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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Sant’Agnese, 1943: il duplice omicidio di via Dogana

Via Dogana (ora Giordano Bruno), non si discostava molto dagli altri rioni della borgata. Una strada caratterizzata dalla presenza delle mura che racchiudono Palazzo Madama; per lungo tempo fu sede delle carceri giudiziarie, chiamate anche “Ca’ Tondi” il cui nome, si dice, derivava da una famiglia, i Tondi, che tra Ottocento e Novecento abitava presso il carcere e svolgeva per tradizione, di padre in figlio, servizi connessi alla casa di pena.

L’edificio è così chiamato perché residenza di Madama Margherita de’ Medici, costruito laddove sorgeva un lazzaretto abbandonato dopo la peste del 1630. Fu poi destinato verso la fine del’700 a Dogana e quindi, dopo l’Unità d’Italia, trasformato in carcere; oggi è tutt’ora sede degli uffici della Procura della Repubblica.

Nella parte opposta al complesso, in fondo alla via, sorge la chiesa delle Benedettine costruita nella seconda metà del secolo XVII, con la gruppo S. Agnese-2grande e suggestiva cupola ricoperta di rame che da secoli domina la zona con la sua armoniosa struttura.

La grandiosità di questi due monumenti, con in più Palazzo Landi sede del Tribunale, la chiesa di S. Lorenzo e quella di S. Eustacchio, offre un “tocco d’arte” e di storia ad una via che era prevalentemente popolata da un ceto in maggioranza proletario.

Per questo anche qui, pur in un così altisonante artistico proscenio monumentale, non mancavano personaggi estrosi e caratteristici che animavano, con la loro presenza, il palcoscenico del rione, noto in città anche per la presenza del canile municipale di via Buffalari condotto per molti anni da Domenico Uber e da Telesforo Volpari discendente da una lunga generazione di “masa càn”.

Vi erano però altri personaggi estrosi nella via: Gerra, venditore ambulante di giornali, Secondo, l’oste che gestiva la mescita all’angolo con via Gregorio X°  (dentro, sul retro di questo palazzo, abitava mia nonna Angela dopo il trasferimento da via S. Bartolomeo) e la Maria che continuò per anni a cucinare per il marito già morto da tempo, credendolo in prigione.

Ogni giorno si presentava con la sua “sbobba” davanti al portone del carcere per consegnarla al marito ed i secondini, impietositi anche dalle condizioni mentali della donna, si prestavano al gioco, ritiravano la ministra che poi buttavano nei rifiuti.

Anche allora la famosa Ca’ Tondi presentava sicuramente una realtà ben diversa dall’attuale: dentro non vi erano rinchiusi pericolosi soggetti. Erano per lo più ladri di polli, vagabondi che vivevano di piccoli furtarelli, persone tanto indigenti che commettevano lievi reati per poter trascorrervi l’inverno.

Così faceva “Cicòn” guitto della contrada, che condusse sempre una vita “anarchica”; pur avendo la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa e decorosa (era di famiglia discretamente benestante), aveva sposato con la libertà più sfrenata, l’ozio ed il vino, o meglio il rifiuto completo e totale di ogni attività continuata nel tempo.

Viveva adattandosi a piccoli lavoretti, rendendosi utile in vari servigi e spendeva tutti i pochi guadagni all’osteria, unica costante sua fissa dimora.

Sua “abitazione” per la notte, un carretto depositato dentro un ampio portico di via Giordano Bruno. Di carattere fiero ed estroverso, non tollerava nessun rimprovero, né imposizione. Una sera, ricordavano gli anziani, mentre era all’osteria, considerata l’ora tarda, la locandiera lo invitò a rientrare a casa con lei e dormire almeno fuori dalla porta, al coperto. Di fronte a questa “imposizione” Cicòn rifiutò adattandosi a rifugiarsi contro il portone della chiesa delle Benedettine, nonostante fosse in atto una copiosa nevicata.benedettine-2

Al mattino, credendolo congelato così avvolto nel tabarro coperto di neve, alcuni passanti lo scorsero. Cicòn risvegliatosi, li tranquillizzò sorprendendosi per le loro preoccupazioni e si avviò rapidamente all’osteria per riscaldarsi con un litro. Di solito l’inverno lo trascorreva appunto nel vicino carcere dove andava a scontare la pena per qualche furtarello.

La zona però, nel 1943 (precisamente martedì 7 dicembre), fu teatro di un duplice omicidio che sconvolse gli abitanti del rione, un episodio a lungo fisso nella memoria di tutti. La stampa del tempo (La Scure, di giovedì 9 dicembre) diede risalto al fatto di sangue, anche se le versioni presentate furono piuttosto contraddittorie.

Così riferiva il cronista:” Martedì sera verso le venti, un ragazzetto mentre transitava in via Dogana n°8 s’accorgeva che la saracinesca del negozio per la vendita di Sali e tabacchi, con banco d’assaggio per il vino, era sollevata e l’interno illuminato. Ritenendo che l’esercizio fosse aperto, entrava e trovava il proprietario immerso in un lago di sangue. Nel retrobottega anche la moglie Carolina Lombardi di 70 anni, uccisa con un colpo d’accetta. I ladri, dopo avere rovistato, hanno asportato denari, oggetti d’oro, sigarette, carta bollata e valori”.la briscola in cantone dogana-2

Il giorno dopo, il quotidiano riportava invece che i due coniugi erano morti per soffocamento e che gli assassini dovevano avere una certa familiarità con le vittime perché erano entrati dal retrobottega di solito usato solo come passaggio. Poi nei giorni seguenti più nessuna notizia inerente il delitto.

Queste contraddizioni nel riportare le notizie, questo successivo ed inquietante silenzio stampa, si potrebbe forse spiegare con il fatto, riportato da testimonianze che “arieggiavano” nella borgata, che fra le mani del morto fosse stato rinvenuto un bottone della divisa della milizia fascista che, in quel periodo, era subentrata ai secondini nella sorveglianza delle carceri.

Il delitto, sia per la rarità dell’evento, sia perché le vittime erano conosciutissime e ben volute da tutta la gente della borgata, suscitò grande costernazione ed indignazione. Tuttavia i colpevoli non vennero mai rintracciati.

Questi i due eventi delittuosi di cui abbiamo trattato, accaduti nella prima metà del Novecento, il primo nel ’19 in Borghetto, il secondo nel ’43 in S. Agnese. Il loro ricordo fu a lungo vivo nella mente di tanti anziani, probabilmente per la loro rarità cittadina abituata al massimo a furti o risse che avvenivano sovente nelle osterie quando il vino scorreva in eccesso. Ma tutto di solito si risolveva senza neppure l’intervento della forza pubblica.

La nonna paterna quando rammentava la vicenda, aveva ancora un moto di orrore nel volto; il fatto fu oggetto di continue congetture per mesi ogni sera, quando le donne si trovavano fuori nella strada o nei cortili per le consuete chiacchiere serali, la “televisione” di un tempo. Gli uomini all’osteria e le donne a casa: un modello di vita oggi completamente cambiato. Ma a quei tempi così era.

Sant’Agnese, 1943: il duplice omicidio di via Dogana

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