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Economia

Solo con una visione pragmatica si può rilanciare l’Unione Europea

Il dibattito in Università Cattolica durante la IX lezione "Mario Arcelli"

Nella seconda parte della XI° Lezione "Mario Arcelli" all’Università Cattolica di Piacenza, a fare il punto sulla situazione della costruzione europea e dell’euro, alla luce anche della crisi greca e degli eventi più recenti, dopo l’intervento di Ghizzoni (di cui abbiamo già riferito), è intervenuto Rainer Masera, Preside della Facoltà di Economia dell’Università degli Studi G. Marconi, su "il Futuro dell’Euro in Europa".
Il dibattito è stato introdotto dal Preside della Facoltà di Economia e Giurisprudenza Annamaria Fellegara, coordinato da Francesco Timpano, direttore del Centro Studi CESPEM, con il coinvolgimento dei docenti Giacomo Vaciago e Maurizio Baussola.

Secondo quest’ultimo “la discussione in merito al futuro dell’Unione Europea non può prescindere dalla considerazione che le scelte istituzionali prese in Europa  ‐ a partire dalla fine della 2° guerra mondiale ‐  sono state dettate da un’idea politica di fondo, ovvero creare un quadro economico, sociale ed istituzionale che potesse garantire pace e prosperità alle popolazioni europee uscite drammaticamente provate dalle sciagure della guerra. Anche  la  scelta  di  procedere  verso  l’Unione  Monetaria  va inserita  in  questo contesto  e  può  essere  vista  come  l’ultimo  atto  di  un  ceto  politico  che  aveva  sperimentato quei drammi.

Oggi quel ceto politico – ha rimarcato- non c’è più ed è stato sostituito da un altro che, tuttavia, non ha in sé la medesima autorevolezza e spinta ideale. Al contrario, esso appare  caratterizzato  da  una eccessiva predominanza di visioni “tecnocratiche” assolutamente prive di qualsiasi capacità di aggregare idealmente le popolazioni europee.

L’Europa, invece di rappresentare una sfida culturale e politica in cui libertà e speranza per un futuro di pace e di prosperità si possano realizzare,si è materializzata in un  insieme complesso di regole, norme e direttive sempre più lontane dal comune sentire della gente e la grande recessione europea partita nel 2008 ha accentuato ed ancor più  aggravato questa situazione che, comunque, sarebbe emersa con tempi e modalità diverse. Un esempio di quanto sostenuto in merito alla prevalenza “tecnocratica” è rappresentato, ad esempio, dai vari regolamenti che sono stati prodotti  a seguito dell’aggravarsi della crisi finanziaria nel 2011. In aggiunta a questa visione tecno‐burocratica delle istituzioni europee, sta prevalendo anche una visione dogmatica rispetto alle risposte più appropriate per ricreare un circolo virtuoso che favorisca di nuovo la crescita e riduca la disoccupazione in Europa. Un esempio di dogmatismo è a mio parere rappresentato dalle complesse regole poste ad attuazione del cosiddetto “Fiscal Compact” – il trattato internazionale sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell'Unione Economica e Monetaria  e, in particolare, alla inclusione della regola sul pareggio di bilancio nelle  Costituzioni nazionali o, comunque, nelle legislazioni nazionali ordinarie.

Tuttavia, mi pare anche opportuno sottolineare che ‐  molto probabilmente – la nostra classe politica non era del tutto consapevole di ciò che andava ad approvare. In primo luogo, l’inserimento in Costituzione di una norma che stabilisce il bilancio in pareggio, non fornisce la necessaria flessibilità in presenza di gravi situazioni di crisi economica, com’è appunto quella rappresentata dalla Grande Recessione Europea.

a conseguenza è proprio che il PIL potenziale e quello effettivo tendono a coincidere, rendendo così pressoché nullo l’output gap. Quali sono le conseguenze?  I disavanzi strutturali sono elevati e si richiedono, quindi, manovre fiscali restrittive, quando – invece ‐ sarebbero necessarie manovre di segno opposto. Il nostro governo si è adoperato e credo si stia adoperando proprio per cercare di rivedere questa problematica che rischia, infatti, di limitare fortemente le possibilità – peraltro limitate di  aggiustare  ciclicamente il bilancio dello Stato.

