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Giovedì, 18 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

“Rabisòn”, strillone cieco e un po’ impudico

Torniamo sulla nostra “panoramica” nella Piacenza che fu (ahimè nel senso letterale del termine), con una bella “pennellata di colore”, per ravvivare i tenui colori dell’imminente autunno, ricordando una “macchietta” tra le tante che popolavano il proscenio delle borgate cittadine, quel “teatro-strada” della Piacenza popolaresca

Torniamo sulla nostra “panoramica” nella Piacenza che fu (ahimè nel senso letterale del termine), con una bella “pennellata di colore”, per ravvivare i tenui colori dell’imminente autunno, ricordando una “macchietta” tra le tante che popolavano il proscenio delle borgate cittadine, quel “teatro-strada” della Piacenza popolaresca. Non era certo noto come Ciotti o Lòlu ‘d Torzèla presso le vecchie generazioni, ma comunque era molto conosciuto: si trattava di “Rabisòn”, un giornalaio ambulante cieco che “strillonava” impudicizie. Ovvero, e lo chiariamo per le giovani generazioni, diffondeva gridando le notizie più interessanti dei giornali quotidiani per venderli, ma, come vedremo, “condendole” sovente con contenuti “sessisti”.

Un’ indispensabile premessa su cui già abbiamo insistito a proposito di altre “macchiette”: per comprendere l’essenza e la situazione di questo personaggio del quale daremo una descrizione, è assolutamente necessario che per queste letture si debbano mettere da parte gli attuali stereotipi sociali, sensibilità e costumi morali, limitandoci a prendere atto di situazioni quali si sono verificate a Piacenza circa (a spanne) 70/80 anni fa e quindi in un contesto socio-culturale completamente differente dall’attuale.

Per questi motivi, quelle che oggi potremmo considerare dileggio, cattiveria o menefreghismo, sono categorie che non hanno alcun riscontro per quel periodo nel quale il modo di concepire l’esistenza era del tutto diverso e dove il fattore fondamentale era una sorta di seppur spietata legge della sopravvivenza, unita ad una quasi primitiva solidarietà di vicinato.

Ciò doverosamente premesso, ricordiamoci che nelle borgate piacentine, fino alla fine degli anni ’50, ci sono sempre stati, come Ciotti, Lòlu o appunto Rabisòn, questi giullari di reminiscenza medieval- cortigiana; era il popolo stesso che li creava per un proprio spasso evasivo, quasi imitando il trastullo dei principi che potevano permettersi il loro buffone di corte.

Diciamo subito che per Alessandro Rabizzoni detto appunto “Rabisòn” ci troviamo di fronte ad una costante trasgressione delle convenzioni d’etichetta comportamentale, frizzi e lazzi impudichi che oggi rischierebbero una denuncia ma che allora, in un’ottica di maschilismo imperante (oggi quasi rovesciato), era tollerato, quasi come rimozione da complessi e tabù di freudiana memoria, un rozzo armamentario da psicoanalista ambulante!

Questo “panegirico” non certo per giustificare, ma solo per far capire che questi impulsi di grezza istintività dei quali si fece ignaro portatore “Rabisòn”, a dispetto dell’età avanzata di conclamare a tutto volume vocale le sue estremizzate velleità dongiovannesche, erano probabilmente il frutto del proprio disarmo virile.

Essendogli sempre piaciute le donne carine o “racchie”, purché “respirassero”, l’ex bersagliere, era divenuto cieco in una sola notte a causa di una grave infermità oculare quando era ancora in piena efficienza sessuale.

Ridottosi a fare il venditore strillone di giornali, dopo avere esercitato in proprio ogni sorta di libere attività ambulanti,  costretto a rasentare i muri dei marciapiedi con il tocco del bastone, percorrendo in su e giù il tragitto quotidiano da via Venturini dove alloggiava, nelle zone del centro, la cecità totale gli tolse anche il piacere estremo dell’occhio, ovvero il non potere più adocchiare (ci scusiamo se in questo modo possiamo offendere la sensibilità di qualcuno…) un bel seno o due sculettanti natiche femminili.

Questo fu per “Rabisòn” una vera e propria dannazione che provocò in lui, cammin facendo, lascive e triviali imprecazioni. La sboccataggine, gli strepitosi schiamazzi rauchi e striduli, erano in fine dei conti improntati ad una palese spregiudicatezza, arguta e bonacciona. Non avendo più nulla da dare né da chiedere alla vita, accettò la parte che a lungo andare si compiacque di inscenare.

Fu uomo di media statura, tarchiato. Indossava una mantellina grigio-verde, portava il fez rosso, di vecchia foggia bersaglieresca. I giornali li teneva dentro una grossa bisaccia di cuoio tipo militare, forse confezionatagli da qualche sellaio di sua conoscenza con bottega in San Raimondo. Al gioco delle parti, volente o nolente, ci dovette stare, anche perché la “reclame” è l’anima del commercio. E lui i giornali li doveva pur vendere per tirare a campare. Incitamenti, istigazioni, prestesi ad esibirsi non gli mancavano certo, specie da parte di amici, conoscenti, perdigiorno nei quali si imbatteva ad ogni piè sospinto.

Non lo deridevano né schernivano, anzitutto perché ciò sarebbe stato impietoso, poi perché “Lisandàr” era benvoluto e stimato per il genuino anticonformismo, l’inesausta carica contestatrice allora fuori dall’ordinario. “Dai Lisandar! Dinna vuna dil tò. Garda che bella gnocca che drè pasà”! C’era sempre qualcuno che lo aizzava, ed allora lui dava fiato alla cornetta bersaglieresca, arieggiando una sfilza di battute lubriche, sintonizzate sui registri di una sorridente, sarcastica gamma di facete scurrilità. Al veterano bersagliere tutto era concesso, anche qualche moccolo ingiurioso. Come già detto, battute e basta, e tutto finiva lì.

Nel novembre del 1948 Rabisòn era ricoverato all’ospizio Vittorio Emanuele e con la sua divisa, come si evince dalla foto, ancora girava per la città, non più vendendo giornali, ma sempre stimolato da qualcuno che lo incontrava per estrapolargli lazzi anticonformisti e battute boccaccesche gridate ad alta voce. Tempo che fu…

“Rabisòn”, strillone cieco e un po’ impudico

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