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Cronaca Morfasso

«Migliaia di utenti non avranno mai le stesse possibilità di sopravvivenza»

Riceviamo e pubblichiamo l’intervento e l’analisi di Gian Francesco Tiramani sull’organizzazione della rete di soccorso in provincia di Piacenza in vista del probabile riassetto delle Guardie Mediche di montagna

«Le notizie e le prese di posizione delle ultime settimane per il servizio di Guardia Medica e per l’organizzazione della rete ospedaliera nella nostra provincia evidenziano inequivocabilmente come il problema dei servizi per la salute meriti una riflessione più complessiva. E’ anche evidente che non vi è un’informazione corretta e completa nei cittadini ma, spesso, anche nei livelli istituzionali.

Mi sembra doveroso, quindi, fare chiarezza fornendo informazioni attente che aiutino i cittadini a conoscere a fondo la realtà che li tocca direttamente e chi deve prendere decisioni così delicate ad avere un quadro di riferimento completo; il mio intento è di fornire dati obbiettivi, per ora scevri da ogni giudizio ed il quadro che esce è certamente grave e meritevole di attenzione. Mi occupo dall’inizio degli anni ’80 di soccorso ed emergenza anche fuori dai confini nazionali ed ho avuto la fortuna di seguire molto da vicino l’evoluzione che il sistema dell’emergenza/urgenza ha avuto nel nostro Paese ed in particolare a Piacenza. Fino agli anni ‘70 il soccorso sanitario vero e proprio iniziava dalle porte degli ospedali e fuori da là c’erano solo servizi di ambulanza che prestavano le prime cure ma che dovevano necessariamente “correre” con il paziente a bordo per arrivare quanto prima possibile in Pronto Soccorso. In Toscana in quegli anni si cominciò però a ragionare sul fatto che occorreva “portare l’ospedale direttamente dal paziente” in caso di urgenza per ridurre quanto più possibile il “THERAPY FREE INTERVAL”, ovvero il tempo che trascorre prima che il paziente riceva un intervento medico qualificato.

Gli studi nel settore avevano evidenziato da tempo come nel caso soprattutto di compromissione delle condizioni vitali i minuti a disposizione per dare possibilità di sopravvivenza al paziente sono davvero molto pochi. (vedi figura allegata)

Iniziò così lo SPAMU (Servizio delle Pubbliche Assistenze con Medico per le Urgenze) con risultati straordinari in termini di vite recuperate e riduzione degli effetti invalidanti conseguenti ad eventi acuti. Proprio da quell’esperienza dei volontari che oggi fanno parte di ANPAS nacque il progetto per l’Elisoccorso di cui nessuno sapeva nulla nel nostro Paese. Ebbi l’onore di far parte del team ristretto che progettò il servizio e che lo attuò nell’estate del 2005 a Viareggio, ma proprio nella nostra provincia organizzai la prima missione di sensibilizzazione concreta su questo tema, attuata grazie ad un viaggio con elicottero nel quale mi accompagnava il Prof. Zuccoli della Rianimazione di Parma; atterrammo a Morfasso ed in altri comuni della montagna piacentina e parmense per incontrare i sindaci ed i presidenti delle Comunità montane che capirono immediatamente l’utilità del servizio. Intanto sempre Piacenza sperimentava, non senza rischi, un’altra esperienza che rimane fiore all’occhiello della nostra sanità: grazie al prof. Renzo Ruggerini che dirigeva il servizio di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale cittadino, prese forma il “Pellicano”, un centro mobile di rianimazione grazie al quale gli infermieri a bordo riuscivano a compiere manovre che in teoria non avrebbero potuto fare senza la presenza di un medico ma che hanno permesso di salvare la vita a tante persone, che diversamente non avrebbero avuto alternative. In quel periodo non c’era ovviamente il 118 e le uniche ambulanze in tutta la provincia di Piacenza erano quelle degli ospedali e, solo in città, dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa Italiana (un totale di 6 ambulanze a disposizione per emergenze contro la trentina di oggi). Le chiamate di soccorso arrivavano soprattutto al 113 ed all’ospedale ma non vi era un coordinamento strutturato dei mezzi di intervento. A parte il Pellicano in città, quindi, le ambulanze servivano quasi esclusivamente per raccogliere il paziente e correre a sirene spiegate verso l’ospedale.

