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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Le osterie della città: vino buono per tutti e il lessico bacchico

Osterie piacentine: in una città di chiese e caserme, pare che fossero oltre cento

Vi voglio proporre stavolta un articolo generale collegato alle osterie piacentine. In una città di chiese, caserme e, appunto, di osterie, pare che fossero oltre cento. Ed in più ne vorrei esporre una curiosità peculiare, ovvero l’utilizzo del lessico bacchico, materia certo più consona ad un filologo che ad un ricercatore di vita popolaresca, ma comunque da indicare, perché molte sono le parole che poi sono diventate parte integrante del nostro dialetto, almeno per ciò che concerne le osterie. Intanto è necessario compiere un piccolo sforzo mentale e ritornare con il pensiero a tanti anni, fa, circa un secolo, in una qualunque via all’interno delle mura cittadine, nelle città dei nostri bisnonni, comunità povere, dove però emergeva con forza il profondo senso di solidarietà sociale che univa gli abitanti delle singole borgate, con una indigenza quasi stoica, ma sempre dignitosa, sovente sopportando la fame perennemente in agguato. Ci si doveva arrangiare in ogni modo: i padri al lavoro, le donne in casa, non solo per accudire ai lavori domestici, ma ad arrotondare le entrate con piccole attività artigianali ed i bambini in giro per le strade (lo immaginate adesso…?), nei campi, sul fiume (le loro fucine di vita), tutti presi nell’abbagliante incanto della giovinezza che faceva apparire bella ed avventurosa, anche un’esistenza di stenti.

I vestiti erano quelli raccattati, i pantaloni già indossati da due o tre fratelli maggiori e rammendati con certosina pazienza dalle madri. Le scarpe si serbavano per le feste. Già dalla mattina presto le strade risuonavano delle ruote dei carri che trasportavano merci, di grida di venditori ambulanti, dei chiacchierii delle comari che “tagliavano i panni addosso” a qualche marito rientrato sbronzo la sera precedente, a qualche coppia di cui avevano udito le urla di un litigio provenire dalle finestre non tempestivamente richiuse, a qualche ragazza che era stata vista amoreggiare con un soldatino, dietro l’angolo. Dal crepuscolo, nelle profumate serate estive, le donne stavano sedute fuori dalla porta a conversare o a giocare alla tombola, i bambini immancabilmente per la strada occupati a rincorrersi e gli uomini puntualmente all’osteria. Ebbene questa gente di fiera, proba, moralità umana e sociale, di proverbiale possanza fisica, di profonda bontà d’animo, rude, dai tratti magari aspri, plebei, un po’ selvatici, aveva eletto come proprio domicilio soprattutto l’osteria. 
Rispetto a questi uomini del passato, noi siamo troppo diversi. Siamo generazioni cresciute nell’ottica del successo a tutti i costi, chiusi nel nostro gretto egoismo, con l’esteriorità come unico metro di misura e giudizio. I nostri bar, le nostre degustazioni, sono lo specchio di questo tipo di vita: un rapido saluto, una consumazione inghiottita velocemente, chiacchiere futili, attenti sempre a misurare le parole. Forse in provincia questo si avverte meno, ma è un processo inarrestabile.

Solo ultimamente si è rivalutato il gusto di certi locali, di quattro chiacchiere tranquille, di un ambiente a misura d’uomo dove trascorrere un po’ di tempo dopo il lavoro.  Forse è perché ci siamo accorti che abbiamo bisogno anche degli altri, intuendo che i valori a lungo perseguiti sono effimeri, vacui, vuoti e che nella vita conta anche l’amicizia, il rispetto, la dignità di se stessi, l’onestà verso gli altri. 
Gli uomini delle borgate, la gente del nostro passato, erano tutto ciò. Certo non bisogna mitizzare eccessivamente: erano persone rudi, sboccate, pronte ad infiammarsi e ad eccitarsi per un nonnulla, con il mito della forza fisica come primo metro di giudizio, ma altrettanto rapido era il riappacificarsi, sopire gli asti e perdonare bevendo insieme, senza sospetto, un bicchiere subito dopo una lite; così come era sempre sollecito accorrere ed arrecare collaborazione, se qualcuno aveva bisogno. Per questo le osterie, luogo di incontro collettivo, quasi seconda abitazione per quei tempi, erano lo specchio, la cartina di tornasole delle caratteristiche etnico- sociali e comportamentali delle borgate cittadine.

Erano rare le osterie nella quali il vino non fosse buono. Era tanta l’attenzione che gli avventori ponevano alla qualità del prodotto, che la nomea di quelle poche dove il vino era cattivo, correva veloce e vi entravano solo gli avventori più squattrinati, quelli proprio “all’ultima spiaggia”. Dunque buon vino ovunque e pigiato direttamente. In ottobre un via vai sterminato di carri recava uve bianche (poche) e soprattutto rosse dalle colline limitrofe (ovviamente in base all’ubicazione geografica delle città e dei paesi) alle porte degli esercizi, e lì, in ampie e capaci bigonce, venivano pestate con i piedi dall’oste e da occasionali aiutanti. Il proprietario teneva così a dimostrare direttamente la qualità e la genuinità del prodotto e dal numero della “grandi navi” in arrivo, si poteva  calcolare approssimativamente la quantità di vino a disposizione dei clienti. 

