Tutte le zone cittadine sono rigorosamente controllate e ad ogni barriera c’è un corpo di guardia con tre piantoni di servizio.

I burlandòt (da burlanda minestrone di lardo con fagioli neri e grossi pezzi di carota o da burlanda, lunga spada che reggevano al fianco), erano robusti giovanotti il cui compito specifico consisteva nell’impedire che oltre cento tipi di merci e generi alimentari entrassero in città evitando l’imposta daziaria. Ma come si poteva sfuggire a questa tassa se ogni barriera era fornita di poderose, ferree cancellate e tutt’attorno la città era chiusa da alte mura? Bisogna sapere che a quei tempi il dazio (la storia delle tasse si perpetua!) tiranneggiava i contribuenti in maniera spietata. I comuni avevano bisogno di linfa erariale e mantennero le odiate gabelle (tanto vituperate dal Giusti) imposte dalle truppe di occupazione austriaca.

I burlandòt erano dunque indispensabili e pertanto venne da subito formata una brigata daziaria con tanto di comandanti, brigadieri e graduati di truppa. La disciplina era ferrea, il servizio permanente, anche durante la chiusura notturna delle porte, con pattugliamenti e perlustrazioni, con ogni tempo e stagione.

Percepivano la cinquina ad uso militare: 6 lire e 19 cent. ogni cinque giorni. Erano 80 nel 1887 ed aumentarono fino a superare il centinaio. I dazi vennero sostituiti nel 1930 dall’imposta di consumo e quindi cessò questo tipo di attività delle barriere.

Quelli sui generi di consumo erano un tributo odioso, assai impopolare, specie a quelli della campagna per via della carne non daziabile se non rispondeva alle norme dell’igiene. E non essendo daziabile non poteva varcare le cancellate ed essere perciò immessa al pubblico mercato.

Intorno a quella carne, per lo più di cavalli morti di malattia, si tesseva soprattutto la speculazione dei contrabbandieri i quali l’avrebbero acquistata a prezzi irrisori e poi spacciata, dopo trattamenti igienico- sanitari piuttosto empirici e sbrigativi, come carne normale. A quei tempi di carestia permanente ed inedia, non si andava troppo per il sottile pur di riempire la pancia.

Ma come entrare in città se alle barriere c’erano i temibili burlandòt? Ed ecco allora i contrabbandieri specializzati nello “sfrusu” (frodo) attendere la notte e portarsi sotto le mura sulle quali li attendevano i compagni con il sacco e la corda. Se la pattuglia in perlustrazione era vicina, si faceva “la cova”, il nascondiglio tra gli arbusti, ma passata che fosse, si dava via all’operazione, non sempre facile però! Accadeva a volte che i burlandòt ormai smaliziati, fingessero di allontanarsi e poi, all’improvviso, piombavano alle spalle degli sfrosadur (la o vorrebbe la dieresi) che, piantando la merce sul posto, se la davano a gambe levate disperdendosi nel suburbio. Chi veniva invece catturato finiva in guardina a pane ed acqua per qualche giorno, denunciato e multato.

Gli scontri erano sempre motivo di commento tra la popolazione. Dal canto loro i contrabbandieri “timbravano il cartellino” ogni notte, perché di fatto quella era la loro professione, esattamente come quella dei dazieri! Agivano dunque sempre con il favore delle tenebre. Loro campo d’azione erano i bastioni. Muniti di corde ed appositi attrezzi, con l’ausilio di “compari” appostati sotto le mura, tiravano su a forza di braccia capi di bestiame bovino ed equino; la maggior parte di loro proveniva dai ghetti del Coldilana o Porta Galera che dir si voglia.

Nonostante la rigorosa sorveglianza, i contrabbandieri, pure loro esperti, accorti e ben organizzati in gruppi nelle borgate d’entro mura, qualche buon colpo riuscivano a combinarlo. I burlandòt se ne accorgevano all’alba, ispezionando le mura e capivano dalle corde lasciate sui bastioni, d’essere stati beffati. La guardina, il pane e l’acqua erano allora riservati alla pattuglia che aveva prestato servizio quella serata, tranne le ammende amministrative.

La scenografia del rione di Porta Galera “signoreggiata” da bulli spavaldi ed ardimentosi, dalla rissa facile, era assai varia e movimentata. Le loro imprese chiassose e tracotanti mettevano spesso in moto la guarnigione delle guardie regie, la polizia dell’epoca giolittiana, allogata nella caserma della Neve, in zona S. Anna.

Ma dai fermenti dell’illegalità solo raramente erompeva lo spettro della criminalità violenta e sanguinaria. Dietro le imprese della “mala” di Porta dei Ladroni (antica denominazione) c’era, in sottofondo, il dramma crudele della miseria e della fame.

Ebbe dunque Porta Galera il retaggio di una tradizione malfamata che coinvolse tout cour tutta la comunità che era invece composta, in buona parte, da gente proba, onesta, di generosi sentimenti popolari: facchini, carradori, carrettieri, artigiani che vivevano dignitosamente del proprio lavoro, pur nel tumulto delle passioni cagionato dai disagi, dagli stenti, dalle indicibili ristrettezze economiche.

L’eterna lotta tra burlandòt e sfrosadur

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