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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Esse come sicurezza

Esse come sicurezza

A cura di Siap (Sindacato italiano appartenenti polizia) di Piacenza

Il reato di tortura e il numero identificativo siano una opportunità

L'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Per questo l’Italia è stata condannata dalla Suprema Corte Europea di Strasburgo per i fatti avvenuti alla Scuola Diaz. Molti proveranno a difendere qualcosa che non è difendibile, perché a mio modesto parere l’irruzione alla Scuola Diaz è stato un errore macroscopico e inutile. Io invece, con modestia, spero che questa condanna sia un rilancio della riforma della Polizia di Stato ad ordinamento civile; sia utilizzata per cambiare le cose in quanto la legge sulla tortura deve essere applicata per prima all’interno di una amministrazione dove ancora si governa il personale di Polizia con metodi e sistemi che facilitano il “mobbing” e quindi, a mio modo di vedere le cose, in modo spensierato si continuano a consumare trattamenti inumani e degradanti nei confronti di chi è chiamato ad intervenire anche contro i più incalliti delinquenti in pieno rispetto dei diritti umani, mentre a loro stessi vengono violati con una facilità impressionante anche i più elementari diritti di accesso a documenti amministrativi in barba alla trasparenza tanto decantata.

Il numero identificativo, personalmente, lo voglio perché credo sia un’opportunità in quanto lo Stato che obbliga, giustamente, ad indossare un numero identificativo al Poliziotto, a questo lavoratore, nel contempo, proprio perché con quel numero si assume più responsabilità, lo Stato deve retribuirlo adeguatamente, deve garantire una giusta formazione, deve procurargli strumenti, leggi e regolamenti che indicano in modo chiaro le regole di intervento e nello stesso tempo, nel momento in cui il poliziotto indossa un numero, nessun manifestante dovrà coprirsi il viso e colui che usa ogni genere di violenza contro chi è preposto a prestare servizio in difesa dei diritti umani, questi devono finire in galera senza se e senza ma, ma finirci e basta perché questo numero identificativo sta diventando la scusa e non il rimedio.

Rilanciamo quindi il reato di tortura, rilanciamo quindi il numero identificativo, ma con tutto il pacchetto che tuteli il cittadino ma anche il lavoratore di Polizia, anche lui cittadino, anche lui essere umano. Invece, quotidianamente, viene leso dei suoi diritti internamente ed esternamente in una situazione che forse fa comodo a tutti tranne che a chi opera in prima linea. Basta con il corporativismo, basta con false propagande di chi difende chi e cosa, difendiamo il cittadino perché anche noi tali.

Ed è per questo che la democratizzazione interna, grazie ad una classe dirigente ancora in parte incapace, non ha ancora la sua giusta collocazione in quanto ancora oggi far valere i propri diritti è sempre complicato e sempre pericoloso laddove il diritto dovrebbe regnare sovrano e laddove chi, come me, tenta di far valere il diritto, ne paga le conseguenze con querele, volantinaggi anonimi, furti di documenti in bacheca sindacale, punizioni, denigrazioni e maltrattamenti che, sia chiaro, non mi hanno fermato e non mi fermeranno. Sono convinto che le vere torture ancor prima che esternamente si consumano internamente attraverso un regolamento di servizio e regolamento disciplinare sorretto dalla mobilità interna che permette di fare ciò che si vuole e come si vuole in barba ai diritti umani. Del resto, e gli atti parlano chiaro, proprio io in una riunione centrale sulla formazione e aggiornamento del personale di Polizia, suggerii di inserire i diritti politici e umani nell’aggiornamento dei poliziotti, con la bocciatura avvenuta anche grazie a taluni sindacalisti che non comprenderanno mai l’opportunità di cambiare e di ottenere più tutele per noi stessi in quanto anche con la divisa: sempre cittadini.

Il reato di tortura e il numero identificativo siano una opportunità

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