In quel periodo l’aria di quasi tutte le città e dei borghi si riempiva del gradevolissimo odore del mosto che ribolliva nei tini posti nelle cantine e quando avveniva la svinatura, tutti i clienti volevano essere informati se si trattasse di una buona annata. 
Ci si trovava allora tutti insieme alla sera, nelle umide e nebbiose serate padane, a mangiar castagne cotte sul camino in cui bruciavano le racchie residue della pigiatura con qualche buon pezzo di tronco, e si scacciava il freddo accumulato nelle ossa degustando il vino nuovo di cui l’oste distribuiva assaggi per ottenere il giudizio di coloro che poi l’avrebbero consumato a pagamento.
Dunque “trincare” bene e genuino era in dato di fatto inconfutabile; esisteva a questo proposito tutto un rituale, una gestualità ed un gergo a cui non si sottraeva nessun cliente.

Il lessico bacchico
La particolare considerazione in cui era tenuto il vino ben bevuto, ha avuto riflessi persino nel linguaggio. Il milanese se aveva il consueto verbo “bev” per bere, ne aveva anche uno inconfondibile per affermare che, bere vino sul serio, è “cannà”, che significa bere alla canna, con felicità quasi ingorda. Dal verbo viene il sostantivo “cannada”, per bevuta solenne, che quasi fa epoca! 
Orgogliosamente uno del popolo poteva asserire:”G’ho piccà una cannada! Tracannat è l’ost e baccanitt l’osteria”, come luogo ove può farsi baccano, forse perché vi impera Bacco. Da “ciocca”, verbo onomatopeico che ricorda l’allegro suono del bicchiere toccato nel brindisi, viene “cioccòn”, amante del “ciocc”, ubriaco. Tutto questo aveva particolare ragione e sapore quando a Milano c’era, come diceva il Porta,:” el vin nostran de trincaa, col coeur largh e a memoria”.

Un lessico dunque quasi criptico, ben compreso solo dai frequentatori, ma molto efficace e che potrebbe rappresentare la felicità di un filologo. Ettore De Giovanni, studioso di storia locale molti anni fa predispose un gustoso elenco di questi termini.
Poiché il vino era a buon mercato e le gole più che capaci, come sempre, alla richiesta dell’oste per il consumo, alcuni smargiassi, per celia, quasi che fossero provvisti di copiosa moneta, dicevano:”portane una baga” (un otre), una “brenta” (75,7 litri), una “brintina” (50 litri). Più seriamente e più…moderati, chiedevano anche un “boccale”, ovvero un vaso panciuto, dalla larga bocca, con manico, piede e labbro rovesciato, una “pinta”(due boccali), un “bottiglione”, o un “pistone” (circa due litri), un “litrone”, ovvero un litro, ma enfatizzato dall’accrescitivo.

Le parole riferite erano usate quando la compagnia era di quattro o più persone.  Se di meno, l’individuo o i due, ordinavano un “mezzo”, ma se uno era solo ed a corto di quattrini, chiedeva “un quarto”, difficilmente “un quinto”, perché questo faceva capire, senza ombra di dubbio, che il poveraccio stava male a danari o perlomeno era tirchio, più che parsimonioso; inoltre, in realtà, la misura era atta più a stimolare la voglia di bere, che in qualche modo a calmarla, molto meno a soddisfarla.

Era noto anche il termine “bottiglia” (da imbottigliare) che si usava specialmente nei giorni di festa o… per distinguersi dagli altri. Tutti, quasi sempre, nella richiesta aggiungevano che il vino fosse “d’la ciavòta” (come se il vino buono fosse messo o stesse sotto chiave) o che fosse “galantuomo”, parafrasando il celebre detto di Lorenzo Tramaglino nei Promessi Sposi.

Altri termini: “un fiasco”, una “scalfòta” (da excale facere, riscaldare), una “caraffa” (dall’arabo Kera), un “calice” (termine preso a prestito da quello d’oro e d’argento usato dai sacerdoti nella Messa), un “bicchiere” (da bacar, tazza). imbottigliare-2

Anche i modi di dire, come i proverbi, erano efficacissimi nel rendere l’eccesso di vino. Per esempio, per chi aveva bevuto in modo ancora accettabile, si giudicava come  a “mezza lama”, oppure “che è brillo, chiarito”, volendo alludere, con questo ultimo detto, che gli occhi si facevano più lucidi, chiari, luminosi, oppure che è “in cimbali” (parola presa a prestito da un salmo ebraico, in cimbali bene sonantibus), e cioè canta, è più allegro del solito.

Anche per l’ubriacatura completa, non mancavano i giusti e lapidari riferimenti: ”sbornia” (dal latino volgare ebrionia), “sbronza” (da un’arcaica voce italiana, cioè bronza, ossia calore intenso); poi si utilizzava “scimmia” perché gli atteggiamenti erano ridicoli, bertucceschi. 

Ed ancora “gaina”(da gai, provenzale, per gaiezza smodata), “scuffia” (latino volgare cofea), quasi che una reale cuffia celasse la personalità dell’ubriaco. 

Va ricordato poi “ciucca” (da cioncare, tedesco schenke, osteria o da succhiare), quindi “cotta” (dal latino coctus, cuocere) ed infine (ci si perdoni il termine) “cagona”, per gli effetti lassativi conseguenti, a volte, ad un eccesso di vino.

Le osterie della città: vino buono per tutti e il lessico bacchico

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