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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

La “Curtàssa”, fulcro d’azione dello spettacolo contradaiolo di Cantarana

Il copione in Cantarana assegnava agli attori le parti più disparate, senza predilezioni di rango. Come nel caso di “Quattordici”, gigante della contrada: il nome gli veniva dal numero civico...

Il copione in Cantarana assegnava agli attori le parti più disparate, senza predilezioni di rango. Come nel caso di “Quattordici”, gigante della contrada: il nome gli veniva dal numero civico; in più era nato il 14 ed un suo “soggiorno politico” gli riservò la dimora 14 alla “Cà di Tondi”. Di Pipelu, ciabattino di sigla grottesca, si ricordano le gesta donchisciottesche come quando, in occasione della piena del Po nel 1907, voleva fermare l’acqua “con la capèla”, con il fondo del cappello. Se la battuta ha un sapore iperbolico, non per questo toglie spassosa consistenza all’ampollosa figura del “savatèin” che lavorava di sera sfruttando il chiarore del lampione che filtrava nella bottega domestica.

Tra il ghetto e l’agglomerato residenziale “off-limit”, c’era la famosa “Curtàssa”, ossia nell’accezione popolarescamente dilatata, il “cortilaccio”, fulcro d’azione dello spettacolo contradaiolo visto in tinte crude, movimentate, sensazionalistiche. La Curtassa si articolava in due caseggiati: quello esterno, di facciata, e quello interno che sembrava costruito su palafitte, gremito di scalette, ballatoi, pianerottoli con ringhiere di ferro. Erano gli anni Venti ed anche la nostrana “comédie humaine” si aggiornava e trasudava un’aria di ispirazione velleitaria, una vitalità compressa nell’indigenza e nella miseria.Curtassa-2

Nei bui meandri notturni infatti non scintillavano lame di pugnali, non rintronavano spari di pistole, non s’intrecciavano agguati, non folleggiavano “lucciole vagabonde”; tutt’al più echeggiava la voce del giovane Pino Maggi (che diventerà il rinomato “giusta tutto” nel mercato di Piazza Duomo), sotto il firmamento della Curtàassa che, come abbiamo già ribadito, era solo una fitta arnia residenziale, dove abitava un sottoproletariato di stampo ancora ottocentesco, che viveva un po’ di espedienti innocui, di mestieri raccogliticci, senza una precisa etichetta di categoria: rivenduglioli, rigattieri, braccianti stagionali reclutati per costruire canali periferici, come quello detto della Fame.

Lo squallore delle abitazioni non isolava però gli inquilini: la povertà li univa in modo forte, soprattutto nell’alimentazione. I piatti rustici cucinati, quando si poteva, più abbondanti, erano anche per i vicini. Ed i frutti e le verdure se copiose, erano scambiate reciprocamente. Insomma ci si aiutava senza orpelli caritatevoli, perché la povertà cementava la solidarietà. Nel comparto vecchio, formicolante di poveracci, vi erano locali degradati, pavimenti in terra battuta, sprovvisti di luce elettrica. Di servizi igienici decentemente rudimentali, neanche a parlarne. La lucerna a petrolio, se non la candela, era l’arredo comune di illuminazione. Al “cesso” giù nel cortile si andava quando era libero.

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“Ma anche qui - ricordava il giù menzionato Ramelli - in rispettosa promiscuità con il variopinto sottoproletariato, abitavano un fattorino di banca ed un ambulante di buon ruolo mercantile detto “Baldant”, il cui soprannome derivava o dal cognome o dalla prestanza fisica. Vendeva un po’ di tutto: passamaneria, rocchetti di filo, nastri, calze, fazzoletti, penne e pennini, matite. Sia sul mercato di Piazza Duomo che a domicilio.

Accettava di buon grado un bicchiere ed una volta, un po’ “in ciarìna” si lasciò sfuggire qualcosa di compromettente che gli costò ben cinque anni di confino politico. Pare che si trattasse di una battuta allora corrente sulle bocche dell’antifascismo satirico.

Successe che, uscendo dalla “Graziösa”, ritrovo di gente che nei confronti dei “fascinèi” (fascisti) nutriva antica ruggine, gli venne una irresistibile desiderio di urinare e lo fece nel bel mezzo della strada. Terminata la minzione “stradale”, Baldànt disse ad un tale che gli stava vicino ad alta voce in modo tale da poter essere udita da qualcun altro ad una certa distanza: “Qui l’ho fatta e qui la lascio - metà al Duce e metà al Fascio”.

