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Cronaca Castel San Giovanni

«Amazon porta lavoro ma non c’è un futuro professionale in quell’azienda»

Ad un anno dall'ingresso delle organizzazioni sindacali nel centro di distribuzione di Castelsangiovanni emerge un quadro di luci e ombre. «Era terra di nessuno, ora almeno c'è un dialogo: su alcune questioni c'è la volontà di discutere, su altre meno»

«Chi arriva in Italia deve seguire le regole del posto, non possono imporre le loro. Amazon pensa di essere un consolato americano che arriva qua e s’impone con la forza. Perché non investono nella formazione dei dipendenti e nel loro futuro? Rovinano la salute delle persone, sfruttano la carne fresca. Non ci può essere sicurezza in un luogo come Amazon perché mezz’ora di pausa - per chi compie 20 chilometri a piedi al giorno tra gli scaffali – sono poche. Non puoi chiedermi di rinunciare ad alcuni minuti della mia pausa per partecipare ai briefing. Chiedo ai politici di venire qui a conoscere cosa succede in Amazon. Per loro non siamo persone, siamo “nessuno”. E dopo cinque anni di lavoro ti propongono di uscire dal contratto con soli 5mila euro. Con il bilancio che hanno…». È riassumibile nelle parole di un 37enne ivoriano lo stato d’animo delle rappresentanze sindacali dei lavoratori del centro di distribuzione di Castelsangiovanni del colosso americano leader dell'e-commerce.

Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno fatto un po’ il punto della situazione del rapporto con la società di Jeff Bezos. Un quadro di tante ombre e qualche luce, ad un anno dall'ingresso delle organizzazioni sindacali all'interno dello stabilimento di Castello. Positiva, per le sigle, è l’apertura della società a trattare attorno a un tavolo su alcuni problemi. Rispetto ai primi anni, qualcosa è cambiato. Soprattuto si sta discutendo di modificare i contratti. «Qui ci troviamo davanti – ha spiegato Fiorenzo Molinari (Cgil) - a un qualcosa di diverso e differente rispetto a quello che c’è nel panorama lavorativo italiano. Amazon è arrivata nel 2011 con 60 persone, oggi conta 1500 lavoratori. Ora, con un atto audace e coraggioso, hanno permesso al sindacato di entrare in questa realtà. Hanno capito che da soli non si può interfacciarsi a un’azienda. Vogliamo dare un senso a queste persone, non possono e non devono sentirsi un ingranaggio, devono far parte di un progetto e avere un “respiro di felicità” in quello che fanno. Questa è un’azienda che ha una cultura differente dalla nostra. Amazon è una famiglia che decide tutto: le pause, il lavoro, quale sarà il tuo ruolo. Finalmente c’è un confronto, qualcosa di concreto. Il nostro compito rispetto a questa azienda è di far capire, a questa multinazionale che lavora in realtà diverse, che in Italia c’è una “responsabilità sociale” verso i propri lavoratori». sindacati lavoratori Amazon-2

«È merito dei lavoratori – ha proseguito Vincenzo Guerriero della Uil - che ci hanno messo la faccia,  mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, se qualcosa si sta ottenendo. Amazon è sì una famiglia, ma patriarcale: è sempre il padre che decide. Non c’è scambio di opinioni, si decide tutto dall’alto. È un metodo che nel nostro Paese non può esistere: siamo abituati al dialogo, alla trattativa. È già qualcosa se Amazon viene agli incontri nell’Unione Commercianti (da cui si fanno rappresentare), visto che altrove non lo fa». Ma, secondo i sindacati, c’è ancora molto da fare. «Ci danno risposte su alcune cose e su altre no. Ad esempio noi vorremmo discutere di un contratto integrativo aziendale. I lavoratori producono molta ricchezza, vanno tutelati di più».

D’altronde il colosso americano sta incrementando i guadagni in modo vertiginoso. «Amazon è un’azienda – ha aggiunto Pino De Rosa dell’Ugl – che vede ogni anno raddoppiare la crescita degli utili. E non c’è nessuna forma premiante per i lavoratori che determinano questi risultati. Incredibile che un’azienda del genere da mille dipendenti non abbia un contratto integrativo». Dialogo sì, fino a un certo punto. «Purtroppo ancora oggi non ci concedono una stanza in azienda per le rappresentanze sindacali. Vogliamo il dialogo, da parte nostra non c’è conflittualità, non siamo mai in stato d’agitazione, vogliamo solo rapportarci».

