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Venerdì, 19 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Porta Galera e dintorni: il tratto tra via Roma e Santa Maria

Porta Galera, l’abbiamo detto, sopravviveva nella sua stessa anomalia sociologica. Era un rione a sé, con una inconfondibile fisionomia umana, anche per la variopinta schiera di macchiette vernacole che popolavano vicoli e cantoni

È assolutamente gratificante incontrare persone che mi fermano e mi ringraziano per questo blog e nel contempo mi suggeriscono di non trascurare questo o quel personaggio. Giova perciò ricordare che le nostre ricognizioni sociologiche vanno dal 1920 (circa) ai primi anni ’50 e perciò di tanti aspetti non si tratta. Occorrerebbe scrivere un’altra corposa e ponderosa puntata della Piacenza popolaresca delle vecchie borgate che arrivi agli anni Sessanta, ma si tratta di un’impresa davvero ardua, sia per la complessità della ricerca, come per l’accresciuto corredo iconografico che ciò comporterebbe. Ciò premesso, proseguiamo il nostro vagabondaggio per Porta Galera e scusateci se non procediamo lineari lungo le vie, compiendo qualche “digressione” tra vicoli e cantoni.

Anzitutto ricordiamo che di fronte a via Pozzo c’era un’altra pasticceria, quella di Rizzi (oltre alle già menzionate Botti e Piccoli) e poco dopo, il negozio di ricambi per auto e camion di Postiglioni, il primo ad occuparsi di questa attività.

Giunti a questa tappa del nostro itinerario ricognitivo può essere opportuna una precisazione di carattere socio-economico, rilevando che le condizioni di vita del tratto grosso modo delimitabile fra l’antica osteria Dal Lèinsi, un po’ oltre cantone del Pozzo e Piazzetta S. Maria, zona di confluenza tra via Cavallotti (Roma) e via Alberoni (strada di Sotto), risultassero in un certo senso più agiate rispetto a quelle di altri tratti della popolosa arteria, almeno nel periodo successivo alla crisi finanziaria degli anni ’30 (di cui tratteremo). galera6-2

I suoi abitanti non erano certo dei benestanti, ma non erano nemmeno più alle prese con i problemi della sopravvivenza, con il minimo vitale quotidiano, come invece quelli della fascia entromura il cui epicentro demografico e del sottosviluppo economico restava sempre il “Coldilana” ed il suo retroterra (cantone delle Stalle, cantone del Pozzo), anche dopo la demolizione dei bastioni, l’abbattimento dei vecchi agglomerati edilizi sulla cui area sorse il complesso delle case popolari pianificato secondo strutture e funzioni di quartiere.

Placati e sopiti gli antagonismi, le rivalità di secolare radice etnica, una nuova e più aperta mentalità caratterizzò i rapporti fra le comunità delle borgate precedentemente chiuse ed arroccate nel loro fiero, orgoglioso isolamento. Quelli di Porta Galera si riappacificarono con quelli di S. Agnese, ritrovando un denominatore comune di fratellanza popolaresca, organizzando scampagnate, simposi d’osteria, amichevoli riunioni conviviali nelle ricorrenze delle rispettive sagre, gite rionali, festeggiamenti carnevaleschi, incontri nei rinomati locali danzanti quali il “Corridoni”, il “Michele Bianchi”, il “Sandro Casali”.

Porta Galera, l’abbiamo detto, sopravviveva nella sua stessa anomalia sociologica; era un rione a sé, con una inconfondibile fisionomia umana, anche per la variopinta schiera di macchiette vernacole che popolavano vicoli e cantoni. E non si andava d’amore e d’accordo; ai gesti di quotidiano filantropismo tra poveri, si alternavano antagonismi connessi alla spietata lotta per la vita: baruffe d’osteria, litigi di contrade scoppiavano tra una fazione e l’altra, all’insegna delle antiche faide feudali. Le spie pagavano spesso conti salati: botte da orbi, ostracismo, vendette per avere infranto i codici dell’omertà rionale.

