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Venerdì, 19 Aprile 2024
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«Corruzione e diritti calpestati, ma anche segnali di civiltà grazie all’Italia. Ecco l’Afghanistan che ho visto»

Intervista al giornalista piacentino Gianfranco Salvatori che nel 2011 effettuò un reportage insieme ai militari italiani di stanza nella base di Herat

Il giornalista piacentino Gianfranco Salvatori è stato un collaboratore di ilpiacenza.it per anni e si è occupato di cronaca giudiziaria. Attualmente è giornalista all’Ufficio comunicazione e informazione dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. La sua esperienza giornalistica comincia alla fine degli Anni 80. Nel tempo ha seguito da vicino le Forze armate e nel 2008 ha frequentato il corso per giornalisti in aree di crisi, organizzato dalla Federazione della stampa e dallo Stato maggiore della difesa. Ha seguito le Forze armate italiane in cinque missioni tra Kosovo, Libano (nel 2012 è stato anche trattenuto per poche ore dai militanti di Hezbollah) e Afghanistan. E’ stato - unico giornalista di Piacenza - al seguito del 2° reggimento Genio pontieri, nel 2004 in Kosovo, in occasione della prima missione di peacekeeping dei soldati piacentini dal termine del Secondo conflitto. E’ autore del libro “Fuori area - Le missioni dei reparti militari piacentini dalla fine della Seconda guerra mondiale” (ED. Parallelo 45) con la prefazione del generale Fabrizio Castagnetti.

Qual è stata la tua esperienza di cronista in Afghanistan?
«E’ stata un’esperienza intensa. Di certo è la missione più dura a cui ho partecipato, anche perché quella terra è dura, cruda, e i segni si vedono sui volti della popolazione, che invecchia precocemente. Una durezza, però, che combacia con la tradizione di quel popolo, che si sente guerriero e che ha la fama di essere il più “tosto” dell’Asia centrale. Come cronista ero a Herat nel dicembre del 2011, nel nord ovest, a Camp Arena, una base molto grande con soldati di tante nazionalità. Il comando degli italiani, all’epoca, era affidato alla Brigata Sassari. Ho avuto la fortuna, nonostante le rigide misure di sicurezza - d’obbligo giubbotto antiproiettile ed elmetto, oltre una scorta armata - di poter vedere diversi posti al di fuori della città e di parlare con diversi amministratori tra cui il direttore di un carcere femminile, un generale dell’esercito afghano, con chi si occupava della ricostruzione della provincia di Herat. I giornalisti italiani erano seguiti dal personale dell’ufficio PI (Pubblica informazione) dell’Esercito e la collaborazione era splendida. Difficile che venissero posti ostacoli alle nostre richieste, tranne che per questioni di sicurezza. Eravamo tutti affamati di vedere, e fotografare e filmare, cosa accadesse fuori dalla base, per le strade, nei villaggi. E, per quanto fosse concesso a un giornalista embedded, ci siamo riusciti, arrivando anche a visitare un posto di polizia, crivellato di proiettili, in una zona desertica, che era presidiato da pochi poliziotti».

Che cosa ti ha colpito di quel Paese e di quella gente?
«La prima volta che andavamo a Herat vidi tante donne con il burqa e rimasi colpito. Quei fantasmi in realtà erano donne, ragazze, anziane. Di certo non era una loro libera scelta, ma una visione distorta di precetti religiosi interpretati e imposti in modo malsano. In una parola, sottomissione della donna. Il Paese, secondo me, è bellissimo. E’ un posto antico, con vedute e spazi a perdita d’occhio. Essenziale. Chiesi come mai al mattino c’era sempre foschia: mi dissero che era polvere in sospensione, che ti entrava da tutte le parti».

Qual era a quell'epoca la situazione militare e politica rispetto a quella odierna?
«Il controllo del territorio era assicurato, anche se non mancavano agguati ai convogli o qualche esplosione dovuta agli ordigni improvvisati nascosti nelle strade sterrate. La formazione di poliziotti e soldati afghani, oggi sotto accusa perché l’esercito di Kabul si è disciolto nel giro di tre mesi, avveniva a Camp Arena: aule moderne, insegnamento in aula, lezioni di tiro e di gestione dell’ordine pubblico. E questo per uomini e donne. Ho partecipato alla nomina dei primi doganieri, addestrati dalla Guardia di finanza, tra i quali c’erano molte donne. Purtroppo già all’epoca si parlava di corruzione sia in ambienti governativi, nell’amministrazione e tra le fila dei tutori dell’ordine. Ci sono 2.500 chilometri di confini sulle montagne, principale via per il traffico di oppio, armi e uomini. Era impensabile che qualche agente non potesse essere convinto ad accettare denaro, cioè 4 o 5 volte il proprio stipendio, per far finta di non vedere chi e cosa passava. Ricordo che per le strade c’erano enormi cartelloni con dei disegni e degli slogan per scoraggiare la corruzione».

