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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Uno sguardo indiscreto nelle “case chiuse” della vecchia Piacenza

Una breve mappa delle case chiuse a Piacenza ed alcune curiosità di costume legate alle case dell'"amore" dove generazioni di piacentini iniziarono il loro tirocinio virile in epoche meno prodighe di liberali rapporti di coppia

Alla mezzanotte del 19 settembre 1958 entrò in vigore, anche a Piacenza, con l’approvazione della legge che prendeva il nome della senatrice Merlin, la disposizione di chiusura delle tre “case chiuse” in funzione in quel periodo e che ospitavano, a detta delle cifre ufficiali, ancora 23 “pensionanti”.

Tale decreto legislativo se da un lato contentava coloro che consideravano questi locali covi di vizio e di perdizione, indegni di un paese civile, in altri, e non erano pochi, suscitavano parecchie perplessità, non tanto di ordine morale, quanto pratico. Infatti, come poi regolarmente avvenne, si consolidò ben presto la solitaria rivincita dell’iniziativa privata con tutte le conseguenze che ancor oggi possiamo facilmente riscontrare percorrendo una qualunque strada periferica della città. Inoltre, con il mancato controllo sanitario, prescrizione scrupolosamente perseguita all’interno dei casini, si paventava un incontrollato aumento delle malattie veneree, una piaga che proprio grazie all’apertura delle maisons closes si era riusciti ad arginare.

Ora qui, con questo articolo, non si intendono rivangare polemiche e dibattiti che periodicamente ritornano sulla necessità di un ripristino delle case chiuse strutturate su modelli esteri, ma semplicemente tracciare una breve mappa delle case chiuse a Piacenza nel 1930, un anno scelto a caso come campione esemplificativo per puntualizzare la collocazione urbanistica ed alcune curiosità di costume legate alle case dell'”amore” dove generazioni di piacentini iniziarono il loro tirocinio virile in epoche meno prodighe di liberali rapporti di coppia. E poiché lo scrivente, per ovvi motivi di età non li avrebbe potuti frequentare, a suo tempo si era affidato, per l’occasione, alla guida di un anziano conoscente che aveva descritto ubicazione ed interni delle varie maisons cittadine.

Così  dopo aver trattato ultimamente nel nostro blog di argomenti certamente più “morigerati”, ne vogliamo sviscerare uno che fa parte anch’esso del nostro costume.

D’altronde la prostituzione è antica quanto l’uomo ed anche nella nostra città durante i secoli passati il problema si presentò a più riprese ed in forme di tali proporzioni da suscitare allarmi e preoccupazioni con specifici editti, come al tempo dei Comuni, con i capitani di ventura ed i loro soldati che recavano con sé le donne, per poi abbandonarne un certo numero nelle città dove soggiornavano, costringendo i reggitori a cacciarle con forza dalle vie urbane.

Anche il Cardinal Farnese, tutore del duca Edoardo, emise una grida contro l’eccessivo lusso di quelle donne e vietò loro di portare oro e gemme, di farsi scortare da paggi e di uscire di casa dopo la mezzanotte, pena una frustata. Le case di piacere furono invece introdotte dai francesi di Napoleone e a tal proposito un insegne studioso locale, Ettore Carrà, dedicò a questo argomento un apposito studio denominato “La prostituzione a Piacenza nell’età di Maria Luigia”.

Ma veniamo al periodo da noi preso in esame. Nel 1930 nella nostra città le case in funzione erano quattro: una in via Filanda; una in via Buffalari; quella di via Montani e quella in vicolo Lampugnani. Quest’ultima, contrariamente alle altre, era nota anche con il soprannome vernacolo di “spasacamèi” (probabilmente per la specifica clientela che poteva permettersi solo prezzi molto bassi) e chiuse i battenti nel 1940 forse in ossequio ad una tendenza abolizionistica anche allora propugnata dal Fascismo cui, nonostante il mito del “gallo italico”, nuoceva l’esistenza dei casini, contraria ad un’immagine di rigore ed onestà morale che il paese faticosamente cercava di costruirsi.