Ed è per questo che non c’era titolo più dispregiativo per un sottoproletario di infimo rango (pòsgatt o sùpton) che quello di essere qualificato come spia. Lo stesso Ciòti andava su tutte le furie quando gli si gridava alle spalle un epiteto così infamante. La sassaiola era un rito tra un rione ed un altro; un’irriducibile rivalità sussisteva tra quelli di Porta Galera e quelli di via Gaspare Landi.

via Pozzo bombardata-2La giungla antropologica di Porta Galera in età giolittiana, arroccata nei gangli residenziali dei vicini rioni di S. Anna, cantone del Pozzo, cantone Mignone, cantone della Neve (con la sua caserma, oggi Politecnico, che nel primissimo dopoguerra accolse tanti sfollati), cantone Sansone, Guastafredda, chiostri del Duomo, erano ricettacolo di gangs giovanili che poi il fascismo spazzò via ed organizzò nei suoi apparati di base le masse popolari, con le sedi dei Dopolavoro dove confluivano le varie categorie lavoratrici.

Di Gigiòn Bori decano dei masalèi di via Scalabrini tratteremo, ma ora riserviamo un piccolo tassello per il lattoniere Savinelli a me carissimo perché mi prese con rustico affetto tante volte in braccio, mentre piccolissimo lo osservavo lavorare nella sua bottega sempre aperta sulla strada di cantone della Neve, verso via Roma, dove ho abitato con la mia famiglia fino a sette anni.

Più che una bottega, era un guscio. Savinelli era uno dei tanti umili artigiani che consumarono un’intera esistenza nella minuta, talvolta interminabile operosità quotidiana. Era succeduto al padre che tra la fine dell’800 ed i primi del ‘900, gestiva una bottega di ramaiolo o magnàn, come lo si definiva in senso più esteso nella comune dizione dialettale. savinelli porta galera-2

Un mestiere quello già in fase di decadenza negli ultimi anni ’50 che Savinelli, da provetto artigiano qual’era, riuscì ad aggiornare trasformandolo in quello tutt’ora in auge di lattoniere, essendo anche ottimo stagnaio i cui interventi nel settore degli utensili casalinghi, dei manufatti di metallurgia leggera, sussidiaria e domestica, conservava , in molti casi, una propria utilità fino a che la civiltà dei consumi ha spazzato via la consuetudine del riuso.

Aveva cominciato a lavorare, come si usava a quei tempi, appena tredicenne, al servizio di una clientela  dalle spicciole, disparate esigenze. L’apprendistato lo fece nella rinomata bottega del ramaio-magnano Marigliani in cantone de’ Calzolai. Nel 1912, quando partì soldato, lo destinarono in aeronautica in qualità di lattoniere, poiché i velivoli dell’epoca, ancora allo stadio di sperimentazione pionieristica, erano di produzione partigianesca e non industriale nell’accezione che oggi si dà a tale termine produttivo in dimensione tecnologica.

Ben nove anni di servizio militare non impedirono a Savinelli di elaborare, appena congedato, un suo programma di lavoro da gestire in proprio. Non fu di facile realizzazione: erano tempi grami, rischiosi per molte iniziative autonome, indipendenti. Soltanto nel 1927 quando l’economia cittadina registrò un notevole sviluppo in tutti i settori, il “Vulcano” di cantone della Neve riuscì ad impiantare quel piccolo guscio di bottega dal quale non si mosse più per oltre 40 anni.

Sotto l’aspetto fisico non aveva proprio nulla di estrosamente pittoresco, eppure quella sua patriarcale figura umana, soffusa di candida bonarietà popolare, riusciva ad attrarre l’attenzione e l’interesse dei passanti anche i più frettolosi ed un saluto garbato, una rapida chiacchiera mentre lavorava non la negava a nessuno. Un uomo buono, un grande lavoratore come tanti nella Piacenza che fu.

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Porta Galera e dintorni: il tratto tra via Roma e Santa Maria

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