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Quando a Piacenza si coltivava il riso

Oggi le coltivazioni sono sparite. Nell’800 si tentava di arginare la malaria: l’acqua stagnante della risaia era ricettacolo di insetti e zanzare

Sembra una coltivazione da basso pavese, da vercellese o giù di lì eppure anche qui nel territorio di Piacenza, ricco di torrenti, canali e fiumi, erano presenti alcune estensioni agricole coltivate a riso, che appunto “cresce e vive d’acqua”. E le risaie nel Piacentino, per quanto possa sembrar strano, le ritroviamo già presenti alcuni secoli fa, ed allora andiamo a vedere come era da farsi qui la coltivazione, che aveva addirittura un Regolamento emesso con Regio Decreto del 1875 da parte di Vittorio Emanuele II Re d’Italia.

Il motivo principale di emettere delle regole apposta per i piacentini, a livello addirittura statale, era per il fatto che questo cereale, crescendo in acque stagnanti, rendeva insalubri le aree e quindi le persone, difatti la “febbre perniciosa”, che poi è la malaria, era diffusa ed in quei secoli la medicina ancora si dava molto da fare per poterla combattere in modo più o meno significativo.

Si cominciò a discutere di un più preciso regolamento circa questa coltivazione a causa dei troppi casi malarici, nella seduta del 7 marzo 1874 del Consiglio Provinciale di Piacenza, dal quale estraiamo alcune deliberazioni emerse nelle discussioni dei Consiglieri.

Si legge di “modificazioni nel Regolamento della coltivazione del Riso, in seguito alle malattie verificatesi lo scorso anno in alcuni Comuni”, addirittura si pensò “di dar facoltà al Consiglio di abolire assolutamente le risaie”, si fa presente che “le risaie stabilite a Sarmato e a Fontana Pradosa, riescono perniciose (cioè malariche) mentre quelle a Cotrebbia, alla confluenza del Trebbia col Po, non recarono mai danno alcuno”.

Si fa presente che a “Monticelli vi è una palude sulle cui sponde, sorgono case abitate, ma nessuno fu mai colto da febbri intermittenti” (uno dei sintomi della malaria è febbre altissima che di colpo sale e poi s’abbassa).

Quindi si arriva a deliberare che “le risaie non si potranno stabilire alla distanza di 800 metri dai luoghi abitati da 1 a 3000 persone, di 1800 metri in paesi da 3000 a 8000 persone e di 3600 metri in luoghi di oltre 8000 abitanti” ed i coltivatori nei vari comuni provinciali “andranno avvisati di queste nuove regole” da subito esecutive.

E così sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 febbraio 1875 appare il Decreto a firma del Re circa il “Regolamento per la coltivazione del Riso nella provincia di Piacenza” composto di 18 disposizioni: l’articolo 5 prevede che “gli scoli delle risaie debbano essere condotti lungi dall’abitato”, e poi al numero 9 “le case di abitazione dei risaiuoli” non devono avere finestre verso la risaia e “le camere di almeno una superficie di 20 metri e alte 2 metri e mezzo”.

L’articolo 13 chiarisce che “chiunque voglia stabilire una risaia, dovrà farne dichiarazione scritta sopra carta bollata”, ed anche a quei tempi la burocrazia con tutti i suoi piccoli costi, incombeva sul cittadino. Si precisa che “i lavori delle risaie dovranno cominciarsi soltanto un’ora dopo il levare del sole”, quando oramai le “nebbioline” s’eran alzate “ed essere sospesi un’ora prima del suo tramonto”.

I "risaiuoli piacentini" che hanno risaie che “fronteggiano strade pubbliche” dovranno fare anche un “controfosso” di protezione al non espandersi delle acque. Insomma la preoccupazione maggiore era dovuta al fatto che tanta acqua stagnante, per lunghissimo tempo, fosse ovvio ricettacolo di insetti e zanzare grandi propagatrici della temutissima malaria.

Luoghi definiti “perniciosi” erano Caorso, Calendasco, Mortizza, Rottofreno e Sarmato con ben 4 risaie, tanto che leggiamo in un “Rapporto Sanitario” del 1859 di un medico che scriveva di aver veduto “questa rassegna di febbri nel Piacentino... sì che ho ben potuto adirarmi ed addolorarmi nel vedere tante infelicità... in certune località della Piacentina Provincia vidi tristi casolari e dei più malsani” e quindi il grande numero di decessi “nelle mortuarie tabelle”.

Pian piano con il passare dei decenni questo tipo di coltivazione è sparita dall’agricoltura piacentina, mentre rimane, seppur in forma ridotta, in alcune aree sulla sponda lombarda del fiume Po dove sono rigogliosissime risaie ad esempio nei dintorni di Corte Sant’Andrea, località di passo del Po in barca per i “francigeni” diretti verso Piacenza.

Tutto sommato le autorità piacentine di quel tempo, con queste poche e precise regole, si preoccupavano della salute delle persone, in anni nei quali ogni tipo di malanno “cronico” e seguire le norme di igiene, era già un problema, per questo lottare contro la febbre malarica era ancor più difficile perché molto infettiva e letale.

Umberto Battini

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