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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Molini degli Orti: un mondo semplice e laborioso (2° parte)

Gli abitanti dei Molini degli Orti differivano in parte da quelli delle borgate ubicate entro le mura della città. Non conoscevano quell’ostica chiusura, quell’atavica diffidenza che contraddistingueva i rioni piacentini verso tutto ciò che non facesse direttamente parte del loro peculiare mondo

Gli abitanti dei Molini degli Orti (preferisco utilizzare molino che mulino) differivano in parte da quelli delle borgate ubicate entro le mura della città. Non conoscevano quell’ostica chiusura, quell’atavica diffidenza che contraddistingueva i rioni piacentini verso tutto ciò che non facesse direttamente parte del loro peculiare mondo.

A determinare un carattere più aperto, più incline al dialogo ed alla disponibilità, era stata senza dubbio la posizione di sobborgo, quasi un corpo estraneo alla specifica vita popolaresca piacentina, anche se molti degli abitanti del centro storico e di alcune borgate periferiche si recavano a lavorare proprio in quella zona. Il carattere tipicamente commerciale ed imprenditoriale aveva accentuato i contatti, gli scambi, favorendo lo sviluppo di una mentalità più disponibile verso gli estranei. Tuttavia anche via Colombo, Respighi, Trento, Trieste, avevano i “loro personaggi”, le loro “macchiette”, le osterie, i locali, insomma tutto ciò che formava quella cornice coreografica degli altri rioni della città.

Uno degli esercizi più affollati era quello di “Cichèi” Chiappa all’angolo con via Respighi, dove fu per decenni la panetteria Groppi. La presenza di una stalla e soprattutto la decantata produzione di picula ‘d caval ne sancì immediatamente il successo. Era frequentata soprattutto da carrettieri e facchini impegnati al Consorzio o al Mercato Ortofrutticolo. Alla fine della grande strada, sulla sinistra, la trattoria “La stella” condotta dall’oste soprannominato “Tramlèi”. Sorgeva proprio di fronte ad un altro locale divenuto famoso qualche anno dopo, quello della Nèta. Si chiamava ristorante “Giardino” ma tutti lo conoscevano dal nome della proprietaria che dopo la morte del marito Samèi e del figlio Giovanni era rimasta sola (con alcune inservienti) a gestire la locanda. La trattoria, emblema dei tempi che ormai mutavano, era frequentata soprattutto dai camionisti che avevano cominciato a sostituire con i loro grandi automezzi, i vetusti carri da trasporto..

Completavano il quadro l’Osteria Dil tre pècch (tre gradini) gestita  dal Rèmu con il fratello e la mescita di Canèla che funzionava anche come rivendita e spaccio. Si trovava dove sorge adesso il condominio Colombo ed il bar Edera (oggi con altro nome), proprio alle soglie delle cancellate daziarie. Infatti vi si recavano a comperare il vino anche molti abitanti di Porta Galera. Un fiasco non pagava dazio, costava solo una lira e ottanta centesimi ed in omaggio c’era sempre per i bambini una caramella di panna del dott. Parenti di Caorso.

Nelle vie limitrofe altri grandi caseggiati ed in questo scenario molti i protagonisti: Piròn falegname ed bottaio, Cichèla simpatico scansafatiche che coerente seguace della “filosofia” del ciàpa chè, ciàpa là, integrava i soldi per il companatico con mille piccoli servigi ai numerosi artigiani della zona; ed ancora Sisrèi, un vagabondo che voleva imitare Icaro a tutti i costi. La sua unica aspirazione, raccontavano, era volare, fare il paracadutista e morì…cadendo da una cascina di via Trento dove si era rifugiato per dormire.

Questa strada, oltre che dai numerosi stallatici, era caratterizzata da due enormi caseggiati, uno chiamato Casermone, l’altro detto Casa Roncaglia dal nome dei proprietari. Questi due vastissimi stabili, oltre che abitazioni per le numerose famiglie che vi risiedevano, erano sede di piccole attività artigianali ed imprenditoriali. E’ quindi facile immaginare la “Babele” di suoni, voci, urla che contrassegnavano la vita di questi mastodontici edifici, i panni stesi ad asciugare, il crocchio serale delle donne a spettegolare o a giocare a tombola o alle carte.

Indubbiamente era una convivenza difficile, contraddistinta però anche qui, come in molti rioni entromura, da una profonda solidarietà umana tra le famiglie confinanti, pronte ad aiutarsi, a consolarsi quando una difficoltà economica, un lutto o una malattie colpiva qualche coinquilino.

Non mancavano le baruffe, le bonarie rivalità che si ricomponevano rapidamente attraverso le mediazioni dei più “influenti” e la pace tornava nel caseggiato.

Una “tranche de vie” di naturalistica memoria, pittoresca, composita, resa a volte addirittura folclorica per la presenza contemporanea di diverse regioni italiane.

E’ il caso del caseggiato di proprietà dei Roncaglia: accanto a famiglie “del sasso” come i Sartori, gli Andreoni, i Cristalli, i Cammi, i Cervi, i Corti, convivevano gli Schena, “scranèr”, impagliatori di sedie prevenienti dal Cadore, come pure Dal Col, fabbricante di gelati “Cadorina” venduti per la città con i classici carrettini bianchi. molinibis3viaTrento-2

Gli Schena, ricordavano i vecchi abitanti, avevano l’abitudine alla domenica, di intonare canti pieni di nostalgia per le loro montagne, nel cortile, seguiti in religioso silenzio dagli altri inquilini. Non mancava una rappresentanza illustre e laboriosa della Puglia: gli Amendolara fabbricanti di caciotte e provoloni, originari di Gravina in provincia di Bari. Il loro caseificio dava lavoro a diverse persone.

“Macchietta” di casa Roncaglia era Riboni. Ottimo intarsiatore di mobili, non faceva mai mancare la battuta estrosa, il frizzo salace all’indirizzo del malcapitato di turno.

L’altro “alveare” di via Trento era il “casermone” al n°21. Meno composita la provenienza regionale delle famiglie, quasi tutte della città. Proprietari erano i falegnami Merli. Al pianterreno abitava il popolarissimo straccivendolo “Zèti”, originario di Borghetto ed i Ghittoni che riparavano macchine agricole. Vi risiedevano inoltre i Pellini, gli Schiavi, I Mutti, i Nicelli, I Dalmanto, I Bardetti, i Venturati.

Non possiamo dimenticare un cenno alle case popolari, quasi al termine di via Colombo, dominate negli anni ’50 dalla figura dell’on. Clocchiatti che qui risiedeva.

I Molini degli Orti era una zona atipica dalle altre borgate, sia per dinamismo commerciale, sia per una maggiore socialità. Tuttavia anche gli abitanti di questa zona (come per tutti i rioni della città) avevano tradizionali avversari con i quali scambiare pugni, sassaiole ed altre “amenità” di rito contradaiolo. Erano gli abitanti della “Baia del Re”, l’attuale Farnesiana. Confini rigidamente separati, odio atavico perpetuato di generazione in generazione, scontri a ripetizione, fughe e la promessa di ritrovarsi alla prima occasione.

Oggi tutto è svanito. E’ svanita per sempre la poesia di quello che sembrava un pittoresco villaggio fiammingo; rimane la realtà di un “ex sobborgo” basato sul lavoro e sul progresso, ritmo quasi scandito da tutti gli automezzi che vi transitano incessantemente a tutte le ore. E per fortuna che oggi c’è da pochi anni in funzione una “mini- circonvallazione” (Cavalcaferrovia) che devia altrove il traffico pesante.

Molini degli Orti: un mondo semplice e laborioso (2° parte)

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