Si parlava già di un ritiro delle forze alleate? Pensi che si sarebbe dovuto attendere ancora prima del ritiro?
«Nel febbraio 2009, era stato deciso il ritiro dall’Afghanistan a seguito degli Accordi di Doha, confermato dalla recente decisione del Presidente Usa, Joe Biden. Il resto viene ripetuto dai tg ogni giorno, fino ad arrivare alle parole di Trump e Biden. All’epoca, sembrava molto distante un ritiro e le attività sia militari sia di appoggio alla popolazione proseguivano. Forse ciò che sta accadendo sarà, in parte, svelato fra qualche anno a causa della complessità della situazione che vede sul campo l’Occidente battuto e l’affacciarsi di altre potenze come la Cina o la Russia, senza dimenticare l’Iran. Anche se il ruolo più interessante credo lo abbia avuto il vicino Pakistan, dove i talebani trovarono rifugio e si riorganizzarono dopo l’intervento militare del 2001».

Come giudichi invece la situazione attuale?
«Vorrei essere lì, perché se non si va non si vede. E non si capisce. Da quello che si vede in tv e da quanto si legge, i cambiamenti nella quotidianità non sembrano essere stati forti. Occorre distinguere, però, la vita nelle grandi città da quella nelle zone rurali dove ci si sposta a piedi per chilometri. Ci sono problemi di analfabetismo e ci sono situazioni sanitarie per noi inimmaginabili. Nonostante il miglioramento di tanti aspetti come l’istruzione o la propaganda per migliorare la cura della persona e il rispetto delle donne, c’era la resistenza della popolazione, in parte per ignoranza in parte per la pressione dei talebani. Ad esempio, gli italiani svolgevano campagne per far visitare i bambini e curare loro otiti, problemi agli occhi, alla gola, dovuti a sporcizia, freddo e incuria. Quando un team sanitario militare andava in un villaggio, dove le persone erano scalze e alcuni vivevano con vacche o capre nelle loro case di fango, doveva essere scortato e gli elicotteri dovevano garantire la protezione. E alle visite, si presentavano in pochi. Il team di ricostruzione di Herat, con un progetto tutto italiano, aveva dotato di pompe manuali per l’acqua, come quelle che si vedono nei film western, i 500 villaggi della provincia. Un successo apprezzato anche dagli afgani. Per un occidentale era come essere trasportato indietro di duecento anni».

Sei stato anche nel carcere femminile di Herat...
«Quello, insieme con l’aeroporto costruito sempre dagli italiani, era un fiore all’occhiello di Herat. Un segnale che lo sviluppo e la tutela dei diritti era possibile anche lì. Le detenute, giovani donne che per lo più avevano ammazzato il marito che le vessava, erano in celle aperte e svolgevano diverse attività come la produzione dei famosi tappeti afghani o la creazione di bigiotteria, oltre a corsi di inglese, di estetista, di cucina. C’era un’area gioco per i bambini che potevano stare con le mamme. Tutto questo grazie al materiale arrivato dall’Italia e al cambiamento della precedente direzione, corrotta anch’essa. I soldati italiani visitavano quasi quotidianamente il carcere, guidato da un generale, e si informavano di tutto. Le guardie, tutte donne, avevano soltanto il velo così come le detenute. Avevano un’aria da dure le guardie, con volti scuri e segnati, ma di fronte a una macchina fotografica compariva un gran sorriso».

La ripresa di forza da parte dei Talebani porterà a una recrudescenza del terrorismo a livello globale?
«Difficile prevederlo. L’abbandono dell’Occidente e la mancanza di programmazione degli Usa e della Nato potranno magari far ritenere ai gruppi fondamentalisti radicali che quelli che sembravano invincibili si possono invece battere. Forse è mancato anche l’uso di quella che il generale Fabrizio Castagnetti chiamava “italian way”, cioè la grande capacità di rispetto e di dialogo dei soldati italiani. L’Italia ha fatto il proprio dovere, per quanto le competeva, e lo dimostrano i 54 soldati caduti e gli oltre 700 feriti. Non dimentichiamo, poi, che anche Piacenza ha dato un tributo di sangue per cercare di rendere più umana, migliore e giusta la vita in quei luoghi, con il maresciallo dei pontieri Daniele Paladini ucciso in un attentato».

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