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Con la magra del Po potrebbe spuntare “Mafalda”, la “magana” che affondò nel ‘46

I cugini Cesare e Luigi Civardi, discendenti di una famiglia di barcaioli, furono i testimoni dell’affondamento di una barca trainata da cavalli che trasportava cemento: «Non venne mai più recuperata»

Sulla sponda del Grande Fiume a Piacenza, tra i due ponti, restano i segni di un’archeologia industriale legata alla cava di sabbia. Si tratta di quei resti di piloni che funzionavano con un argano a fune per portare la sabbia dalla draga alla riva.

Con la grande secca anomala del fiume chissà se tra gli affioramenti non visti emerge anche una vecchia e imponente magana: la “Mafalda”, lunga 17 metri e tra le più belle che navigassero sul Po in quegli anni, anche a detta degli anziani. La magana era una barca a fondo piatto che trasportava merci pesanti, spostandosi grazie alla forza dei cavalli che la trainavano da riva.

La drammatica vicenda avvenne nel 1946 proprio al ridosso dei ponti bombardati sul Po di Piacenza e ce la raccontano dal loro “casotto” sulle rive del fiume al Pernice di Calendasco i cugini Cesare e Luigi Civardi. Sono discendenti di una famiglia di barcaioli e traghettatori tra le più abili, stimate e rispettate del secolo scorso, quando dagli inizi del ’900 iniziarono l’attività di trasporto sul Po.

La mattina del fatidico dramma Ettore Civardi, con il padre Cesare, lo zio Angelo e gli altri fratelli, caricarono sulla “Mafalda” a Mortizza ben 250 quintali di cemento in polvere. Per risalire la corrente del fiume si attaccava al traino un cavallo che dall’alzaia sulla riva muoveva il pesante carico. Un lavoro lento, faticoso ma che ancora dava la possibilità di vivere di questo. Oggi è un mestiere quasi scomparso.

Arrivato il pesante carico, presso il traliccio del cantiere di sabbie, l’argano che doveva regolare le funi d’acciaio, per lasciar passare l’imbarcazione, a causa di una svista dell’operatore, le risollevò di colpo. La “Mafalda” venne imbrigliata da queste robuste funi, e sollevata in modo da inabissarne una parte, mentre Ettore era al timone e Giacomo a prua. L’equipaggio si gettò a nuoto nel Po per fortuna senza nessun danno fisico, mentre lentamente con il suo carico pesante, la magana si inabissò. Dalla riva anche gli altri fratelli, che portavano il cavallo da traino, assistettero sbigottiti alla scena.

I Civardi erano tutti uomini di fiume e avevano svolto il servizio di leva a Piacenza nel Genio Pontieri: anche il reggimento piacentino intervenne per dare man forte e recuperare la barca sul fondale. Purtroppo, dato il carico estremo e per il fatto che nei giorni seguenti il fiume andò in piena alzandosi di circa quattro metri, le operazioni furono sospese, e la magana andò ormai persa per sempre.

La “Mafalda” che portava il nome della regina, fu lasciata quindi sul fondale, ricoperta dal suo carico di cemento. Immediata partì da parte dei Civardi la ricostruzione di una nuova magana, leggermente più piccola che venne chiamata “Rondine” e costruita con il rovere che comprarono dagli agricoltori di Calendasco.

La grande “Mafalda”, invece, era stata costruita appena dopo la guerra in loco sul Po, presso l’abitazione dei Civardi a Raganella di Calendasco. Qui erano arrivati da Pieve Porto Morone, in bicicletta, i famosi mastri d’ascia, i fratelli Cobianchi che lì vennero ospitati. Nel giro di poche settimane fu terminata e varata. Racconta Cesare Civardi che lui, ancora bambino, ricorda quando venne benedetta, appena poggiata nel Po, dal parroco di Calendasco don Giuseppe Castiglioni. Il sacerdote disse queste precise parole: “Sempre a galla, mai a fondo!” che purtroppo però si ritorsero come triste presagio.

Tra l’altro raccontano che la grande magana venne costruita con i soldi ricevuti dal Governo italiano dopo la Grande Guerra, il motivo era dovuto al fatto che la loro prima magana era stata requisita durante la guerra del 1915-18 e portata sul fiume Piave.

Dopo la guerra, con i ponti bombardati, Cesare Civardi e Guido ottennero anche la licenza di traghettatori sul Po. Unirono assieme due grandi barconi militari e costruirono i poderosi prismi in cemento armato su cui poggiavano gli approdi e i piloni della carrucola posta di traverso sul fiume, che fungeva da “guida” per il traghetto, che era trainato anche da una piccola barca.

Il traghetto funzionò fino agli inizi degli anni ’60 e l’ultimo a gestirlo fu Guido Civardi che abitava al Pernice: l’attraversamento funzionava dall’alba fino al calare della notte, ed era posizionato nella località Manuella, che oggi si raggiunge da Cotrebbia Nuova.

Con la grande secca del Po sono visibili i grandi prismi d’approdo del traghetto, sia sulla sponda piacentina che lombarda, che restano lì come testimoni muti di un’epoca. Qui, dal loro “casoto” sul Po, Luigi e Cesare ci mostrano anche un oggetto a loro molto caro, dal valore simbolico: un picchetto originale della “Mafalda”, con una poderosa catena per poterla fermare sulla riva, un reperto storico che per loro ha un valore particolarissimo.

Il Po ormai da decenni non è più solcato da barcaioli, traghettatori e pescatori di professione, ci rimangono però delle belle e forti testimonianze di vita. Sembrano racconti lontani, persi nelle acque del Grande Fiume eppure possono ancora essere ascoltati “viva voce” da testimoni sicuri, i Civardi di Calendasco, discendenti di una tra le tante ottime famiglie di barcaioli della terra piacentina, di quel piccolo mondo del quale è importante conservarne il ricordo.

Umberto Battini

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