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«Una cosa è il rifiuto delle cure, un altro il rifiuto della vita»

L’intervento di Livio Podrecca, presidente dell’Unione Giuristi cattolici di Piacenza

«Nel processo penale per aiuto al suicidio di D.J. Fabo che si sta celebrando a Milano a carico di Marco Cappato, la Corte di Assise dubita della incostituzionalità dell’art. 580 c.p., che punisce l’aiuto al suicidio, stante la esistenza, a suo dire, nel nostro ordinamento, di un inedito ‘diritto a morire’. La tesi sarebbe stata confermata, da ultimo, con riferimento al diritto di rifiuto dei trattamenti sanitari (tra i quali include la nutrizione ed idratazione artificiale), dalla legge 219/2017, in tema di DAT (Dichiarazione Anticipate di Trattamento). Ma una cosa è il rifiuto delle cure, un altro il rifiuto della vita, vita che nessuno si può dare, ma solo ricevere. La questione di costituzionalità posta dalla Assise meneghina porta ad interrogarsi sui contenuti del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.. Se esistesse un diritto a morire, di fronte a chi, infatti, si volesse suicidare, rivendicando il suo diritto di autodeterminazione, ed avesse redatto un documento di rifiuto preventivo di ogni trattamento sanitario che lo potesse salvare, chi potrebbe legittimamente opporsi alla attuazione di un tale intendimento, impedendolo? E chi, dopo la attuazione, da parte del suicida, delle condotte necessarie (p. es. la assunzione di dosi letali di barbiturici), potrebbe intervenire per adottare i necessari trattamenti salvavita, a fronte di valide e vincolanti dichiarazioni anticipate che preventivamente li rifiutino? Al massimo si potrà ricorrere alla sedazione, che renda indolore, o addirittura piacevole, il trapasso. E se l’agonia si dovesse protrarre, in base agli indirizzi interpretativi correnti nei tribunali, in assenza di DAT sarebbe lecito ricostruire una ipotetica volontà di rifiuto dei trattamenti sulla base di una battuta, magari, proferita una volta tra amici. Così è stato fatto per Eluana Englaro. Se un tempo si poteva presumere la prevalenza dell’attaccamento istintivo, biologico, alla vita, oggi pare che nessuno possa più interporsi tra l’individuo e la sua volontà di darsi la morte, perché aumenta la considerazione del bene vita come una proprietà privata e della autodeterminazione come diritto assoluto ed intangibile della persona. Ognuno pensa di appartenere solo a se stesso. Eppure nulla di ciò che abbiamo viene da noi: il corpo, il respiro, la mente. Tutto ci è stato dato, non abbiamo scelto noi di venire al mondo e nulla porteremo con noi quando ce ne andremo. E, inevitabilmente, saranno altri a decidere per noi quando noi non potremo più farlo. Quanto alla autodeterminazione, ci siamo mai chiesti che cosa c’è di veramente nostro nelle scelte che facciamo? Chi orienta i nostri gusti e le nostre scelte, chi forma le nostre opinioni e chi, finalmente, citando il titolo di un bel libro di Anna Oliverio Ferraris, manipola le nostre menti? Qualcuno, dopo avere distrutto la famiglia, cerca di renderci sempre più soli, fragili e, così, manipolabili. Immersi nella illusione tecnologica dei social network e di improbabili clouds, crediamo di avere tutto, e non abbiamo niente. Siamo sempre più patologicamente soli e disperati, in una emergenza per fronteggiare la quale in Gran Bretagna è stato istituito il Ministero della Solitudine. Quello del diritto a morire è un freddo ed ineccepibile teorema, del quale è docile corollario il diritto ad una morte senza dolore. Una morte dolce, appunto, dal greco eutanasia. La questione posta dalla 1^ Corte di Assise di Milano rende, così, evidente l’avanzato stato di sgretolamento della nostra società, ed il suo inesorabile progredire verso un più intenso grado di disumanità. Una società che rifiuta la vita come bene supremo e ne ammette la legittima disponibilità in capo al singolo autodenuncia il proprio triste declino, perché il bene della vita costituisce il presupposto ed il fondamento primo della dignità della persona e della società stessa. Dalla sua difesa scaturisce la scintilla del vincolo solidale tra i consociati, per cui ci apparteniamo reciprocamente e siamo responsabili gli uni degli altri. Il desiderio di morire può essere l’esito di una vita sola e disperata. La solitudine è un male esistenziale che attecchisce nell’intimo e si irradia progressivamente a tutto l’essere. La cultura della morte esprime il gelo ed il vuoto relazionale, che ben può nascondersi anche dietro le apparenze di una esistenza chiassosa e movimentata. Tanti suicidi e morti celebri sono lì a testimonarcelo. Assistere impotenti e, magari, indifferenti, alle morti altrui: è questa la civiltà, l’agognato traguardo a cui tendiamo? Forse è ora di chiederselo».

Livio Podrecca – Presidente UGCI Piacenza

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