rotate-mobile
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Quando Piacenza mangiava alle porte delle caserme

La povertà dopo la Prima Guerra Mondiale: in caso di bisogno sussisteva sempre quella straordinaria coesione sociale, quell’incredibile, reciproco aiuto che contraddistingueva la vita delle borgate piacentine, quella solidarietà “porta a porta” che fece coniare  l’antico detto “par la sal a gh’è i visèi”

La bulimia e l’anoressia sono due atteggiamenti comportamentali anomali legati all’alimentazione che in questi ultimi anni hanno suscitato parecchio allarme presso l’opinione pubblica perché sono generalmente tipici negli adolescenti, soprattutto le ragazze. Sono disturbi che nascono da situazioni psicologiche di disagio le cui cause vanno quindi ricercate nel profondo della psiche. Giunte ad un certo stadio diventano vere e proprie malattie, soprattutto l’anoressia, difficilmente curabili.

Simili problemi alimentari molti anni fa erano inimmaginabili, semmai gli anoressici lo diventavano contro la loro volontà; non si parlava neppure di malattie legate ad un’alimentazione troppo ricca, soprattutto in zuccheri e lipidi saturi, spesso associati  ad erronei stili di vita, soprattutto fumo, eccesso di bevande alcoliche, sedentarietà.

Semmai fino a cinquant’anni fa i problemi legati al cibo erano all’opposto: era una carenza di alimenti, di sostanze indispensabili alla crescita, insomma la malnutrizione, a mietere vittime, addirittura a decimare, in particolari periodi ancora più lontani nel tempo, i bambini.

Il freddo, la fame, erano due componenti con cui convivevano milioni di persone per tutta l’esistenza ed i sopravvissuti potevano a buona ragione divenire la dimostrazione vivente delle teorie darwiniane della selezione della specie.

Tanti anni fa, anche a Piacenza, soprattutto alla fine della Prima Guerra Mondiale, la città visse il grave problema, come nel resto dell’Europa, della riconversione industriale.

I reduci erano tornati ma non c’era lavoro, e le donne che sovente avevano sostituito i mariti nelle fabbriche, erano ora disperatamente impegnate solo a sfamare i propri figli; la pellagra, lo scorbuto erano una convivenza quotidiana e poi giunse anche la “Spagnola”, la perniciosa epidemia influenzale a spopolare ulteriormente le città.

In questa situazione di disperazione, di fame, che riportava di moda le ataviche, cicliche, endemiche carestie che avevano contraddistinto la storia dei progenitori, scattava prepotente l’istinto di conservazione, la legge della sopravvivenza, quel dettame che se occorresse oggi, troverebbe generazioni completamente impreparate e soprattutto un ambiente non più idoneo. Allora gli orti, come nel medioevo, fornivano uno schermo importante alla fame, Polenta e baccalà, per l’inverno, minestroni a iosa per primavera ed estate, il pane, erano il menù quasi fisso per la grande maggioranza delle famiglie; in caso di bisogno sussisteva sempre quella straordinaria coesione sociale, quell’incredibile, reciproco aiuto che contraddistingueva la vita delle borgate piacentine, quella solidarietà “porta a porta” che fece coniare  l’antico detto “par la sal a gh’è i visèi”.

Tanti negozi vendevano a credito, pur sapendo che avrebbero incassato con molto ritardo, forse mai. C’era però il grande fiume con tutta la sua abbondanza ittica a sostentare tanta gente.

Non mancava la beneficenza, da quella dei conventi, a quella tutta laica delle cucine economiche, istituzioni scaturite da un filantropismo sociale di stampo sette- ottocentesco che ammanniva ciotole di minestrone e “quarèi” di polenta; ce n’era uno  in via Bertè, in quella via che collega via Borghetto con Piazza Cittadella.

Accanto a questi rifugi per stomaci indigenti bisogna aggiungere… le caserme, numerose a Piacenza in proporzione, quanto le chiese e le osterie, dove il vino venduto a poco prezzo diventava un pericoloso distributore di calorie, soprattutto d’inverno, e determinava, in particolar modo, nelle classi più povere, notevoli problemi di alcolismo.

Presso le caserme (il 22° fanteria di via Castello, il 21 artiglieria da campagna sullo Stradone Farnese, il Genio Pontieri in via S. Sisto e Piazza Cittadella, presso l’Ospedale militare a Porta S. Raimondo) appena terminato il rancio dei soldati, si aprivano le porte secondarie e dalle cucine, miracolo quotidiano, sortiva la grande marmitta con i resti del rancio (sempre ottimo e soprattutto abbondante!) che veniva distribuito alla gente in fila con qualche pagnotta. Nessuno si vergognava per quell’elemosina, la fame era troppa.

Questa situazione (secondo i più classici dettami vichiani) si ripeté puntualmente durante la seconda guerra mondiale e subito dopo, nel ’45, quando tante famiglie dai rioni più popolari, Borghetto, S. Agnese ecc, mandavano soprattutto donne e bambini alle porte di quelle stesse caserme che trent’anni prima avevano sfamato i loro padri. Come allora le latte di conserva con i manici di filo di ferro accoglievano la brodaglia ormai tiepida o i “famigerati suflòn”, la pastasciutta avanzata dai soldati, una vera e propria manna per tante “locuste” affamate. Fino a non molti anni fa, tanti anziani che erano scampati alla fame grazie a questa silenziosa e discreta solidarietà, si vergognavano un po’ a raccontare del cibo ricevuto ma poi, per fortuna, i tempi erano mutati.

Eppure se ricordassimo anche con affetto tanti episodi legati alle nostre radici, forse ripristineremmo un po’ di quell’eroica solidarietà sociale, e forse dentro di noi saremmo meno aridi e ritroveremmo un po’ di quell’humus che rese umanamente grandi tanti nostri progenitori, quella gente di borgata di cui dovremmo essere invece orgogliosi di discendere; questo senza misconoscerne le virtù, ma anche vizi ed erronei atteggiamenti di vita.

Quando Piacenza mangiava alle porte delle caserme

IlPiacenza è in caricamento