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Venerdì, 19 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

“Pasquèi”, l’indiscusso re della “picula ‘d caval”

La storia dell'oste Pasquale Marchetti figura emblematica nella memoria di molte generazioni passate di piacentini, uomo singolare, con alcuni innocenti tratti di eccentricità

Tralasciamo subito ogni possibile diatriba sulla liceità dell’utilizzo della carne di cavallo per l’alimentazione: non è l’ambito di questo blog che non può ospitare un  contenzioso tra vegetariani, vegani, crudisti ed affezionati della bistecca e del bollito. Sta di fatto che a Piacenza la “picula ‘d caval” era (ed è) un piatto storico, entrato nelle abitudini alimentari locali; qualcuno ha ipotizzato, anche se è molto complesso trovarne oggettivi riscontri storiografici, che l’uso di questa carne di cavallo fu introdotta dai reduci delle campagne napoleoniche in Russia che se ne cibarono durante la disastrosa ritirata. Fattore sicuro e certo per lo sviluppo del consumo, è invece il fatto che, essendo Piacenza da sempre un importante avamposto militare, questi animali erano facilmente reperibili.

Né qui si disserterà sulla preparazione: alcuni puristi vorrebbero il macinato solo saltato in padella, alla maniera antica, con un po’ d’olio (o strutto, utilizzato molti decenni orsono) ed uno spicchio di aglio schiacciato; quindi senza pomodoro e peperoni ed una cottura molto meno prolungata. Noi tratteremo invece di quello che, per antonomasia, fu il “genius loci” di questo piatto, ovvero la trattoria di “Pasquèi” che, nella sua ultima collocazione, era ubicata all’angolo tra via Cittadella e via Borghetto.

Il “precursore” della “dinastia” fu l’oste Pasquale Marchetti figura emblematica nella memoria di molte generazioni passate di piacentini, uomo singolare, con alcuni innocenti tratti di eccentricità.

Nei ricordi del nipote Carlo che gli succedette nella gestione della trattoria, era di statura al di sopra della media, corpulento e con una totale calvizie che lo angustiava, tanto che la occultava sotto un berrettino scuro a visiera di vernice sempre lucida.

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La sua prima attività la avviò in un locale di rione S. Anna che, a quell’epoca, si chiamava S. Salvatore, nelle vicinanze del macello comunale. Da subito, il suo piatto forte, la sua proclamata specialità casereccia, fu il “cavallo in umido”, ossia la carne equina tritata e passata nella padella di rame, con sugo di pomodoro, aromi e la giusta  dose di peperone. Altri piatti di richiamo erano lo “stufato alla Pasquina”, i salsicciotti allo spiedo (nella stagione autunno-inverno), cotechini in umido con patate o polenta, e i supèi, ovvero ristretti di brodo delizia ristoratrice per forti bevitori serviti nelle canoniche ore della mattinata.

La sua modesta trattoria aperta alla buona, senza pretese, alla stregua di altre che pure costellavano la grande borgata attorno a S.Anna e le zone gravitanti l’antica barriera S. Lazzaro, riuscì a “sfondare” in breve tempo. La gente, trovandosi da Pasquèi quasi meglio che a casa propria, soprattutto per i prezzi alla portata di tutte le tasche per piatti genuini e sapidi, non tardò a farne un punto di riferimento abituale. Inoltre quella figura di oste da oleografia popolaresca, alla mano, gioviale ed alacre, mai ombroso o scorbutico, sempre di buon umore, piacque subito agli avventori di tutte le contrade vicine e lontane.

La piccola trattoria divenne inadatta agli accresciuti numeri e così decise di trasferirla a S. Antonio seguito dalla fedele clientela, ma in quella località fuori barriera, ad oltre un chilometro dalla cancellata daziaria, Pasquèi si trovò spaesato, avulso dal cuore pulsante del vecchio centro e ben presto vi rientrò ed aprì una grande trattoria nell’attuale largo Matteotti, quasi dirimpetto al vecchio mercato coperto demolito nel primissimo dopoguerra. E lì riprese, tornando a primeggiare con il suo blasone di cucina tipica, la picùla ad caval. Decine e decine di kg di carne equina furono ammanniti tutti i giorni, mentre in quelli di mercato e soprattutto il sabato, ma pure alla domenica, si superava di gran lunga il quintale.

In quell’epoca di prevalente economia e cultura agricola, non era la città che andava alla campagna, ma viceversa; gli agricoltori e le popolazioni del contado calavano a Piacenza servendosi dei mezzi di trasporto allora in auge, sia per affari e contrattazioni, per acquisti, ma anche per svago e diporto.

Alle 9 l’afflusso era già totale, fiumane di portate si riversavano sui tavoli. Si servivano porzioni di cavallo in umido classificate “mezze e “piccine”, “picùle” appunto. Con 35 centesimi si poteva consumare una picùla, un supèi (brodo ristretto), pane, un quartino di vino bianco o, quasi sempre, rosso.

Quando però il locale raggiunse l’apice del successo, l’oste, infaticabile lavoratore, ma pure saggio individuo che aveva sviluppato una concezione bontempona e godareccia della vita, decise che il lavoro non doveva divenire predominante su tutto e quindi decise di porre drastici limiti all’attività. Scoccato mezzogiorno, interrompeva il servizio, invitava la clientela a “levare le tende” e chiudeva, trascorrendo il resto della giornata in santa pace, spassandosela con gli amici all’Isola dei pescatori dove era solito recarsi per giocare a carte e a bocce, fare abbondanti merende con pesce pregiato del Po, soprattutto storione (ne tratteremo ndr.) ed anguilla.

Un giorno però, mentre si trovava nel locale fu colto da un improvviso malore; cercò di salire la scala dell’abitazione per mettersi a letto, ma cadde. Di lì a poco morì. Era l’estate del 1918 ed aveva compiuto da poco 55 anni. Fu un colpo apoplettico causato probabilmente anche da un regime dietetico non propriamente morigerato. Ma allora questa era la prassi.

Dopo la sua scomparsa, l’eredità dell’esercizio venne assunta dal nipote Carlo, ex garzunèi, ma ormai esperto di fornelli e piatti nostrani. Eredità impegnativa poi interrotta dalla guerra, con la trattoria dello zio che chiuse i battenti. Al suo ritorno la riaprì in via Cittadella, all’angolo con vicolo Serafini, riprendendo a cucinare “cavallo in umido” secondo la ricetta casalinga del predecessore e la vecchia (e nuova) clientela tornò a riaffluire nel locale e vi si mantenne fedele anche quando la trattoria si trasferì negli spazi più funzionali dove rimase fino alla chiusura, sempre in via Cittadella ma all’angolo con via Borghetto. E stavolta senza chiusure pomeridiane, perennemente affollata di gente che fluiva lì (o da Vulpèi) se voleva gustarsi questo tipico piatto piacentino.

Nella foto, nel locale affollato, si nota alla cassa il titolare signor Carlo ed anche il mandolinista Iselli, altra figura itinerante di quella vecchia e cara Piacenza, lì per allietare con la sua musica gli avventori.

“Pasquèi”, l’indiscusso re della “picula ‘d caval”

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