L’arredamento, gli orari, le tariffe (come si può evincere dalle foto accluse, gentilmente concesse da Francesco Bosi titolare della trattoria Carrozza che ha collezionato alcune targhe molto significative), il ceto dei frequentatori rispettava un cliché pressoché univoco nelle maison della città. Solo quella di via Buffalari conservava qualche pretesa di lusso.

Qui si cercava di selezionare la clientela attraverso il filtro di un’arguta portinaia che permetteva immediatamente l’accesso a coloro che, o per abitudine nella frequentazione, o per gli abiti con qualche pretesa di eleganza, sembravano pagatori più disponibili e relegava gli altri ad una lunga e spesso inutile attesa, giustificandola con i pressanti impegni delle prostitute.

Situato al n°4 della strada e gestito per oltre vent’anni dal popolare signor Giulio, il casino (chiamato anche “dalla Lina”) si componeva di alcune sale di attesa, di un lungo corridoio e di varie stanze contrassegnate da numeri dove l’impassibile “maitresse”, con piglio squisitamente professionale (di solito una veterana del mestiere stipendiata dai tenutari), convogliava i vari clienti.

Nelle stanze d’ingresso, qui come altrove, si svolgeva una rituale liturgia coreografica codificata nel tempo; le donne, in abbigliamento succinto o in abiti trasparenti ed un trucco particolarmente marcato, scendevano e sfilavano mettendo in bell’evidenza le grazie più riposte, suscitando l’ammirazione degli astanti.

Nelle case di più infimo ordine si trovavano spesso anche gruppi di giovani (l’ingresso era rigorosamente vietato però fino ai 18 anni) entrati solo per “lustrare la vista”, dato che difficilmente avevano a disposizione la somma necessaria. L’importante era, secondo un tacito ordine, guardare… ma non toccare!

Se si tiene conto che a quei tempi lo stipendio medio di un operaio specializzato era di 15 lire al giorno, andare al casino costava quasi una mezza giornata di lavoro ed era perciò un capriccio che ci si poteva permettere solo saltuariamente.

case chiuse piacenza 01-2Scelta la donna, si pagava alla maitresse la somma pattuita (dalle 5 alle 10 lire) e questa consegnava alla prostituta una “marchetta”, un gettone, come contrassegno per l’avvenuta prestazione agli effetti del susseguente conteggio. Si dice, ma non è stato possibile appurarlo dalle testimonianze, che le prime cinque marche fossero incassate interamente dal tenutario che doveva provvedere al vitto, all’alloggio, al riscaldamento ed alle spese per i controlli medici obbligatori per legge; il resto andava alle “lucciole”, meno una percentuale del 25% sempre trattenuta dal titolare del bordello. Eventuali prestazioni “particolari” venivano pattuite direttamente in camera e bisognava affrettarsi nel rapporto perché dopo circa 15 minuti scattava il raddoppio della tariffa.

La struttura esterna di questi casini era quanto di più anonimo si possa supporre e si rivelava solo in alcuni casi dai vetri colorati delle finestre stile liberty che corrispondevano spesso al gusto delle decorazioni interne ed ai costumi da bajadera, ai veli, ai pizzi con cui si cercava di assecondare l’ingenua aspirazione dell’italiano incolto, a rivestire il piacere “proibito” (perlomeno nascosto alle mogli) di apparenze esotiche e vagamente orientaleggianti, come qualcosa che gli ricordasse i favolosi harem delle “mille e una notte”, rapportati ad una versione economica casalinga.

Ma di solito, contrariamente a quanto ci possano aver fatto immaginare alcuni film o alcune descrizioni di famosi romanzieri riferendosi a case di piacere lussuose, l’arredamento era quanto di più spartano ci si potesse attendere: un letto, un lavabo, un piccolo armadio, un paio di sedie per riporre gli abiti.

Qualcuna, più civettuola, aveva arredato le stanze con qualche quadretto, magari un fonografo, sempre oggetti personali e rari, perché le prostitute, a parte rare eccezioni, non si fermavano mai per lungo tempo nella stessa città.
(Fine prima parte; la seconda a breve)

Uno sguardo indiscreto nelle “case chiuse” della vecchia Piacenza

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