Nella Curtassa, oltre ai già tanti citati anche nelle puntate precedenti, abitava una famiglia- rammentava il Ramelli- la cui figlia esercitava il mestiere più antico del mondo dal più infimo al più alto gradino di classe sociale, nei tuguri e nelle corti principesche. La storia si faceva anche nelle alcove.

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Sappiamo che Piacenza è stata per secoli città di soldati, caserme, presidi e guarnigioni. Tra la fine dell’Ottocento ed il primi del Novecento ce n’erano di tutte le fogge e colori, dai lancieri ai bersaglieri, dagli artiglieri ai genieri, ai fantaccini (i famosi patàn). Negli anni ’30 di fanti ed artiglieri pullulavano le piazze e le strade. Così capitò che una sera uno di loro, di gusti più spicci, anziché andare nei postriboli accoglienti e decorosi (ne abbiamo già scritto sul nostro blog), preferì il giaciglio plebeo di Cantarana, sulle orme di commilitoni che in altre sere lo avevano preceduto.

Come si svolgevano i maneggi adescatori? Il marito della donna dai disponibili costumi attendeva il solito soldatino sulla porta della “Curtàssa” e con ammiccamenti gli indicava il ritrovo di cui andare in cerca. Entrato in casa, il soldatino trovava la donna dei suoi desideri intenta a sbrigare le faccende domestiche. Si contrattava la “marchetta”, mentre il marito, entrato furtivamente dalla porta secondaria, andava a nascondersi sotto il letto.

La donna intanto si prendeva cura del cliente in uniforme, lo aiutava a spogliarsi, deponendo con garbo la giacca sulla spalliera della sedia posta in fondo al letto, quindi iniziavano i riti del piacere erotico. Intanto il marito, sdraiato sotto al letto, allungava la mano togliendo dalla tasca della giacca il portafoglio del cliente, alleggerendolo non del tutto, ma di parte del denaro che vi era contenuto; ciò per non dare la flagrante sensazione al malcapitato di essere stato derubato.

Rimesso il portafoglio nella tasca da cui lo aveva ghermito, il marito da sotto il letto dava un colpetto convenuto nella parte del materasso dove rotondeggiavano i glutei della consorte; questa capiva che l’operazione era finita, quindi doveva terminare anche la sua.

Cosa recita il proverbio? “Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. E’ quello che successe alla “gatta” di Cantarana, con il “lardo” di uno dei soldati di turno. Una sera che lei “la tirava troppo per le lunghe”, o perché ci avesse preso gusto, o perché non avesse avvertito il colpettino di avvertimento, il marito uscì infuriato da sotto il letto e picchiò di santa ragione la moglie al cospetto del soldatino che esterrefatto fuggi dalla casa in mutande , con la divisa sottobraccio.

Fu questo episodio rocambolesco che scoprì gli altarini di quei convegni erotici già chiacchierati, non però sconosciuti nei segreti maneggi furtivi degli abitanti di Cantarana e della Curtàssa.

Dopo anni di abbandono totale, la Curtàssa fu occupata dai magazzini di diversi artigiani; dagli anni Sessanta fino a parte del ’90, il primo piano fu la sede di lavoro di un falegname modellista, mentre nelle stanze a piano terra ha preso sede l'attività storica "la Mesticheria" ovvero un Colorificio, “termine che al signor Gilberto, che ha proseguito l’attività del padre Beppe, pareva troppo riduttivo, avendo ereditato dal padre la passione per i lavori artigianali”. Gli piaceva miscelare (mesticare) i colori tra loro, per crearne di nuovi. Lo attraevano i mobili antichi, anche se vecchi e in cattivo stato; era felice, soprattutto, quando tornavano al loro antico splendore. Creò così “La Mesticheria”, un negozio dove trovare ogni genere di prodotto per il legno e il restauro: le vernici, le laccature, le cere, gli olii e le patine.

“Beppe- commenta la signora Antonella Gioia moglie di Gilberto che ci ha inviato un avvincente ed appassionato resoconto da quando vi si è trasferita con la famiglia e di tutti i lavori di restauro, era molto soddisfatto, perché era affezionato a quel posto ed era felice che suo figlio continuasse a lavorare lì. Vi si respirava aria buona, secondo lui. Aria sana: da galantuomini”. Oggi quindi la Curtassa grazie all’impegno ed alla passione trasfuso dalla famiglia Barabaschi-Gioia nel corso degli anni, è tornata a nuova vita; sarebbe bello che potesse accadere anche per tanti angoli della nostra vecchia Piacenza.

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La “Curtàssa”, fulcro d’azione dello spettacolo contradaiolo di Cantarana

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