LA REALTA’ INTERNA

I Rappresentanti sindacali interni all’azienda raccontano una realtà un po’ borderline. «Il 70-80% dei dipendenti – spiega Cesare Fucciolo di Ugl – ha problemi alla schiena e al collo, ernie. Questo perché svolgiamo lavori ripetitivi otto ore al giorno. Diventa massacrante eseguire per 4-5 mesi, tutti i giorni, la medesima mansione. Io da due anni faccio le stesse cose». In molti si lamentano per la pausa. « Sarebbe di mezzora, ma intanto 3-4 minuti se ne vanno per uscire dallo stabilimento e ci viene chiesto di ritornare in anticipo per fare un piccolo briefing». Durante l’orario di lavoro non si può andare a bere un caffè: non ci sono macchinette nei pressi dello stabilimento.  «Una volta che esci dal posto di lavoro il manager deve mandare una mail alla guardia per dire che stai andando». Andare in bagno una volta si può, se s’incomincia a verificare più di un’urgenza si finisce sotto osservazione. «Io stesso sono stato richiamato: se vai in bagno due-tre volte in bagno ti chiedono il perché. Alcuni vengono pure accompagnati alla toilette». «Per andare a bere un caffè al bar – commenta Michela Idi di Cgil - bisogna compilare un foglio. Delle volte preferisci svenire in azienda piuttosto che prenderti una bustina di zucchero».

«Purtroppo – rileva Francesca Benedetti della Cisl – le patologie riscontrate legate al lavoro vengono attribuite ad attività extra-lavorative. Abbiamo difficoltà a far riconoscere le malattie professionali. Insomma, si sta a casa come se fosse un raffreddore, e non un problema legato a quanto viene svolto in azienda». Tra gli aspetti positivi evidenziati dai sindacati c’è l’assenza di cooperative: non c’è la terziarizzazione, sono tutti sotto contratto. «Di buono – prosegue - c’è anche che non fanno distinzione tra uomini e donne, giovani e più vecchi. Ti provano e poi ti confermano a tempo indeterminato. Però va detto che ti spremono come un limone, quando poi il “giocattolo si rompe” – ovvero quando s’accorgono che non sei più efficiente e vai in malattia – ti chiamano ai piani superiori e ti annunciano che non sei più produttivo, che non sei nella media aziendale. E ti invitano a uscire dall’azienda. È vero che Amazon ha creato posti di lavoro, ma quanto permane una persona là dentro? Che futuro professionale ha? Quanto rimane?». «È bizzarro – lamenta qualche lavoratore presente all’incontro – il fatto che coccolano i clienti e ai lavoratori, dopo 2-3-4 anni, offrono a loro un incentivo all’esodo. È frustrante per chi lavora, non si sente apprezzato: ti invitano a uscire dopo che ti hanno usurato. Molti approdano a questo lavoro per uscire da una situazione di difficoltà: stanno ad Amazon qualche anno e poi escono». Sono pochi i lavoratori che sono in azienda dal 2011. E tra i lavoratori corre voce – ma non è stata confermata ufficialmente dai rappresentati sindacali – che vengono offerti oggetti ai dipendenti (ad esempio un tablet) per non andare in malattia e rimanere stoicamente sul posto di lavoro a svolgere la propria mansione, nonostante qualche problema di salute. Ma le sigle stanno ancora accertando con chiarezza queste voci.

Un aspetto positivo emerso è che i sindacati sono riusciti a ottenere il passaggio automatico dal quinto al quarto livello di contratto dopo 18 mesi di permanenza nell’azienda. «Lo prevede il contratto collettivo nazionale – spiega De Rosa -, finalmente ce l’hanno riconosciuto. Ora vogliamo proseguire questo dialogo. Alcune problematiche le riconoscono, altre le negano. Per adesso non c’è uno scontro, continuiamo così». «Amazon era terra di nessuno – conclude Guerriero -. Stiamo facendo un po’ gli equilibristi con loro. Lo scontro ci porterebbe alla chiusura totale del dialogo da parte di Amazon».Lo scenario ricorda però un po’ quello ben raccontato in tanti film italiani degli anni del boom economico. Situazioni da lui l'industria italiana è uscita da tempo, dopo conflitti sociali laceranti. «L’azienda più moderna al mondo – è la riflessione finale di Molinari - ha le stesse problematiche delle catene di montaggio delle aziende italiane degli anni ‘60 e ‘70. Loro sono attenti agli infortuni gravi, ma non a quelli quotidiani legati al movimento giornaliero. Non c’è rotazione, dopo pochi anni si ritrovano i lavoratori in condizioni non buone».

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