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Venerdì, 26 Aprile 2024
La riflessione

Giovani "interrotti" dalla pandemia: «Si rischia di diventare più deboli e fragili»

Il vescovo Cevolotto: «Tra i fattori di ansia e disagio c’è sicuramente la pandemia, perché ha interrotto il percorso di crescita di molti. Ma alcune tensioni giovanili sono normali, ci sono passato anch’io»

Giovani e stress. Giovani e ansie, che derivano da prestazioni (scolastiche, universitarie, professionali). Giovani che non reggono la tensione e non chiedono aiuto. Purtroppo c’è anche chi arriva a compiere, ritenendosi in un vicolo cieco, un gesto estremo. Le cronache nazionali in questi giorni si sono focalizzate su alcuni casi che hanno fatto discutere. Sono in diversi a lanciare un allarme. Abbiamo posto il tema anche al vescovo, monsignor Adriano Cevolotto, per ascoltare il suo punto di vista.

  • Eccellenza, in questi giorni il dibattito nazionale ha richiamato un tema delicato: l’ennesimo caso di un giovane suicida, alle prese con aspettative nello studio non realizzate. Si parla di studenti alle prese con l’ansia da prestazione, verso gli impegni dello studio, del lavoro, della vita.

Forse, oggi, si accentuano le forme di ansia e preoccupazione. Quando nella vita avvengono delle interruzioni come quelle che sono capitate in questi ultimi anni con la pandemia, si rischia - al di là della consapevolezza - di diventare più deboli e più fragili. Credo che sia cambiata la maturazione dei giovani, pensiamo alle tappe scolastiche. Ogni anno a scuola fa parte di un cammino. Quando questo s’interrompe bruscamente, ti indebolisci. Perché non ti sei sperimentato, non sei maturato. Credo che una delle ragioni delle preoccupazioni dei nostri giovani sia dovuta a questo. È difficile capire le conseguenze degli ultimi due-tre anni che abbiamo vissuto. Però sicuramente il fattore pandemia c’è e ha lasciato il segno. Forse ci rendiamo conto strada facendo delle conseguenze. Quindi non mi stupisco di questo stato d’animo dei ragazzi.

  • Nella società di oggi i giovani sono poco protagonisti. E nella Chiesa?

Non generalizzerei, ma ci sono dei segnali a Piacenza che ci dicono che una parte dei ragazzi continua a coltivare “le domande”. Il fatto che cinquanta giovani scelgano di partecipare ad un ritiro molto intenso, nella nostra Diocesi, non è una cosa da poco. È un segnale interessante, ci indica che ci sono ragazzi che vogliono porsi delle domande e cercare le risposte. Se guardiamo all’insieme, sì, la situazione del rapporto tra giovani e Chiesa preoccupa. Però è un quadro che vediamo da tempo, non da oggi. Non dobbiamo aver paura di fare proposte rivolte ai giovani, al di là che vengano accolte o meno. Bisogna poi avere la pazienza di accompagnarli nelle varie tappe. Non possiamo immaginare che un traguardo sia il punto di partenza.

  • Mi ha colpito una riflessione di Yassine Baradai, presidente della comunità islamica di Piacenza. I giovanissimi figli di stranieri emigrati in Italia, non vengono considerati italiani dai coetanei e della società ma, alla luce del fatto che sono nati e cresciuti qui, non possono identificarsi neanche nel Paese d’origine della famiglia. Così nascono tensioni e inquietudini.

Ci sono dei luoghi che possono essere di mediazione per questi passaggi, che credo siano inevitabili. Ascoltando le storie dei nostri immigrati italiani che andavano all’estero, la seconda generazione ha patito proprio questo sentimento. Sentivano la necessità di radicarsi in quel contesto, ma non erano “nativi” di quella cultura, però allo stesso erano ormai troppo lontani dalle radici familiari. Però la scuola e alcune attività aggregative questo tentativo di “giocarsi insieme” in un nuovo contesto lo devono compiere. L’altra questione seria sono le famiglie e le comunità dalle quali provengono questi giovani. Ci sono purtroppo contesti che accentuano le tensioni. Pensiamo ai fatti più drammatici: genitori che non hanno accettato le libertà dei figli, di chi assume comportamenti “troppo occidentali”. È un momento di crisi per i genitori, perché si trovano costretti a scardinare l’orizzonte culturale dalla quale provengono, che si riflette pesantemente sui figli. Oltre al rapporto con i giovani c’è da fare un lavoro con gli adulti, con le loro famiglie.

  • E monsignor Cevolotto che giovane è stato? Anche lei avrà vissuto qualche “tormento” giovanile.

Stiamo parlando di cinquant’anni fa, era un altro contesto. Devo dire che mi consideravo abbastanza tranquillo. Ho avuto anche io “i miei interrogativi”, verso i 15-16 anni. È stato il momento un po’ più faticoso, per le normali tensioni che si possono vivere a quell’età. Ma ci passano tutti. Anzi, chi non chi le vive da ragazzo, queste fasi, ci passa dopo. Meglio passarci subito.

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