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Giovedì, 28 Marzo 2024
Attualità Pecorara

“Addio alla vita con parole d’amore”, il ricordo di Cesare Pavese al Valtidoncello di Pecorara

Pavese, innamorato fino alla fine. Innamoratissimo dell’amore e della vita. Fino al fondo dei suoi giorni drammaticamente spezzatisi a 42 anni in un fine agosto  di 70 anni fa. Ho ricordato così a Pecorara quell’antico ragazzo che è sempre stato per tutta la vita, parlandone durante la cerimonia conclusiva del 32° Premio di poesia Valtidoncello.

Che senso ha un concorso di poesia se non offre anche esempi di vera poesia. Così io ho proposto Pavese e Giovanni Dotti ha rinverdito la memoria di Rodolfo Quadrelli, bella figura di letterato e di poeta che dal giorno della sua morte, nel 1984, riposa nel cimitero di Caminata, dove la sua tomba è illuminata da alcuni suoi splendidi versi.

Pavese l’avevo ricordato anche vent’anni prima, per il mezzo secolo dalla sua morte, sempre lì a Pecorara per il “Valtidoncello”, dentro il teatrino parrocchiale, perché era una domenica di pioggia, mentre quest’anno era una giornata di caldo sole.

L’ho ricordato da vivo e non da morto, poiché Cesare Pavese continua a vivere attraverso i suoi libri, che non sono solo la sua cenere, come ebbe a dire proprio in quei giorni, ma sono anche la sua discendenza. Ho parlato di lui usando le sue parole, leggendo una sua lettera d’amore, traboccante di un amore quasi allucinato, folle.

“Ogni tuo ballo è un giorno di meno nella mia vita. Me ne restano pochi”.

In quel mese d’agosto del 1950 che non finirà, Pavese era stato per una breve vacanza a Bocca di Magra e lì aveva conosciuto una ragazza, ed era come impazzito d’amore per lei. Gli amici scuotevano la testa. Natalia Ginsburg borbottava: “Prima smania per la bionda, adesso per la mora”.

La bionda è l’attrice americana Constance Dowling, che Pavese chiama Connie. La mora è la ragazza incontrata a Bocca di Magra che Pavese chiama Pierina.

“Cara Pierina, io sono, come si dice, alla fine della candela. Pierina, se mi sono innamorato di te non è soltanto perché, come si dice, ti desiderassi, ma perché tu sei della mia stessa levatura, e ti muovi e parli come, da uomo, farei io se, invece d’imparare a scrivere, avessi avuto il tempo d’imparare a stare al mondo”.

La Ginsburg seguitava a brontolare “Prima la bionda, adesso la mora...”. Non s’era accorta che Cesare era ormai entrato nella fase più acuta della sua crisi depressiva?

“Del resto – continuava l’innamorato nella sua lettera – c’è la stessa eleganza e sicurezza in quello ch’io ho scritto e nelle tue giornate. Ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello ch’io ero a ventott’anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia...”.

“Posso dirti, amore, che...”.

La ragazza che molto romanticamente lui chiama amore è qualcuna dal nome poco romantico, Romilda, che anni dopo si affermerà come abile e avveduta imprenditrice a capo della Carpano e della Baratti e diventerà titolare della casa editrice Bollati-Boringhieri, sarà “qualcuna” che conoscerà e s’intratterrà con personalità di primo piano, ma non scorderà mai per tutta la vita quelle parole tenere stupende strazianti che Pavese le scrisse in quel fatale agosto, ed erano tutte parole gonfie di un’amara volontà di congedo.

Bellissima e giovanissima, 18 anni, uno splendore di gioventù che fulminò Cesare con un innamoramento come avesse pure lui 18 anni, la Pierina era di famiglia  aristocratica di Parma con origini francesi, della casata dei Saint Pierre. Di qui il nome con cui Pavese la ribattezzò.

“Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?”.

E la raffica di impietose domande verso se stesso continua implacabile: “E ricordarti che per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”.

E poi: “L’amore è come la grazia di dio... Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo. Amore”.

La chiama amore, e sembra impazzire mentre la vede ballare quell’estate al mare di Bocca di Magra.

“Mi accorgo che succede sempre mentre tu balli tra la gente… Penso che sia  la musica in cui tu balli, a scavarmi dentro, a scrollarmi il sangue, a farmi fare la faccia feroce (ma è la faccia feroce di un suicida, non altro)”.

Infine, in un’estrema invocazione: “Pierina, ti prego, non sparire – io ti voglio bene”. Firmato Pav.

Ma all’apparire del vero…

Era da tempo che Cesare Pavese insisteva sulla sua ossessione di uccidersi, tanto che ormai tra gli amici non c’era più nessuno che gli credesse. E quando più nessuno se l’aspettava, quella notte di 70 anni fa in una stanza d’albergo… Prima però un ultimo pensiero per la sua Pierina: “Pierina – se non mi hai sepolto nell’acqua della Magra – vivo all’albergo Roma in piazza Carlo Felice. Se mi ci hai sepolto, vivi tu felice, e sappi che di quei giorni mi ricorderò sempre”.

Non aveva tutta l’aria di un invito ad un appuntamento? Sarà l’ultimo dei suoi amori impossibili.

Caro Cesare, anche noi ti ricordiamo sempre, da vivo e da innamorato che bruci d’amore come un falò sotto la luna. Sì, lei era la tua Luna, l’Artemide del tuo Dialogo “La belva” e tu il suo Endimione. Tu la vedevi solo in sogno, non per niente eri l’eterno sognatore, a cui la Luna-Artemide disse: “Tu non dovrai svegliarti mai”. Era la solitudine selvaggia del sogno. Da vivo e da morto.

               

               

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