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“Forse che sì, forse che no". L’enigmatico motto scolpito su un palazzo di via Campagna rimane attuale

Regioni e Protezione civile nazionale aggiornano soprattutto con i numeri l’evoluzione quotidiana dell’epidemia Coronavirus. Dalla sarabanda di noi scegliamo parametri omogenei per costruire il report periodico https://www.ilpiacenza.it/cronaca/coronavirus-gli-ultimi-sette-giorni-di-marzo-a-confronto.html, utile per delineare le tendenze della pandemia.

Nell’ambito di uno stesso periodo temporale, abbiamo però rilevato un costante disallineamento tra alcune importanti cifre di dettaglio pubblicate da Ministero e Regione. Abbiamo chiesto chiarimenti alle due istituzioni evidenziando come la difformità possa insinuare dubbi sull’attendibilità dell'una o dell'altra informazione ...

Con il passare dei giorni crescono poi le voci di coloro che ipotizzano cifre decisamente differenti da quelle certificate. E’ un sospetto giustificato? 

La risposta può essere l’enigmatico motto scolpito su un palazzo di via Campagna

“FORSE CHE SÌ, FORSE CHE NO”

Quanto sopra ci dà l’occasione per “sdoganare” l’articolo che segue, redatto per la rubrica “Accadde giorno per giorno oltre 120 anni fa” tratta dal libro “Sei anni di vita piacentina (1894 -1899)” a cura di Corrado Sforza Fogliani e di Antonietta De Micheli. La serie, sospesa per l’incalzare delle cronache sull’epidemia,riprenderà comunque a breve.

Già in una delle prime puntate della rubrica (autunno 2016) avevamo fornito chiarimenti – che ora approfondiamo - sulla enigmatica frase forse-che-si-forse-che-no-uno-2che si può leggere sul vasto edificio al civico 35 di via Campagna. Sulla originale antica facciata di mattoni d’angolo  con la via san Tomaso, scolpita su una pietra vi è la scritta “Forse che si, forse che no”, il cui significato è stato oggetto di varie interpretazioni. Il palazzo antica dimora della famiglia dei Noveliani fu dagli stessi venduto nel1708 ai conti Paveri Fontana; al conte Giuseppe, che non ebbe figli, subentrò nel 1737 il nipote conte Cesare Anguissola di San Damiano.

Non si conosce la datazione della scritta, che appare comunque piuttosto antica. Nel merito, alcuni studiosi hanno ipotizzato che l'epigrafe sia stata collocata al tempo di Napoleone, quando dall’altra parte di via San Tomaso vi era il grande Monastero femminile dello Spirito Santo, demolito nel 1967/68. Scrive Cesare Zilocchi nel “Vocabolarietto di curiosità piacentine”, edito dalla Banca di Piacenza, “Forse che sì forse che no. Sostengono gli storici che tutto scaturì da una controversia per un balcone fra le monache di un convento ivi allogato (dal 1615 al 1810) e il confinante. Ma il popolino ci ricamò una propria versione più salace. Dietro le mura del chiostro, una spregiudicata badessa organizzava allegri festini. L’autorità ecclesiastica aprì allora un’inchiesta. Forse perché erano calunnie senza fondamento, forse perché nella pruriginosa vicenda erano implicati nomi eccellenti, l’indagine finì in niente. La spiritosa badessa – gongolante – esibì quella sibillina frase per irridere la pubblica opinione”.

L’epigrafe è ricordata anche in un capitolo del volume “Piacenza. Storie di una città” dell’architetto Manrico Bissi, edito dalla Banca di Piacenza, nelle cui pagine è richiamata la diatriba del balconcino citata da Zilocchi, osservando che la successiva chiusura napoleonica del Monastero, rese nulla tale opposizione; i proprietari del palazzo poterono così realizzare il loro affaccio (oggi scomparso), ridicolizzando il precedente divieto con quella singolare citazione. Per quanto divertente - osserva Bissi - tale racconto trascura un significativo collegamento storico tra il motto piacentino e un suo omologo diffuso a Mantova.

Tra i tanti sovrani di questa città si ricorda infatti in particolare il marchese Francesco II Gonzaga (1466-1519), grande condottiero e marito di Isabella d'Este, il quale scelse come proprio motto araldico la frase sibillina: "Forse che sì, forse che no”. Tale motto si trova ancora oggi raffigurato insieme allo schema di un labirinto in una delle sale del Palazzo Ducale di Mantova. Secondo la versione turistica ufficiale, tanto il motto araldico così come il simbolo esoterico del labirinto, esprimerebbero le numerose incertezze legate alla fragile condizione dell'Uomo, inconsapevole del proprio destino. Nel 1521, evidenzia l’architetto Bissi, nel palazzo Scotti da Fombio in via G. Taverna, soggiornò il duca di Mantova Federico II Gonzaga, non a caso figlio del marchese Francesco II, che aveva adottato questa frase come suo personale motto araldico. Casualità? Coincidenza?  Forse che sì... forse che no.

La frase è anche il titolo di un romanzo di Gabriele D’Annunzio pubblicato nel 1910. Il Vate la trasse dal motto che – come ricordato da Bissi - figura ripetuto nei meandri di un labirinto fregiante il soffitto di una delle sale del palazzo Gonzaga a Mantova e fu detto alludesse alle difficili condizioni in cui ebbe a trovarsi Vincenzo Gonzaga al tempo delle guerre contro i Turchi.

Abbiamo poi notizia delle riproduzioni fotografiche del soffitto di Mantova e dell’iscrizione sul palazzo piacentino nell’Illustrazione Italiana, n. 40, del 3 ottobre 1909, a pag. 330.

Ma il motto pare non sia stato inventato né per l’uno né per l’altro. Risalirebbe a una frottola musicata da Marchetto Cara, cantore dei Gonzaga fin dal 1495, i cui canti - scrive la Rivista Storica Mantovana, anno 1885 - «s’erano resi tanto popolari a Mantova che alcune volte, prima ancora che fossero intesi alla Corte, si udivano cantare per le pubbliche vie dal popolo» essa comincia appunto:

Forsi che sì forsi che no

El tacer nocer non po.

Forsi che sì, non fia el mondo ognor cossì.

Forsi che sì forsi che no

ecc.

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