L’esperienza toscana della ambulanze medicalizzate e soprattutto l’elisoccorso che stava prendendo forma in Emilia e Lombardia aveva però aperto la strada, appunto, del portare l’ospedale (inteso come personale medico qualificato ed attrezzature idonee) direttamente sul luogo dell’evento. Il problema era però che non esisteva una specializzazione medica destinata al soccorso extra-ospedaliero e per questo ci si affidava agli specializzati in anestesia e rianimazione che però dovevano rivedere la loro formazione proprio perché lavorare fuori dalla sicurezza dei reparti ospedalieri era ben altra cosa. Anche la tecnologia si stava adeguando fornendo un supporto sempre più qualificato nelle operazioni di soccorso.

Non poteva che essere ancora la nostra città a proporre un innovativo progetto nel settore, grazie alla ricostituzione delle storica Croce Bianca fondata nel 1906 e poi chiusa forzatamente dal regime fascista nel 1929: Agli inizi degli anni ’90 nacque la sperimentazione di “SEM” (Servizio di Emergenza Medica), un’auto veloce (e a trazione integrale) con a bordo un’equipe di pronto intervento costituita da un medico anestesista rianimatore, un infermiere di area critica, un soccorritore ed un autista. Il veicolo era dotato anche di tutte le attrezzature di rianimazione con tecnologie all’avanguardia (fatte arrivare da Giappone, Spagna, ecc. visto che da noi non c’era questo utilizzo) e dei farmaci necessari a ripristinare e mantenere le condizioni vitali del paziente. L’esperienza portò una vera e propria rivoluzione nel nostro territorio con tempi di intervento ridotti al minimo e risultati innegabili in termini di vite salvate.

Questa rivoluzione faticò però ad entrare nelle abitudini dei cittadini e più di una volta famigliari e persone presenti sul luogo dell’intervento non compresero la necessità di operare sul posto prima di caricare il paziente, arrivando anche a manifestazioni violente nei confronti degli equipaggi impegnati nelle manovre salvavita. Nei fine settimana in cui SEM era in servizio si sperimentò, sempre presso la centrale operativa della Croce Bianca, un embrione di coordinamento delle chiamate di soccorso di tutta la provincia, grazie al coinvolgimento entusiasta del 113 e delle varie stazioni dei Carabinieri di tutta la provincia. L’esperienza di SEM durò un periodo limitato, come era stato previsto, anche perché era impensabile che il tutto gravasse sulle sole spalle dei volontari, pur con la partecipazione massiccia di personale medico ed infermieristico ospedaliero che interveniva senza alcun compenso.

Nonostante la dimostrazione concreta che il servizio si poteva fare e con l’evidenza inequivocabile dei risultati che si potevano ottenere, l’ASL ci mise parecchi anni per attivare l’auto-medica a Piacenza. Negli anni, poi, iniziando dal 1981 nella nostra provincia sono sorte varie Pubbliche Assistenza e delegazioni della CRI e si è fatto sempre più strada il valore irrinunciabile della catena del soccorso che inizia ben prima dell’ospedale. Partì da noi anche l’esperienza del defibrillatore semiautomatico che, finalmente grazie all’innovazione tecnologica, consente l’uso anche a personale non sanitario, costringendo così il legislatore a cambiare la norma che prima ne consentiva l’utilizzo esclusivamente ai medici; ad oggi sono decine le persone salvate da questo sistema nel piacentino.

Arrivò poi il 118 ed uscirono le varie normative sia nazionali che regionali che puntavano sempre di più su una rete di soccorso che partendo dal territorio si integra con la rete ospedaliera.

Il DPR 27 marzo 1992, ha infatti sancito la creazione di un sistema di Emergenza Urgenza Sanitaria strutturato in una Fase di Allarme e prima risposta sul territorio (istituzione del numero unico di chiamata 118, delle Centrali Operative e delle postazioni-mezzi di emergenza territoriali)  ed in una Fase di Risposta Ospedaliera disposta su più livelli di intervento.

Con le Linee Guida della Conferenza Stato Regioni del 1996 si stabiliscono anche i tempi di intervento massimo dei mezzi di soccorso in urgenza, pari a 8 minuti nelle aree urbane e 20 minuti in quelle extraurbane.

