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Cronaca Rivergaro / Località Larzano

Mancini (Banda della Magliana): «Sopra Mafia Capitale ci sta qualche pezzo grosso»

L’ex criminale e collaboratore di giustizia Antonio Mancini detto L’Accattone ospite a “La Fabbrica” di Larzano di Rivergaro. «Massimo Carminati uscirà fra un paio d’anni di galera, vedrete. La Roma di oggi è la continuazione del sistema creato da De Pedis. Io ho collaborato: meglio infame che avere la fama di criminale. Spero che i giovani capiscano i miei sbagli»

Anche i più giovani, grazie al successo della serie televisiva “Romanzo Criminale”, conoscono Antonio Mancini detto “L’accattone”, che nel libro di Giancarlo De Cataldo da cui è ripresa la fiction, prende il soprannome di “Ricotta”. Mancini ha parlato di sé, del suo ruolo, dei suoi legami con la “Banda della Magliana”, l’organizzazione malavitosa romana che ha imperversato – lasciando dietro di sé una scia di sangue senza precedenti – nella Capitale tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a “La Fabbrica” di Larzano di Rivergaro. Alla luce del libro “Con il sangue agli occhi” scritto con Federica Sciarelli, l’ex criminale ha raccontato la sua storia attraverso lo spettacolo teatrale del regista Beppe Arena. «Racconto da anni la mia vicenda nelle scuole - ha detto durante la serata, condotta dal giornalista di “Libertà” Giorgio Lambri – per portare il mio esempio negativo, far capire quale strada non bisogna prendere nella vita».

«Non ero – ha detto l’ospite - un cattivo studente da ragazzino: avevo perfino il massimo dei voti in educazione civica quando la mia famiglia si trasferì dall’Abruzzo alla borgata di San Basilio a Roma, luogo di “comunisti e di ladri”. Mio padre era comunista: si alzava tutti i giorni alle 5 per farci avere una misera minestra alla sera. Ma c’era un’altra parte del quartiere che viaggiava con belle macchine, Rolex al polso e tanto oro. E tra essere comunista e ladro ho scelto la seconda… E così ho iniziato con i primi furti: una Lambretta, un’auto e poi son finito al “gabbio”, dove ho imparato cosa significa la violenza». In carcere Mancini legge Pasolini e quando esce si fionda nei cinema a vedere e rivedere il suo film “L’accattone”, che diventa il suo nome di battaglia.  DSC_0083-2

La storia di Mancini – così come quella di Franco Giuseppucci “Er Negro”, Maurizio Abbatino “Crispino”, Enrico de Pedis “Renatino” e gli altri della “Banda della Magliana – è piena di persone “portate a dama”, ovvero accompagnate all’altro mondo. «Ho ucciso tre persone – ha spiegato Mancini a “La Fabbrica” – e mi sento responsabile della morte di un’altra decina. Erano tutti malavitosi come me, era una guerra tutta nostra. A un poliziotto non ho mai sparato in vita mia: ho ucciso solo per non essere ucciso e questa guerra è iniziata quando ci hanno ammazzato Giuseppucci detto Er Negro, ormai conosciuto da tutti come “Er Libanese”». Fantasmi – le persone ammazzate e gli amici persi – che l’ex criminale si sente "dentro" da anni.

Mancini si è fatto 11 anni di carcere prima di diventare “collaboratore di giustizia”, per poi vivere altri 16 anni di arresti domiciliari. «Meglio infame che avere la fama da criminale, ma non chiamatemi “pentito”: ho semplicemente deciso di essere un’altra persona. Tanti giovani in carcere si congratulavano con me per i miei successi criminosi e mi chiedevano di rimettere insieme la banda con loro: non avevano capito niente della nostra storia, dei nostri errori, delle nostre vite gettate al vento. È per questo che ho collaborato con la giustizia e ho deciso di raccontare tutto quello che sapevo».

Stimolato dalle domande di Lambri, l’ex del gruppo Magliana-Testaccio ha passato in rassegna alcuni dei misteri più intricati della Storia italiana del ‘900. «Raffaele Cutolo, boss della Camorra, ci chiese di trovare Aldo Moro. Poi quando gli dicemmo che sapevamo dove lo tenevano nascosto, ci spiegò che “ormai nessuno lo voleva più vivo”… Il banchiere Roberto Calvi – impiccato a Londra sotto un ponte - è stato ammazzato perché, insieme a Rosone, impediva i loschi traffici di denaro sporco tra noi, il Banco Ambrosiano e il Vaticano. Ci pensò De Pedis a farli sistemare. In questi intrallazzi ci è finita anche Emanuela Orlandi: non era la figlia di un semplice messo del Vaticano, era la figlia segreta di un pezzo grosso del Vaticano. Siccome non ci volevano restituire diversi miliardi depositati dalla Banda, venne fatta sparire questa ragazza».

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Uno dei migliori amici di Mancini è stato Renatino De Pedis. «Ha ammazzato e spacciato con me per anni ed è morto incensurato. Se fosse vivo sarebbe diventato almeno sottosegretario. Lui ha creato “il sistema”: la Roma dove lui era il Re, è la stessa di oggi. È stata la sua avidità di potere a distruggere la banda. Il giornalista Mino Pecorelli sapeva troppo di P2 e altre cose. Chiesero a De Pedis di toglierlo di mezzo e della cosa se ne occupò anche Massimo Carminati».

Già, proprio quel Carminati protagonista delle intercettazioni di “Mafia Capitale”, roba dei giorni nostri. Mancini è rimasto sorpreso dello stupore della politica su questo tema. «Ci vogliono prendere per scemi, sapevano tutto. Carminati era spietato già da giovanissimo quando faceva parte dei Nar, i terroristi di destra. Aveva un’aria da borghese e intellettuale, ma era capace di ammazzare tanta gente senza battere ciglio. Ora gli han dato il 41/bis ma vedrete che con il giro che c’ha fra un paio d’anni sarà fuori di galera…C’è qualcuno di "grosso" sopra lui e sopra “Mafia Capitale”, così come sopra la Banda della Magliana ci stava Andreotti. Io racconto la verità ma nei Tribunali spesso non sono riuscito a dimostrare con le prove alcuni coinvolgimenti di politici. Se fai il nome di uno sconosciuto, lo sbattono subito dentro. Se faccio il nome di un politico, vogliono essere certi di quello che dico». Insomma, per capire la storia degli ultimi decenni del nostro Paese bisogna ripercorrere le vicende della Banda della Magliana. Ma Mancini non ripone troppa fiducia nella giustizia italiana, a cui ha affidato le sue testimonianze di collaboratore. «Sapeste in quante vicende - ha concluso amaro - sono stato giudicato assolto e in realtà sapevo benissimo di essere colpevole…».

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