Occorre chiedersi che cosa sia effettivamente il prodotto potenziale di un’economia e, in particolare, di un’economia in recessione. Il potenziale dovrebbe riflettere la capacità di occupare “pienamente” i fattori produttivi, capitale e lavoro, tenendo certamente conto della dinamica della loro produttività totale. Si tratta, quindi, di identificare un tasso di disoccupazione compatibile con un sentiero di crescita almeno coerente con la dinamica dell’output pre‐recessione. In caso contrario, avremmo uno scenario in cui l’aggravarsi della crisi sarebbe amplificato da provvedimenti dettati proprio dalla caduta progressiva ed automatica del prodotto potenziale. In altre parole, l’applicazione acritica e rigida di regole e metodologie economiche rischia di aggravare e non risolvere la crisi economica Europea.

In conclusione , allora, ci sono speranze per preservare il concetto e la natura stessa dell’Europa? Se prevale il dogmatismo e una visione miope e rivolta solo a garantire gli interessi nazionali, probabilmente l’Europa rischia di rompersi in diversi blocchi. Se prevale, invece, una visione pragmatica e al tempo stesso  legata alla tradizione che ha ispirato la nascita dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, allora le speranze di un rilancio dell’Unione Europea possono uscire rafforzate e contribuire così a superare la Grande Recessione”.

Dei benefici e costi dell’Euro ha trattato Giacomo Vaciago dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “ Tutti- ha detto- possono  manifestare la loro opinione sullo spread, sull’Euro, sull’uscita della Grecia e/o dell’Italia dall’Euro, e così via. Ma chi fa politica ‐ cioè decide qualcosa  nell’interesse altrui ‐ dovrebbe avere una minima idea di ciò che sostiene, e non parlare a caso. Servirebbe un’operazione di cultura economica. Se vogliamo davvero decidere cosa fare nei prossimi anni, occorrerebbe almeno sapere: cos’è la moneta; cos’è l’Unione economica e monetaria (UEM) in cui viviamo da 15 anni;  come se ne misurano benefici e costi.

Questi sono tre aspetti essenziali, raramente discussi a livello politico in modo approfondito, anzi spesso del tutto ignorati. L’esperienza degli ultimi 25 anni ci serve a capire gli obiettivi mancati, gli errori commessi e ad affrontare i problemi irrisolti. E’ difficile farlo se la teoria non ci aiuta a capire cosa sarebbe dovuto succedere e invece non è successo, in questi anni.

L’utilità della Moneta‐mercato dipende dalla qualità del mercato stesso. Poiché il mercato è un sistema di regole, è necessario che le regole siano buone (nell’interesse del consumatore), rispettate e fatte rispettare. I benefici dell’Euro dovrebbero derivare dall’aver reso indissolubile un’unione economica che così diventa utile perché produce selezione (via buon mercato) delle virtù (tra loro complementari) di ciascun Paese.

In conclusione, questo era il progetto: largamente non realizzato, anzi in parte tradito. A questo punto, cosa conviene fare? E’ bene ignorare i fatti e discutere a caso? Oppure, è preferibile ricostruire: cosa doveva avvenire, cosa è in realtà successo, e quindi cosa si deve oggi fare? Facevamo già finta di essere in una “unione economica e monetaria” e solo in seguito abbiamo scoperto (ma tanti non lo sanno neppure oggi: dovremmo dirglielo?) che ciò non era vero. Era rimasto un progetto irrealizzato, o meglio incompleto. E’ infatti a volte evidente, che qualcuno sottovaluti, magari solo a fini polemici, quanta strada comune sia già stata percorsa.

L’Emu non è solo una “currency union”, ma non è neppure già una vera unione economica e monetaria: è poco economica, ed è pochissimo monetaria, non è certo un punto di equilibrio stabile. Dovremmo dunque deciderci: andiamo avanti o torniamo indietro? A ben guardare, anche quella scelta è solo retorica, perché la fragilità del progetto moneta‐mercato era evidente già al suo avvio. Se non andiamo avanti ‐ e più velocemente di quanto si fosse fatto nel periodo della “luna di miele”, durata ben dieci anni! ‐ non riusciremo a non andare indietro”. Infine le conclusioni di Francesco Daveri e Federico Arcelli della Johns Hopkins University, Washington.

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