Da qui si conferma ciò che la letteratura internazionale ha già evidenziato, ovvero come non sia obbiettivamente pensabile di poter erogare lo stesso livello di servizio su tutto il territorio provinciale; certamente, però, occorre pensare con attenzione l’intera rete dei servizi per non discriminare i cittadini rispetto alle possibilità di essere assistiti adeguatamente in caso di evento acuto.

Quando parliamo di rete sul territorio pensiamo infatti al servizio di Guardia Medica, alle ambulanza BLSD (“Basic Life Support” - Supporto vitale di base che si riferisce in particolare alla capacità di effettuare una rianimazione cardiopolmonare mediante massaggio cardiaco e ventilazione, eventualmente con aggiunta del defibrillatore semiautomatico) gestite dai volontari, ai mezzi di soccorso avanzato ACLS (“Advanced Cardiac Life Support” – Supporto vitale avanzato cardiologico) con medico d’emergenza a bordo e ai presidi ospedalieri.

In questo contesto come si inserisce il servizio comunemente chiamato di Guardia Medica?

Si tratta in effetti del servizio di “continuità assistenziale” che è stato istituito per dare, appunto, continuità nelle ore notturne e nei giorni festivi alla presenza dei medici di base che con il loro nuovo contratto di lavoro (inizio anni ’80) avrebbero lavorato solo nelle ore diurne dei giorni feriali.

Succede però che nelle aree lontane dai presidi ospedalieri o dai punti di partenza dei mezzi di soccorso avanzato (auto-mediche) - ovvero laddove non ci sono alternative per un veloce intervento di un soccorso avanzato - tale servizio di “base” entra necessariamente a pieno titolo nella catena del soccorso, richiedendo di conseguenza una valenza diversa e più qualificata. E la questione sta proprio qui: se i medici impiegati nella Guardia Medica devono solo affrontare necessità non particolarmente urgenti allora può anche funzionare l’attuale organizzazione ma se nelle aree disassate di cui sopra (di cui è piena la nostra provincia) gli stessi medici sono chiamati ad essere un anello della catena delle emergenze (non essendovi alternative) allora la loro capacità di intervento deve assolutamente modificarsi ed adeguarsi ai bisogni specifici. Se però la formazione (ed il conseguente livello di competenza) e le dotazioni strumentali e farmacologiche dei medici impiegati dall’ASL rimane quella attuale, nessuno di loro sarà mai in grado di fornire un supporto adeguato negli eventi più importanti, dove sono richieste competenze ACLS.

Basta vedere in tal senso quanto stabilito ufficialmente dalla Conferenza Stato Regioni nella seduta del 22 Maggio 2003 “Linee guida su formazione, aggiornamento e addestramento permanente del personale operante nel sistema di emergenza/urgenza”, laddove si definiscono con chiarezza gli obbiettivi della formazione che, per la parte clinico-assistenziale, prevede: “conoscenza e gestione delle procedure di triage intra ed extra-ospedaliero; sostegno di base ed avanzato delle funzioni vitali nell’ età adulta e pediatrica; trattamento di base e avanzato nella fase pre-ospedaliera e ospedaliera del paziente traumatizzato nell’ età adulta e pediatrica; conoscenza e capacità di attuare i percorsi clinici che garantiscono la continuità delle cure)”.

Conoscendo i parametri attuali utilizzati per accedere da parte dei medici al servizio di Guardia Medica è subito evidente come mai nessuno si sia preoccupato di applicare questi requisiti per loro che sono chiamati in prima battuta nelle operazioni di soccorso, laddove non esistono supporti alternativi in tempo utile per non pregiudicare la sopravvivenza dei pazienti.

Per arrivare più vicino a noi nel tempo, anche il cosiddetto “Decreto Balduzzi” convertito in legge nel 2012 e che rappresenta una vera rivoluzione nel settore dei servizi sanitari, sottolinea con forza la necessità di una rete di soccorso efficace sul territorio, complementare con le strutture ospedaliere che sono classificate in tre livelli:

•          “base” senza DEA (Dipartimento di Emergenza Accettazione) ma con solo Pronto Soccorso: è il caso di Castel S. Giovanni e Fiorenzuola, mentre Bobbio dispone solo di un PPI (Posto di Primo Intervento)

•          “1° livello” con DEA di 1° livello (tutti i servizi collegati all’emergenza urgenza ma senza reparti ultra specialistici come neurochirurgia, centro ustionati, ecc.); parliamo dell’ospedale di Piacenza

