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I dubbi del comitato / Bobbio

«La produzione di neve “tecnica” richiede troppa acqua»

Il comitato “Terme Valtrebbia” e Legambiente: «Il turismo sostenibile permette offerte differenziate, non più inchiodate alla monocultura dello sci»

Riceviamo e pubblichiamo la nota del comitato “Terme Valtrebbia” e di Legambiente sul turismo appenninico legato agli impianti di sci.

«L’assessore regionale Corsini, presentando il piano per il turismo di montagna “Destinazione Appennino”, precisa che non si deve contrapporre l’Appennino bianco a quello verde e non si può prescindere dallo sci per le località Cimone e Corno alle Scale. Per fare sull’Appennino turismo tutto l’anno e avere piste innevate, come in Austria e in Svizzera, occorre investire in tecnologie nuove che, assicura, consumano meno di quelle tradizionali. Meno acqua e meno energia? Lo “snowfarming” è tra le nuove tecnologie. La neve artificiale a marzo-aprile viene ammassata, ricoperta da isolanti e da enormi teloni riflettenti per riutilizzarla. Se ne perde il 30-40%, viene ridistesa a novembre anticipando la stagione. Le nuove tecnologie per produrre neve tecnica non sostituiscono i generatori, cannoni o lance sparaneve, ma li integrano, ottimizzano le fasi di generazione e rallentano lo sciogliersi della neve. Le aziende produttrici ne assicurano l’efficienza anche a basse temperature, ma sono avare nel fornire dettagli tecnici. Chi vuol saperne di più si deve accontentare di pochi dati. Sono queste le nuove tecnologie a cui si riferisce la regione per mantenere le stazioni sciistiche sull’Appennino, ad oggi senza neve? Che siano queste o cannoni ad alta pressione, macchinari che miscelano acqua aria con azoto liquido, la produzione di neve tecnica richiede sempre un’enorme quantità d’acqua. È un problema, soprattutto in zone povere d’acqua.

In Svizzera le piste con neve tecnica raggiungono i 121kmq e per innevarli durante la stagione invernale occorrono 13 miliardi di litri. (Fonte: scheda Funivie Svizzere). Per F. Wolfsperger dell’Istituto per lo Studio di Neve e Valanghe di Davos la neve tecnica ha un limite nei costi energetici e idrici difficili da quantificare, più fa caldo e meno gli impianti di innevamento sono efficienti. Vogliamo riconoscere che sull’Appennino è imboccare un vicolo cieco?

Al Passo del Penice gli impianti sparaneve finanziati dalla regione sono rimasti inutilizzati. Troppo caldo, nei dintorni sorgenti secche, quella del Tidone è un rivolo, la diga del Molato è al 3% e Pecorara è servita da autobotti. È sollevar polemiche chiedersi che senso ha coltivare illusioni su un modello turistico senza futuro? Nel passato tanti bambini hanno imparato a star sugli sci sul Penice: ma in quel passato a dicembre le sorgenti non erano asciutte e nemmeno fiorivano primule e dianthus Garofanini rosa. È voler affossare il turismo e spopolare la montagna chiedersi da dove viene l’acqua per i cannoni del Penice, quando manca a chi ci abita attorno? Gli utenti di un acquedotto autogestito di S. Maria, a metà Penice, fanno i conti da dicembre con una diminuzione di un terzo dell’acqua della sorgente. E meno male che degli oltre 70 utenti in inverno ce ne sono solo 38, perché non basterebbe una cisterna d’acqua da 10metri cubi a settimana e a 450 euro non è una soluzione. Al di là della sorte del piccolo acquedotto, se potrà sopravvivere o no, è urgente una gestione lungimirante della risorsa acqua. Ora riguarda alcune sorgenti del Penice, ma tra pochi anni, dove si prenderà l’acqua in montagna? Quali priorità per usarla al meglio? Quali interventi e quali finanziamenti occorrono?

Nel convegno del 16 dicembre scorso organizzato dal Cai Piacenza su come tutelare ed ottimizzare la risorsa acqua, la ricercatrice post doc Antonucci dell’Università Cattolica, a proposito di suoli impoveriti non in grado di trattenere l’acqua, ha evidenziato come sia sufficiente 1% in più di sostanza organica nel suolo per incrementarne del 10%la sua disponibilità d’acqua. In litri, sono 35,4 litri d’acqua al mq. Come aumentare la sostanza organica? Nella lista degli ammendanti del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali c’è il biochar, un carbone vegetale derivato da stoppie, potature, fogliame secco, scarti da taglio legna o residui vegetali. Il biochar, distribuito e interrato nel suolo, per la sua alta porosità aumenta la ritenzione idrica e dei nutrienti, migliorando la resilienza e la fertilità del suolo. In tempi di siccità, c’è qualche piano per approfondirne l’uso?

Le aree dell’Appennino hanno un potenziale di prodotti alimentari e artigianali di qualità, frutto di materie prime e lavorazioni irraggiungibili dalle produzioni industriali. Un potenziale da valorizzare ed etichettare. La silvicoltura sostenibile fornisce materie prime di pregio per farmacologia e cosmesi. Il turismo sostenibile permette offerte differenziate, non più inchiodate alla monocultura dello sci. Le alternative per adeguarsi ai tempi non mancano. La sostenibilità nelle scelte politiche e negli investimenti per l’Appennino non sono una smania ambientalista, sono la condizione imposta dal clima per la sopravvivenza di tutti».

Legambiente Piacenza- assoc. Comitato Terme e val Trebbia

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