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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Quando le mense per indigenti si chiamavano "cucine economiche"

Una di queste mense era ubicata appunto lungo via Borghetto, al pianterreno dell'ex convento cinquecentesco già annesso alla soppressa chiesa di S.Maria del Carmine. Vi si entrava da un ampio portone aperto su un passaggio privato, all'altezza di via Bertè che collega la via con il mercato coperto di Piazza Cittadella

Si chiamarono “economiche” le prime cucine benefiche.

Abbiamo trattato del rione di “giad” ed a questo punto è giocoforza soffermarci ancora un momento in via Borghetto per ricordare una particolare iniziativa filantropica che caratterizzò la nostra città negli ultimi decenni dell’Ottocento fino al primo del Novecento. Successivamente la guerra ed il susseguente avvento del Fascismo che subentrò in qualche modo in questa iniziativa benefica (ammantandola come sempre di martellante propaganda), ne decretarono la scomparsa.

Venivano denominate “cucine economiche”; erano una sorta di mense per indigenti ed erano discretamente numerose nelle borgate più umili e popolaresche della città. Le volle il dott. Luigi Marzolini, valente medico, filantropo, patriota, letterato imitatore della scuola manzoniana, pervaso di umano sentimento verso i diseredati e, probabilmente, seguace di un filantropismo di antica origine illuministica.

Una tendenza sviluppata anche da un certo tipo di socialismo, quello definito “utopico”, per distinguerlo da quello preconizzato da Marx, che si concretizzava attraverso una serie di azioni tendenti ad alleviare le condizioni dei meno abbienti, forse, non si sa quanto consapevolmente, in competizione con le pietistiche iniziative di carattere cattolico.

Una di queste mense era ubicata appunto lungo via Borghetto, al pianterreno dell’ex convento cinquecentesco già annesso alla soppressa chiesa di S.Maria del Carmine. Vi si entrava da un ampio portone aperto su un passaggio privato, all’altezza di via Bertè che collega la via con il mercato coperto di Piazza Cittadella. Ambiente semplice: una stanza per la direzione ed un’altra, più spaziosa, in funzione di cucina ed ampio refettorio.

Qui, accanto a linde tavole con piano di marmo cui venivano posati i piatti con un cucchiaio di stagno, sedevano gli assistiti dopo aver ritirato la loro razione da uno sportello passavivande, servito dai cucinieri con grembiuli e voluminosi berretti bianchi.

Il menu era quanto mai di più semplice si posso supporre, ma serviva a riempire efficacemente lo stomaco: ciotole di minestrone e grossi quadrangoli (quarèi) di polenta tagliati tutti uguali mediante il tradizionale procedimento, ancora in auge fino a non molti decenni fa nelle nostre campagne, del filo calato ben teso sul pastone fumante, appena depositato sul tagliere.

Per ottenere quella “grazia di Dio” i richiedenti si presentavano con regolamentari “marche”, contrassegni del valore di dieci centesimi. Era questa la somma che i benefattori versavano alla direzione delle “cucine economiche” per ogni marca che poi distribuivano ai loro beneficati i quali, se non intendevano godere del tutto gratuitamente della mensa, versavano due soldini che erano in corrispettivo, a prezzo di costo, di quanto mangiavano.

Sebbene il comitato, onde evitare abusi, preferisse che il cibo venisse consumato sul posto, qualora risultassero documentate speciali condizioni di famiglia, erano ammessi prelievi anche in favore di persone rimaste a casa.

Significativo era il caso di qualche operaio che rimasto senza lavoro e con a carico numerosa prole, com’era consuetudine per quei tempi, si presentava ogni giorno d’inverno, con una grande secchia ed un largo paniere nel quale veniva riposta la polenta, complemento della minestra prelevata.

I contribuenti a questa iniziativa benefica non erano pochi: tra tanti si distingueva anche il Vescovo Scalabrini. Ogni lunedì infatti gli indigenti affollavano il cortile interno del Vescovado per ricevere da appositi incaricati, le marche per riscuotere le razioni “mangerecce” della settimana.

Non erano rari i tentativi di ingenua frode: spesso si verificavano scambi di cappelli e tabarri al fine di sorprendere la buona fede dei distributori per ottenere doppia razione, magari da rivendere per acquistare un bicchier di vino all’osteria che avrebbe più degnamente completato il pasto.

Venuto a conoscenza del fatto, il presule preferì lasciar correre “perché - commentò - se in mezzo a tanti postulanti se ne trova uno che ha veramente fame, è meglio ignorare il fatto, per amore di quello realmente bisognoso”.

cucineeconomiche2-2I membri del Comitato non erano in genere ricchi nobili o pie donne che ricorrevano ad una “pelosa” carità per ascendere più rapidamente le vie del cielo; si trattava per lo più di vecchi negozianti, ex dirigenti amministrativi, ufficiali in pensione, gente insomma che per tutta la vita aveva lavorato sodo ed a lungo per assicurarsi un certo agio negli ultimi anni della loro esistenza. Si trattava dunque di una beneficenza un po’ paternalistica, non certo di una maggiore giustizia sociale, ma perlomeno serviva a dare da mangiare a tanta povera gente.

Con il Fascismo, molte di queste iniziative vennero riprese e “istituzionalizzate” specialmente in periodo pre- bellico, soprattutto nel periodo post “quota 90”, quando la rivalutazione della lira fu pagata a caro prezzo dalle classi subalterne a vantaggio della finanza internazionale con il rialzo monetario che determinò una compressione dei salari. La distribuzione del pane e della minestra avveniva tramite i gruppi rionali dislocati in tutte le borgate della città e della provincia. A Piacenza erano il Michele Bianchi prima di via Gregario X°, poi nei pressi di via Benedettine, il Corridoni di via S. Franca, il Casali di via Taverna e l’Arnaldo Mussolini di via S. Marco.

Le “cucine economiche” dunque sono state per tanti anni, anche se in epoche storiche e politiche diverse, lo specchio di una realtà di miseria ed indigenza, di situazioni di estremo disagio affrontate tuttavia dagli uomini e donne del passato con dignità e serenità.

Quando le mense per indigenti si chiamavano "cucine economiche"

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