•          “2° livello” con DEA di 2° livello (oltre a quanto previsto per il 1° livello vi sono anche le specialità citate sopra.); parliamo dell’ospedale di Parma, per esempio. Per quanto riguarda la presenza dei mezzi di soccorso avanzato sul territorio la stessa norma esplicita in modo inequivocabile quanto le Regioni (e le ASL) devono attuare, ovvero un mezzo di soccorso avanzato (automedica o ambulanza ACLS medicalizzata) ogni:

•          60.000 abitanti

•          350 kmq

Stando a questi criteri la nostra provincia con 291.000 abitanti dovrebbe vedere ben 7 mezzi medicalizzati, mentre con una superficie di 2.589 kmq i mezzi dovrebbero essere comunque almeno 5. Ebbene, di tutto questo nella nostra provincia non c’è traccia. Ad oggi, infatti, risulta un’auto medica strutturata con partenza da Piacenza ed in funzione nelle ore diurne; di notte il medico sale direttamente sull’ambulanza dell’ospedale di Piacenza. L’elisoccorso di base a Parma (in grado di garantire anch’egli un sopporto medico avanzato) interviene solo in orario diurno e quando non già impegnato in altre chiamate, visto che deve coprire tre province. Per il resto vi sono alcune ambulanze con infermiere a bordo (ma con la normativa del nostro Paese può fare ben poco senza la presenza di un medico), qualche mezzo con medico a bordo ma senza le specifiche previste per la gestione dell’emergenza e le tante ambulanze BLSD delle associazioni di volontariato. Basta poi analizzare con attenzione i dati degli interventi gestiti dalla centrale 118 di Piacenza per capire quanti eventi acuti avvengono nelle aree “protette” (vicinanza agli ospedali con PS o immediatamente raggiungibili dall’automedica) e quanti invece interessano il resto del territorio; si potrebbe capire velocemente che l’indicazione di dislocare mezzi avanzati sul territorio offre risposte ad una domanda significativa anche dal punto di vista numerico.

Gli addetti ai lavori sanno anche molto bene che un efficace sistema di soccorso distribuito riduce in modo significativo l’impatto sociale ed economico degli eventi acuti che colpiscono i pazienti. Così come è universalmente riconosciuto l’enorme risparmio che si ottiene attuando servizi di telemedicina e di refertazione remota che, con realtà come quelle della nostra provincia che vede un gran numero di utenti anziani e con patologie croniche, diventa una strada irrinunciabile anche per evitare continui spostamenti e spedalità improprie che gravano sulle tasche di ognuno di noi. In tal senso è utile ricordare come uno studio dell'Osservatorio ICT del Politecnico di Milano stima in ben 15 miliardi di Euro il risparmio annuo del sistema Sanità italiano, combinando efficienza e sostenibilità economica a servizi di qualità. Nonostante tutto questo, però, da noi l’idea di riorganizzazione per la spending review propone il taglio di qualche Guardia Medica in montagna.

Ci troviamo di fronte, concludendo, ad una mancanza di coerenza da parte di Regione ed ASL, almeno nella nostra provincia, rispetto alla cultura ed ai dettati normativi finalizzati a rafforzare la rete extra-ospedaliera del soccorso, con conseguenze che possono diventare drammatiche per l’utenza. Nella cartina allegata, infatti, si nota bene la discriminazione pesante delle aree lontane dai presidi ospedalieri con la conseguenza obbiettiva che, rimanendo così le cose e non attuando ciò che la norma nazionale prevede, decine di migliaia di utenti non avranno mai le stesse possibilità di sopravvivenza o di riduzione della mortalità in caso di evento acuto. Discutere, quindi, di Guardia Medica si o no (e come è ora strutturata), di ospedale si o no, ecc. non ha alcun senso se non si considera il sistema globale sanitario della provincia (e delle aree limitrofe).  Se però non si inizia dal versante dell’emergenza/urgenza laddove è in gioco la “vita” delle persone e non la loro “qualità di vita”, ha poco senso ridurre – comunque giustamente – i tempi di attesa dei codici verdi in Pronto Soccorso a Piacenza, grazie alla recente ristrutturazione del reparto, perché in ospedale bisogna prima arrivarci…possibilmente vivi».

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